Elezioni in Iraq: momento decisivo o prolungamento dell’impasse per il futuro del Paese?
Middle East & North Africa

Elezioni in Iraq: momento decisivo o prolungamento dell’impasse per il futuro del Paese?

By Antonella Palmiotti
10.07.2021

L’Iraq, sul quale da oltre due anni soffia un vento di proteste e mobilitazioni popolari, si avvicina all’appuntamento elettorale del 10 ottobre 2021 attraversato da sentimenti contrastanti di disillusione e speranza, a causa delle incancrenite e persistenti dinamiche di potere, a loro volta aggravate da un diffuso clima di sfiducia popolare verso l’immutabilità del sistema politico e istituzionale iracheno. Non a caso, le imminenti elezioni si presentano esattamente come riflesso di questa ambivalenza emersa con la rivoluzione popolare dell’ottobre 2019, quando migliaia di giovani iracheni si riversarono nelle strade di Baghdad e delle principali città del Paese per protestare contro un governo incapace di assumere le proprie prerogative e percepito come causa di molti dei mali dello Stato. Proteste, queste, amplificate anche dalla crisi pandemica legata al Covid-19 che ha fatto sì passare in secondo piano le diatribe politiche, ma ha altresì esasperato le rivendicazioni popolari, anche per via delle limitazioni introdotte dalle autorità per scopi – ufficialmente – socio-sanitari. Ad ogni modo, e alla luce dello scenario complesso presentato, se le elezioni potrebbero simboleggiare un momento decisivo per il futuro dell’Iraq, il contesto in cui queste si svolgeranno rappresentano già un elemento di un mutamento in corso sia a livello politico sia di sicurezza, con ripercussioni dirette tanto sull’ambiente regionale e internazionale. Sul piano politico, infatti, le elezioni saranno guidate dalla nuova riforma elettorale che divide i governatorati in distretti per favorire la partecipazione anche di partiti minori e dà agli elettori la possibilità di assegnare la propria preferenza non soltanto ai partiti ma anche ai singoli candidati indipendenti. Tuttavia, il meccanismo della muhasasa ta’ifiyya (il sistema di ripartizione delle cariche politiche), che stabilisce una distribuzione su base etno-settaria delle più alte cariche governative (Presidente della Repubblica, Presidente del Parlamento e Primo Ministro) e dei Ministeri ex-post, sembrerebbe persistere, sotto forme mutevoli, anche nel prossimo futuro. Non a caso, negli anni la muhasasa non solo ha favorito la nascita di dinamiche competitive inter-settarie e l’istituzionalizzazione dei partiti al potere dal 2003, ma ha anche costituito la base di consenso per la cooptazione e la proliferazione di un sistema clientelare all’interno del quale la corruzione è dilagante in tutti i settori dello Stato iracheno. Per questo le elezioni di ottobre raffigureranno una competizione tra le élites radicate nella politica da anni, il cui interesse primario è il mantenimento dello status quo, e nuove minori coalizioni formatesi dalle proteste di ottobre 2019, che al contrario vedono come necessario e improrogabile un cambiamento dell’intero sistema. Da quanto attesta l’Alta Commissione Elettorale Indipendente, alle elezioni si presenteranno 3.249 candidati e 21 coalizioni partitiche, tra le quali figurano la coalizione Power of National State, formata da Haider al-Abadi e Ammar al-Hakim; la coalizione tra Sairoon di Muqtada al-Sadr e il Partito Democratico del Kurdistan (KDP); l’alleanza tra al-Fatah, con a capo Hadi al-Ameri e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK). Competeranno anche nuovi più piccoli partiti, come Imtidad, National Home, Movimento del 25 ottobre, formati dagli stessi protagonisti di quelle manifestazioni del 2019 nella speranza di poter ottenere dei seggi in Parlamento e avere voce nelle dinamiche complesse della politica irachena. È impensabile, però, che questi riescano ad emergere nel variegato panorama partitico esistente poiché molto probabilmente i partiti più forti cercheranno di cooptarli al loro interno, così da assicurarsi un proprio esponente al governo, soprattutto in quei distretti dove sono sicuri di poter vincere. La percezione che ciò possa accadere potrebbe portare alcuni partiti minori e di nuova formazione, così come la maggior parte della popolazione irachena che ha preso parte alle mobilitazioni degli ultimi due anni, a boicottare le elezioni temendo che possano rivelarsi un’inutile farsa. In un simile scenario, le due coalizioni sciite più influenti, ovvero al-Fatah e quella di Sadr, darebbero avvio a un processo negoziale per scegliere un candidato di compromesso come Premier; dunque, sarebbe attivato il medesimo meccanismo a cui si è fatto ricorso finora in Iraq e sarebbe preservato lo status quo. Inoltre, dati i legami esistenti tra Teheran e la coalizione di Muqtda al-Sadr, una potenziale vincita di quest’ultima, che si verificherebbe qualora si registrasse una bassa