Oslo trent’anni dopo: dalle speranze di pace ad un presente di tensioni
Middle East & North Africa

Oslo trent’anni dopo: dalle speranze di pace ad un presente di tensioni

By Sara Isabella Leykin
10.02.2023

Il 13 settembre 2023 ha segnato il trentesimo anniversario dalla firma degli Accordi di Oslo. Ad oggi, questa intesa rimane il tentativo diplomatico che, dal 1946, più si è avvicinato ad una risoluzione della questione israelo-palestinese. Tuttavia, il processo ha conosciuto diverse evoluzioni e non in linea con quello che area il framework operativo e politico degli stessi accordi. Così a distanza di 30 anni le aspettative sono state altamente deluse e il più grande obiettivo di Oslo, ovvero riconoscere il diritto ad uno Stato per i Palestinesi, sembra ancora lontano.

Un breve background storico

Per capire il significato di questo processo diplomatico bisogna inquadrare la situazione in Israele e nei Territori nei primi anni Novanta. Nel 1987, i palestinesi iniziarono la prima vera ondata di rivolta contro l’occupazione israeliana, che è passata alla storia come prima intifada. Da una parte, gli israeliani capirono di non essere davvero in grado di gestire proteste così violente; dall’altra, prima, la creazione di Hamas nel 1987 aveva creato un dualismo nel supporto popolare e unilaterale all’OLP, e poi il sostegno fornito da Yasser Arafat all’invasione irachena del Kuwait posero le condizioni per indebolire le istanze dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina dal resto del mondo arabo, privandolo dei necessari finanziamenti esteri. Contemporaneamente, le elezioni del 1992 in Israele cambiarono la leadership al governo: a vincere fu il partito laburista con Yitzhak Rabin, decisamente più propositivo a sedersi al tavolo con l’OLP rispetto al Likud, che aveva vinto nel 1988 con Yitzhak Shamir. Questa “congiunzione astrale senza precedenti”, come descritta dall’allora Ministro degli Esteri israeliano Yossi Beilin, ha permesso che una serie di incontri segreti tra le due fazioni si potessero svolgere ad Oslo, grazie anche alla mediazione norvegese. Questi portarono alla stesura di due accordi, Oslo I e Oslo II, che definirono i passi per quel che sarebbe dovuto essere il compimento della “Two State Solution” .

La nascita dell’Autorità Palestinese e le sue criticità

Uno dei successi più importanti di Oslo fu la creazione dell’Autorità Palestinese (AP). Concepita secondo il modello di gradualità, la AP avrebbe dovuto essere un’organizzazione ad interim per amministrare un (limitato) autogoverno palestinese in Cisgiordania e a Gaza per un periodo di cinque anni, durante il quale si sarebbero dovuti svolgere i negoziati sullo status definitivo. Oslo definì anche una suddivisione dei territori palestinesi in zone operative: l’area A, dove l’AP avrebbe amministrato le questioni civili e di sicurezza in maniera esclusivo; l’area B, dove l’AP si sarebbe dovuto occupare solo di questioni civili, mentre Israele della sicurezza; infine l’area C, dove Israele avrebbe mantenuto in forma unica il controllo della zona. L’idea era quella di applicare un graduale passaggio di controllo sulle aree da Israele all’AP, con il ritiro delle forze israeliane.

Trent’anni dopo si può confermare che questo non è accaduto. L’AP è diventata un sistema disfunzionale, che ha contribuito ad alimentare insicurezza e instabilità per i palestinesi, mentre Israele non solo non ha proceduto ad un richiamo delle sue forze, ma addirittura ha aumentato la sua presenza nei territori palestinesi. Ne è esempio il crescente numero di incursioni delle forze israeliane nelle città della Cisgiordania appartenenti all’area A, che avvengono regolarmente con il lascia passare delle forze di sicurezza palestinesi. Nell’ultimo anno, infatti, le violenze tra soldati israeliani, coloni e palestinesi sono aumentate, con un sempre più ricorrente uso della forza in maniera disproporzionata.

