L’Ucraina del post-Orange Revolution: il ritorno di Mosca ed il fallimento della strategia del “ponte euro-russo”.
Russia & Caucasus

L’Ucraina del post-Orange Revolution: il ritorno di Mosca ed il fallimento della strategia del “ponte euro-russo”

By Marco Di Liddo
10.19.2011

Il 23 gennaio del 2005 l’insediamento di Viktor Jushenko quale presidente dell’Ucraina e la nomina di Julia Timoshenko quale Primo Ministro segnarono la vittoria ufficiale della “Pomarancheva Revolyutsyia” (“Rivoluzione Arancione”) e del partito filo-occidentale Vseukrayinske Obyednannya Batkivshchyna (“Unione di degli Ucraini, Patria”), espressione dell’elemento ucrainofono e moderato-nazionalista della popolazione. L’affermazione elettorale del tandem Jushenko-Timoshenko aveva rappresentato il prevalere di un orientamento, nella sua fase iniziale, fortemente europeista ed atlantista in politica estera, di cui l’ingresso nel Wto, nell’Ue e nella Nato erano gli obbiettivi dichiarati.

Il disegno filooccidentale di Jushenko fu frenato in ambito comunitario dal cambiamento di strategia da parte dell’Ue che preferì di rallentare il processo di espansione orientale a scapito dei paesi della penisola Balcanica. Per quanto riguarda la Nato, sull’accesso dell’Ucraina al Map (Membership Action Plan), il programma di preparazione all’ingresso nell’Alleanza Atlantica, incise in modo determinante il rifiuto franco-tedesco nel summit di Bucarest del 2008.

L’ostacolo principale alle trattative fu costituito dal bisogno, da parte dei governi francese e tedesco, di non inasprire i rapporti con la Russia in un momento nel quale Berlino discuteva dell’approvvigionamento energetico e Parigi aveva trattative ben avviate  per la firma di contratti di forniture militari tra le quali spiccavano la vendita delle navi multiruolo Mistral e delle camere termiche prodotte dalla Thales il sistema di puntamento notturno dei MBT (Main Battle Tank) russi T-80. A questi interessi contingenti bisognava aggiungere il rischio di urtare la tradizionale proiezione egemonica della Russia, assolutamente contraria ad un ulteriore avanzamento dell’Ue e della Nato in un’area strategica storicamente legata ad essa.

La crisi economica mondiale del 2009 aveva colpito profondamente l’Ucraina, causando la contrazione del 20% del Pil ed una massiccia crescita della disoccupazione. Il malcontento sociale e la scarsità di risultati nella lotta alla corruzione ed al potere delle oligarchie erano state le prime cause della sconfitta della coalizione della Rivoluzione Arancione e la vittoria, alle presidenziali del gennaio-febbraio 2010, del Partiya Rehioniv (Partito delle Regioni) capeggiato da Victor Yanucovich ed espressione dell’elemento russofono, orientale e filo-russo dell’elettorato. Alla vittoria di Yanucovich aveva contribuito la divisione del fronte della Rivoluzione Arancione dovuto ai contrasti interni tra il Presidente Yushenko ed il Premier Timoshenko, entrambi desiderosi di correre per le presidenziali e di affidare i principali ruoli di potere ai propri fedelissimi, causando, di fatto, una lotta fratricida nella coalizione.

Il nuovo presidente ha immediatamente evidenziato la necessità di dare nuovo slancio alla politica estera del proprio paese bloccata, sin dal momento del’indipendenza, nella rigida dicotomia Russia-EuropaUsa, come per la maggior parte delle ex repubbliche sovietiche. Il progetto di Yanucovich era quello di  intraprendere una strategia equidistante sia da Mosca che da Bruxelles che permettesse la valorizzazione geografica dell’Ucraina quale paese di transito e quindi “ponte” tra i il sistema geopolitico ex-sovetico e quello atlantico.