partecipazione alle urne, significherebbe il persistere dell’influenza iraniana sul Paese, rafforzata maggiormente dalla presenza delle milizie al-Hashd al-Asha‘bi e dal loro ruolo di garanti della sicurezza irachena. Se le elezioni, al contrario, si svolgessero regolarmente, la composizione del Parlamento potrebbe essere più eterogenea e l’entrata di nuovi partiti controbilancerebbe l’influenza di quelli dominanti, sebbene ciò andrebbe ad allungare il tempo delle negoziazioni per l’assegnazione della carica di Primo Ministro. Per quanto inverosimile, se un’opzione tale si verificasse, l’Iraq e il suo popolo avrebbero una qualche speranza che le dinamiche politiche, e con esse anche quelle economiche e sociali, possano migliorare, quanto meno nel medio e lungo periodo. Una bassa affluenza popolare alle urne, tuttavia, potrebbe anche essere causata dall’attuale contesto interno di (in)sicurezza, nel quale il tema del ritiro del contingente americano dal territorio iracheno, previsto per la fine del 2021, continua ad essere ancora al centro del dibattito pubblico e politico. Se la motivazione apparente di una simile decisione potrebbe essere ricondotta alla mozione approvata da Baghdad nel gennaio 2020, dietro di essa sembra celarsi la volontà di Biden di mantenere le promesse fatte al popolo americano: mettere fine alle “guerre eterne” e concentrarsi sulle minacce attuali – come la Cina – invece che rincorrere ancora quelle di 20 anni fa. Tuttavia, nonostante il disimpegno americano sia stato ufficializzato dal Presidente Biden alla fine di luglio, è probabile che non si tradurrà in un effettivo ritiro delle truppe americane (ora dispiegate in 2.500 unità), ma in un cambiamento del ruolo e della missione USA nella più ampia cornice di sicurezza dell’Iraq. Nello specifico, gli Stati Uniti passerebbero da una missione combat a svolgere attività di assistenza e consulenza all’esercito iracheno. In un simile scenario, un ruolo chiave potrebbe essere giocato dalla NATO e dall’Italia, che sarà, dall’aprile del prossimo anno, alla guida della NATO Mission Iraq (NMI), una missione non-combat istituita nel 2018 con l’obiettivo di rafforzare le istituzioni e le forze di sicurezza irachene al fine di sviluppare capacità tali da prevenire una nuova insorgenza dello “Stato Islamico” e rendere più stabile il Paese dei due fiumi. Definita dallo stesso Segretario Generale, Jens Stoltenberg, la “pietra miliare dell’impegno della NATO in Medio Oriente”, la missione conta attualmente 4.000 effettivi dispiegati sul campo, di cui oltre 1.100 militari italiani. Tra gli otto Stati europei partecipanti alla missione, l’Italia, in Iraq da quasi 20 anni prima tramite la missione Antica Babilonia a guida USA, poi attraverso la NATO Training Mission iniziata nel 2004, ed infine come membro della coalizione internazionale a guida USA contro lo “Stato Islamico”, si appresta ad incrementare il suo impegno e coinvolgimento in un Paese strategico per i suoi interessi. Infatti, una presenza più significativa nel teatro iracheno e una cooperazione militare più strutturata con Baghdad, permetterebbe a Roma non soltanto di consolidare la sua presenza nell’area del Levante – partecipando già alla missione United Nations Interim Force in Libano (UNIFIL) –, ma anche di elevare il ruolo di Roma all’interno della NATO e a livello internazionale, presentandosi come una realtà che, più di altre, accetta le sfide e le complessità poste da un contesto provante come quello iracheno. Tuttavia, se per conoscere gli sviluppi nel settore della sicurezza e le possibilità che avrà l’Italia nell’Iraq post-elezioni si dovrà osservare l’evolversi della situazione nei prossimi mesi, il risultato delle elezioni decreterà da subito il destino verso cui andrà incontro il Paese per i prossimi anni. Status quo o cambiamento? Sicuramente, boicottare le elezioni non rappresenta la giusta soluzione per far sì che qualcosa cambi; piuttosto, è necessario che gli iracheni si rechino alle urne ed esprimano la propria preferenza, essendo, però, consapevoli che riformare un sistema richiede tempo e non può verificarsi nel breve periodo. Da uno sguardo d’insieme, però, è molto più facile che le elezioni non portino a particolari cambi di scenario e, quindi, che le coalizioni dominanti, Sadr e la sua rivale al-Fatah, arrivino a negoziare un candidato di compromesso per la carica di Premier. Si tratterebbe, così, di una scena già vista dove il Primo Ministro selezionato – con la figura dell’attuale Premier, Mustafa al-Khadimi, che potrebbe vedersi riconfermato nella carica – non sarebbe in grado di condurre l’Iraq verso uno stato di avanzamento e miglioramento politico, economico e sociale del Paese, preferendo un’azione a corto raggio che quanto meno non complichi o fratturi ulteriormente lo scenario di (in)stabilità nazionale.

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