Dal canto suo, l’AP ha instaurato un regime politico che vede attualmente bassi livelli di standard democratici. Dal 2005, anno delle prime elezioni democratiche nel mondo arabo, a capo dell’istituzione vi è Mahmoud Abbas, leader anche del OLP e di Fatah. Abbas, che ha 88 anni e inevitabilmente si sta avvicinando alla fine del suo mandato e la cui successione è ancora lontana dall’essere definita, da alcuni decenni ha accentrato il controllo dei territori, delegittimando di fatto il sistema politico palestinese costruito in Oslo. Attraverso numerosi decreti, Abbas ha consolidato il potere esecutivo, legislativo e giudiziario nelle sue mani. Dal 2007, a seguito dei risultati delle elezioni dell’anno precedente che hanno visto la vittoria di Hamas a Gaza, il Presidente ha dichiarato lo stato di emergenza e sospeso il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), l’organo legislativo dell’AP; da quel momento le leggi sono state prodotte solo attraverso decreti presidenziali. Dal 2018, invece, una serie di decreti hanno minato l’indipendenza del sistema giudiziario, di fatto aumentando il peso dell’esecutivo nelle decisioni delle corti. Allo stesso tempo, Abbas continua a posticipare le elezioni, che dai più recenti sondaggi lo vedono perdere. Il Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR) ha infatti pubblicato ad inizio settembre i risultati di un’indagine condotta a Gaza e in Cisgiordania, che hanno rilevato come il 76% della popolazione palestinese sia insoddisfatta del lavoro di Abbas, con il 78% che vorrebbe le sue dimissioni. Allo stesso tempo, le azioni di Abbas hanno inficiato anche sul consenso sull’AP, che ora più della metà della popolazione vorrebbe fosse dissolta.

La stessa OLP è diventata vittima delle azioni del suo Presidente e più in generale, oscurata dal ruolo dell’AP. Se trent’anni fa l’organizzazione era il perno su cui gravitava la lotta per l’indipedenza del popolo palestinese, ora è diventata uno strumento nelle mani dell’Autorità Palestinese e della sua leadership. Il suo organo legislativo, Consiglio Nazionale Palestinese (PNC), si riunisce solo di rado e i suoi membri non sono eletti direttamente dai palestinesi e tra questi, quelli che appartenevano a fazioni diverse da Fatah sono stati estromessi dall’apparato decisionale dell’OLP, il Comitato esecutivo. Questo è dominato da esponenti di Fatah, da indipendenti e da piccoli gruppi con un seguito pubblico limitato che mostrano tutti fedeltà ad Abbas.

La leadership palestinese soffre anche delle rivalità interne. Dalla guerra civile del 2007 tra Hamas e Fatah, Gaza e la Cisgiordania rimangono amministrate separatamente, e i diversi tentativi di riunificazione continuano a fallire. Dopo un tentativo fallimentare a Istanbul nel 2020, un accordo tra le due parti era stato firmato ad Algeri nell’ottobre del 2022 per nuove elezioni, ma i buoni propositi sono stati di nuovo traditi in un altro incontro avvenuto luglio 2023 ad al-Alamein, che non ha portato a nessun risultato. Parallelamente, il supporto alla resistenza armata continua a crescere. Il confronto con Israele ha conferito legittimità e autorità popolare ai gruppi armati che ora sono sostenuti dal 71% dei palestinesi, consentendo loro di colmare il vuoto di leadership creato dal crollo dell’AP. In risposta, quest’ultima ha attuato una serie di arresti di attivisti di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese e sta sopprimendo sempre di più proteste e critiche nei suoi confronti per chiari motivi di opportunità politica.

Il fronte israeliano e l’occasione persa

A distanza di 30 anni, anche in Israele la situazione è cambiata. Da quasi un anno, a guidare il Paese vi è la coalizione più di estrema destra che il Paese abbia mai avuto, composta da nazionalisti ultrareligiosi con una visione messianica del futuro di Israele, che per niente aiuta la risoluzione pacifica del conflitto. Questi, infatti, sognano il cosiddetto “Israele biblico”, che ricopri tutti quei territori che appartenevano al grande regno di Davide; è chiaro che uno Stato palestinese sarebbe una seria complicazione rispetto alle loro aspettative. Sono, infatti, proprio i leader dei partiti al governo i più forti sostenitori degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Seppur specificando che la questione degli insediamenti sarebbe stata negoziata più avanti, gli accordi di Oslo vietavano la creazione di nuovi insediamenti e qualsiasi altra modifica alla realtà esistente sul territorio. Ma nonostante i divieti, gli insediamenti ha prosperato negli ultimi trent’anni. Oggi giorno, ci sono circa 465.000 coloni in Cisgiordania con circa 300 insediamenti, con altri 230.000 coloni che si aggiungono ai 3.000 che abitano nei quartieri palestinesi a Gerusalemme Est; nel 1993 c’erano 128 insediamenti con una popolazione di 110.000 persone. Dati i divieti di Oslo, molti di questi insediamenti sono stati fatti sotto il nome di “avamposto”, ovvero degli insediamenti costruiti senza il permesso ufficiale del governo, il quale però non ha provveduto alla loro evacuazione. Invece che risentirne, gli insediamenti hanno prosperato dopo Oslo.