Nonostante la prima visita diplomatica sia stata compiuta simbolicamente presso i quartier generali dell’Ue,  i primi mesi dell’amministrazione Yanucovich hanno assunto una demarcazione fortemente filorussa. Dopo le due crisi del gas del 2006 e del 2009, massima espressione dello scontro tra il Cremlino ed il tandem Yushenko-Timoshenko, Kiev si è riavvicinata a Mosca sottoscrivendo, nell’aprile 2010 il Trattato di Kharkhiv, un pacchetto di accordi che ha risolto i due annosi contenziosi tra i due paesi, ossia il prezzo di importazione del gas per il mercato ucraino ed il rinnovo dell’affitto della base russa di Sevastopol.  Secondo il trattato, il gigante gasifero Gazprom ha praticato uno sconto del 30% sul prezzo del gas finora praticato nei confronti di Kiev ( passando da 336 a 226 dollari per 1000 metri cubi) in cambio del prolungamento della concessione della base russa in Crimea sino al 2042. Il Cremlino, inoltre si impegnerà a ristrutturare la base garantendo un piano di sviluppo dell’area urbana, la quale produce il 20% del Pil della regione. Con questa decisione Yanucovich ha quindi allontanato ogni residua possibilità di adesione alla Nato, visto che l’alleanza atlantica vieta la presenza di truppe straniere sul territorio di uno stato membro. Kiev si limiterà all’attuale livello di collaborazione  in atto, favorendo così le strategie di sicurezza russe nel Mar Nero, dove sono previste le costruzioni di due nuove basi  a Novorrossinsk ed a Gadauta, in Abkhazia e dove la supremazia regionale russa è stata riaffermata a suo tempo con la vittoria, nel 2008,  nella “Guerra di Agosto” contro la Georgia.

Gli accordi di Kharkhiv hanno rappresentato il quadro giuridico generale per lo sviluppo di ulteriori patti bilaterali concernenti il rafforzamento dei legami commerciali ed industriali tramite fusioni tra le principali industrie operanti nei settori dell’energia nucleare, della siderurgia e dell’aviazione civile.

Tra maggio e giugno del 2010 le relazioni russo-ucraine sembravano assestarsi su una partnership stabile e duratura, tanto da indurre Mosca a proporre a Kiev due progetti di grande portata: l’ingresso nel Csto (Collective Security Treaty Organisation) e l’unificazione dei colossi energetici gasiferi Gazprom e Naftogaz con la relativa cessione dell’intera rete infrastrutturale degli oleodotti ucraini alla Russia. Le significative concessioni di Yanucovich al tandem Medvedev-Putin sono state  originate dal sensibile risparmio che l’accordo di Kharkhiv ha garantito alle finanze pubbliche ucraine, le quali devono far fronte ad una significativa opera di risanamento attraverso rigide politiche di austerity e di riforma fiscale. Il governo vorrebbe soddisfare, in questo modo, alcune delle condizioni e dei parametri finanziari richiesti dal Fmi (Fondo Monetario Internazionale) allo scopo di rendere possibile l’elargizione dell’ultima tranche del prestito concesso nel 2008 ( 6,2 mld di dollari ) e forse di un’ulteriore prestito supplementare di 20 mld di dollari.

A partire dall’autunno 2010, tuttavia, le relazioni russo-ucraine hanno subito un improvviso rallentamento dovuto alla decisione di Mosca di preferire la messa in opera dei gasdotti North e South Stream all’ammodernamento delle rete ucraino-bielorusso-polacca costituita dai due oleodotti “della Solidarietà” e “della Fratellanza”. il Cremlino, infatti, intende bypassare definitivamente i territori di transito rifornendo direttamente i clienti europei occidentali ed affrancandosi dalla condotta strategica e politica ondivaga dei suoi ex-stati satellite.

Appare naturale, quindi, che i rapporti tra Ucraina ed Ue abbiano viaggiato a velocità opposte rispetto a quelli tra Ucraina e Russia. Il riemergere dei contrasti con Mosca ha infatti permesso la ripresa di un dialogo che era andato progressivamente crescendo attraverso la PEV (Politica Europea di Vicinato), il PO (Partenariato Orientale) ed infine l’istituzione dell’agenda di Ammissione Ucraina-Ue.

Nel 2010 lo stanziamento da parte della Commissione Europea di 66 mln di euro nell’ambito del programma ENPI (European Neighbourood and Partnership Instrument)  destinati a Kiev rappresenta un segnale da parte di Bruxelles del tentativo, seppur molto cauto, di inserirsi negli spazi di manovra concessi dalle pause della diplomazia di Mosca e di approfittare dei minimi segnali di avvicinamento ucraini, pur cercando di non scontrarsi frontalmente con gli interessi russi. Naturalmente la riuscita di una simile strategia è legata alla capacità europea di proiettare una politica estera comune e condivisa.

A poco più di un anno dal suo insediamento, il presidente Yanucovich sembra aver abbandonato il progetto del “ponte euro-russo” in favore di una politica internazionale decisamente realista e meno orientata al ruolo di foro negoziale tra Mosca, Bruxelles e Washington.

Tuttavia, in questo momento Yanucovich dispone di poche alternative politiche internazionali. La diarchia moscovita Putin-Medvedev, risolti i problemi inerenti agli hub energetici e conscia di poter trattare con i paesi dell’Europa Occidentale senza l’ingombrante presenza ucraina, costringe Kiev a compiere una scelta strategica definitiva tra Europa e Russia.

Il progetto russo di ricomposizione graduale dello spazio ex-sovietico, attraverso accordi di cooperazione regionale in materia di Difesa e Sicurezza ed implementazione di un’unica area di libero scambio tra i paesi del CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), sino ad oggi ha escluso l’Ucraina, marginalizzata sia per ragioni di opportunità economica legate alle prospettive di crescita degli Stan-Countries dell’Asia centrale, sia come strumento indiretto di pressione.

Anche dal versante comunitario ed atlantico le trattative sono ad un punto morto, soprattutto dopo il recente processo contro l’ex-Premier Timoshenko, la quale è stata condannata a 7 anni di reclusione per abuso di potere per la stipula dell’accordo russo-ucraino sul gas del 2009. I governi europei hanno condannato il processo ravvisando un chiaro intento persecutorio da parte di Yanucovich nei confronti dell’unica oppositrice credibile nell’attuale scenario politico interno. Tuttavia, al di là del fenomeno dell’uso politico della Magistratura, comune a tutte le realtà ex-sovietiche, i capi d’imputazione attribuiti alla Timoshenko non appaiono del tutto fittizi alla luce di due aspetti che hanno caratterizzato l’esperienza politica dell’ex-Premier.

Innanzitutto l’ascesa della “Giovanna d’Arco” ucraina ha rispecchiato le caratteristiche della classe oligarchica post-sovietica. In primo luogo l’affiliazione, grazie al matrimonio con Aleksandr Timoshenko, alla “mafia di Dnepropetrovsk”, il tradizionale nucleo originario della direzione dell’apparato politico ucraino in epoca socialista, e successivamente la costituzione, con modalità non pienamente indagate, di un’azienda di import gasifero russo in Ucraina, la UESU (United Energy Sistem Ukraine), presto divenuta la principale importatrice e distributrice energetica del paese.

In secondo luogo, nel 2009, al momento della firma dell’accordo sul gas, il rapporto tra Yushenko e Timoshenko era già fortemente compromesso e l’allora Premier aveva cercato di emanciparsi dall’euro-atlantismo del Presidente cercando di recuperare sostegno e credibilità agli occhi di Mosca, che allora non aveva ancora individuato il candidato da sostenere per le elezioni dell’anno successivo. Quindi appare possibile che la Timoshenko abbia effettivamente usato tutta la sua influenza politica per concludere l’accordo e risolvere i contrasti a favore di Gazprom e riavvicinarsi a Mosca, soprattutto per non lasciare il paese a corto d’energia durante l’inverno.

Il Processo Timoshenko, tuttavia, ha creato delle preoccupazioni anche in Russia, dove l’entourage di governo teme che la condanna dell’ex-Premier possa portare ad una successiva, ma alquanto improbabile, denuncia del compromesso del 2009 e richiesta di rinegoziazione dell’accordo energetico.

In un momento di grave recessione economica la politica estera ucraina appare in una fase di profonda incertezza e priva di un piano strategico di lungo periodo. Il bisogno di investimenti sia pubblici sia privati appare necessario per ristrutturare un’economia i cui tassi di crescita sono ondivaghi e legati a performance “stagionali” e non sistemiche. Inoltre urge un rinnovamento generale delle infrastrutture ed una riforma burocratica che garantiscano maggiore fluidità al sistema.

In quest’ottica l’avvicinamento euro-atlantico può essere interpretato come un tentativo di accede ai fondi strutturali ed ai finanziamenti agevolati messi a disposizione dalla Ue e di entrare in mercati, quale quello agricolo e minerario, dove i prodotti ucraini risulterebbero competitivi per i minori costi di produzione. Tuttavia il legame con la Russia è ancora l’elemento cardine di tutta la politica ucraina, sia a livello sociale sai a livello economico. Mosca rappresenta ancora il maggior partner commerciale ed energetico di Kiev, il quale non ha  ancora sviluppato una strategia di differenziazione delle forniture che ne permetta un certo distanziamento. Inoltre la presenza di otto milioni di russi etnici (dotati di doppia cittadinanza e doppio passaporto russo-ucraino), pari quasi al 17% della popolazione, concentrati soprattutto nelle province orientali e nella città mineraria di Donetsk, costituisce uno strumento di deterrenza alla luce della dottrina di politica estera approvata dal Cremlino nel 2010, la quale prevede la protezione delle minoranze russe all’estero anche, se necessario, utilizzando lo strumento militare. Il caso dell’Abkhazia dimostra come l’establishment governativo del Cremlino consideri seriamente la possibilità di un intervento “muscolare” nel proprio contesto regionale qualora si manifestasse un rischio agli interessi del paese.

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