Gli accordi erano stati ideati per trovare una soluzione ad uno dei conflitti più divisi del XXI secolo, ma sembra invece aver dato vita ad un nuovo sviluppo. Il fulcro era la creazione di un’entità statuale palestinese, sotto l’etichetta della “soluzione dei due Stati”. Oggigiorno, però, questa soluzione non sembra più essere praticabile e la maggioranza della popolazione, sia quella israeliana sia quella palestinese, sembrano preferirne altri tipi: in un sondaggio condotto dal PSR e dall’Università di Tel Aviv, è risultato che il 33% della popolazione palestinese e il 39 % di quella israeliana (sia ebrei sia arabi) supportano la “soluzione a due Stati”, il risultato più basso dal 2016. Un’alternativa a questa soluzione è quella di una creazione di un unico Stato con pari diritti per tutti i cittadini, ma mentre molti palestinesi lo sostengono, gli israeliani temono di perdere la battaglia demografica, che rischierebbe di porre fine all’identità di Israele come Stato a maggioranza ebraica. Significativo è l’aumento della volontà di entrambe le parti di ricorrere al conflitto aperto contro l’altro: il 31% dei palestinesi e solo il 30% degli ebrei israeliani hanno scelto di “raggiungere un accordo di pace” come passo successivo alla crisi, mentre il 40% dei palestinesi preferirebbe intraprendere una lotta armata contro l’occupazione israeliana con il 26% di ebrei israeliani vorrebbe una guerra definitiva con i palestinesi.

Nel gennaio 2020, un’altra proposta per la soluzione del conflitto venne annunciata dal Presidente statunitense Trump. Il suo piano, intitolato “Peace to Prosperity”, venne definito da egli stesso come l’Accordo del Secolo, che avrebbe portato la pace per almeno ottant’anni. In realtà, sembrava più far credere ad un affossamento definitivo delle negoziazioni che una loro riapertura. Se di facciata il piano proponeva ancora la soluzione a due Stati come il modello su cui era basato, nella realtà accontentava tutte le richieste della destra israeliana capeggiata da Netanyahu, promettendo al Paese di annettere grandi porzioni della Cisgiordania. Il piano, infatti, attraverso una rilettura del territorio, di fatto riconosceva la legittimità degli insediamenti israeliani, donando il 30% delle aree occupate ad Israele; in cambio al futuro Stato palestinese, il quale sarebbe dovuto essere smilitarizzato, avrebbe guadagnato una parte del Deserto del Negev, molto meno fertile rispetto alla Valle del Giordano. Venivano poi riconosciuti l’appartenenza ad Israele del Golan e di Gerusalemme, non più città divisa ma capitale unificata e indivisa di Israele. Se da una parte il piano tendeva la mano agli israeliani, dall’altra ignorava completamente le richieste palestinesi, le quali non hanno potuto far altro che boicottare tale iniziativa.

Una (in)stabilità regionale

I risultati del sondaggio condotto dal PSR però non rimangono solo sulla carta. Negli ultimi mesi, infatti, si è tornati a parlare del possibile scoppio di una “terza intifada” in Cisgiordania, dove le tensioni tra israeliani e palestinesi continuano a crescere. Secondo le stime dell’ Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), da inizio 2023 la violenza da parte palestinese ha causato la morte di 36 israeliani, tra coloni e soldati, colpiti soprattutto da giovani mobilitati dai gruppi armati, che alimentano la rabbia della popolazione. L’esercito israeliano, che è passato dai tradizionali 13 ai 25 battaglioni nell’area, nello stesso periodo ha invece ucciso 212 palestinesi, dato che porta a prevedere il 2023 come l’anno più sanguinoso dal 2004. L’incursione dell’IDF lo scorso luglio per eliminare la presenza dei gruppi jihadisti nel campo profughi di Jenin ha aggravato ancora di più la situazione, causando l’evacuazione dal campo di più di 500 famiglie. Anche a Gerusalemme Est le violenze continuano a salire, dove gli scontri tra gli abitanti palestinesi e i coloni nazionalisti religiosi sono sempre più violenti. Regolari sono anche diventate le escalation sull’Haram al-Sharif/Monte del Tempio, sempre più spesso scenario dell’uso sproporzionato della violenza da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i fedeli musulmani e del crescente numero di visite di attivisti e politici ebrei di destra, contrari all’accordo sullo status quo con la Giordania.

Gli eventi sulla Spianata delle Moschee però raramente si fermano a Gerusalemme. L’aggressione israeliana all’Haram al-Sharif/Monte del Tempio questa primavera, durante il Ramadan e la Pesach, ha scatenato il lancio di razzi su Israele da parte di gruppi palestinesi con sede in Siria e Libano, con il sostegno dell’Iran e del gruppo militare libanese Hezbollah. Negli ultimi mesi, infatti, le escalation nei territori hanno incrementato le tensioni proprio al confine con il Libano meridionale. Il 6 aprile, 34 razzi sono stati lanciati dal confine libanese sulle città israeliane settentrionali, segnando la più grande escalation tra i due Paesi dalla fine della guerra del 2006. Da quel momento in poi, sporadici scontri sono continuati, causando anche qualche incidente tra l’esercito israeliano e quello regolare libanese, come sta accadendo nelle ultime settimane. Al momento, comunque, né Israele né Hezbollah, il grande nemico di Israele con sede in Libano, sono intenzionati a confrontarsi in un conflitto frontale, anche se Nasrallah continua a minacciare Israele. Nel frattempo, anche in Libano le faide tra i gruppi palestinesi stanno minando la sicurezza del Paese. Nel più grande campo profughi palestinesi del Paese, Ain al-Hilweh, in luglio si sono scontrati Fatah e i gruppi jihadisti salafiti, i quali sono stati fermati solo dall’intervento dell’esercito libanese.

La conditio sine qua non di Israele per la firma degli accordi di Oslo è stato il riconoscimento dell’esistenza dello Stato da parte dell’OLP. Per Tel Aviv è, infatti, fondamentale essere legittimato dai Paesi del suo vicinato per assicurarsi sicurezza e stabilità, e se fino a qualche anno fa questo era imprescindibile dalla creazione di uno stato palestinese, ora non è più così. La firma dei cosiddetti “Accordi di Abramo” tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan hanno dimostrato come la questione palestinese abbia perso la sua forza gravitazionale. Anche nelle occasioni in cui il divieto dell’annessione della Cisgiordania fosse la condizione della firma dell’accordo, come nel caso degli UAE, i Paesi Arabi poco hanno fatto per fermare l’aumento di insediamenti nei Territori. Questo anche se nel 2002 i Paesi in questione firmarono l’iniziativa di Pace Araba (API) a guida saudita, che condizionava la piena pace tra Israele e il mondo arabo alla creazione di uno Stato palestinese indipendente. Non riuscendo a imporre alcuna conseguenza reale sull’uso crescente della violenza da parte di Israele in Cisgiordania e sull’erosione dei diritti dei palestinesi, gli accordi sono finiti per alimentare un senso di impunità israeliana nel territorio occupato e indebolire le posizioni negoziali palestinesi.

Un cambio di rotta potrebbe farlo l’Arabia Saudita, l’ultimo Paese che potrebbe avvicinarsi alla normalizzazione con Israele. I sauditi sono interessati a normalizzare i legami con Israele nell’ambito di un accordo più ampio con gli Stati Uniti, che comprende lo sviluppo dell’energia nucleare, di armi avanzate e di un accordo di difesa reciproca. Nelle ultime settimane, che hanno visto importanti sviluppi in questa direzione, varie occasioni hanno visto gli esponenti sauditi manifestare il loro appoggio per l’API, pilastro di qualunque accordo con Israele. Recentemente la visita dell’inviato di Riyadh per la Palestina a Ramallah ha confermato l’importanza per il Regno della questione palestinese e l’interesse per la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale. Se i sauditi manterranno le loro promesse, un maggiore coinvolgimento arabo potrebbe influenzare positivamente le dinamiche sia in Israele sia in Palestina, sostenendo la riconciliazione intra-palestinese e rafforzando le istituzioni nazionali. È ancora però presto per avere la certezza che anche i Sauditi non metteranno i loro interessi nazionali dinanzi alla causa palestinese.

Quale ruolo per l’Italia e l’Unione Europea?

La questione israelo-palestinese rimane un conflitto che, sebbene abbia mutato forma e in parte dinamiche, è pur sempre rimasto divisivo e polarizzante. In tale contesto, l’Unione Europea potrebbe ancora avere un ruolo fondamentale, benché negli ultimi anni abbia in parte abdicato a tale funzione, specialmente dopo lo scoppio della Primavera Araba nel 2011. Tendenzialmente, l’UE ha sempre supportato convintamente le istanze palestinesi attraverso un sostegno diplomatico ed economico: dal 2007, l’Europa ha donato circa 2,5 miliardi di euro per la costruzione delle istituzioni di un futuro stato palestinese, per aiuti umanitari e per pagare i salari del settore pubblico. Negli ultimi anni, però, l’attenzione europea è stata distolta dalle altre crisi internazionali, in primis quella russo-ucraina. Questo ha fatto sì che le donazioni verso altre crisi diminuissero in favore al sostegno del governo di Kiev e all’aumento delle spese per la difesa. L’unica strada percorribile che l’UE potrebbe adottare per il ripristino del percorso diplomatico israelo-palestinese sarebbe quello di aiutare l’AP a riprendere la costruzione delle istituzioni del futuro Stato, attraverso maggiori fondi e il continuo sostegno delle elezioni, per farsi che questo diventi una valida controparte per Israele. Intensificando il proprio impegno diplomatico e anche collaborando con gli altri Paesi della regione mediorientale, gli europei possono svolgere un ruolo positivo nel prevenire un pericoloso conflitto e il collasso dell’AP, situazione che comunque richiederebbe un cambio nelle politiche israeliane.

Nel quadro europeo, l’Italia continua a riservare un ruolo di riferimento importante per ambo le parti. Tuttavia, rispetto al passato, la questione israelo-palestinese ha perso la centralità che aveva fortemente suscitato, anche nella società, in quanto superata da dinamiche internazionali più recenti e di maggiore eco mediatico. Ad ogni modo, il Paese cerca di mantenere buoni rapporti con entrambe le parti, sebbene negli ultimi anni vi è stato un avvicinamento con Israele, motivato da vari interessi comuni. Tra questi vi è il settore energetico, che ha incluso Tel Aviv tra i protagonisti della ricerca della scorsa estate di nuovi rifornitori energetici per l’UE e che ha visto proprio l’ex Premier Mario Draghi visitare il Paese. L’Italia resta comunque ancorata alle posizioni internazionali e statunitense, Paese con cui condivide lo stesso schieramento negli altri conflitti della regione…

Nessuna alternativa alla diplomazia

Dopo 30 anni, le promesse di Oslo sembrano essere fallite. L’entusiasmo iniziale con cui erano stati accolti gli Accordi ha dovuto far presto i conti con le difficoltà della questione, che ancora la caratterizzano soprattutto sul terreno. Le dinamiche dell’area, infatti, non sono migliorate, ma, anzi, si è visto un degradamento di quelle situazioni che proprio con Oslo avrebbero dovuto risolversi: autonomia politica e indipendenza del popolo palestinese, la fine delle violenze, la diminuzione di coloni israeliani nei territori. La mancanza del successo di Oslo trova le colpe proprio nei suoi protagonisti, che invece di collaborare per il raggiungimento degli obiettivi, hanno dato spazio ai propri interessi. A pagarne le spese rimane il popolo palestinese, il vero soggetto degli Accordi che invece rimane sullo sfondo di ogni negoziazione. La persistenza dell’espansione degli insediamenti israeliani e delle violenze dell’IDF nei territori da una parte, e la mancanza di un regime di legittimità condivisa dall’altra, continuano pesarsi e ad alimentare quelle tensioni esistenti da oltre 70 anni. Mentre l’attuazione della soluzione a due Stati si fa sempre più lontana, la tensione tra le due parti continua a crescere, con il rischio ogni giorno più reale che un conflitto scoppi nuovamente.

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