La Turchia avanza nel dedalo della crisi libanese
Middle East & North Africa

La Turchia avanza nel dedalo della crisi libanese

By Denise Morenghi
10.15.2020

Recenti fonti di intelligence interne al mondo della diplomazia libanese hanno riportato l’invio di grandi flussi di armi da parte della Turchia nel nord del Libano, in particolare nella zona attorno a Tripoli. Secondo le informazioni trapelate, Ankara utilizzerebbe il volatile territorio siriano per raggiungere il confine, mai fissato in modo definitivo, con la parte settentrionale del Paese dei cedri. È proprio nel nord del Libano che la frontiera è meno pattugliata, specialmente nel Wadi Khaled, corridoio del contrabbando internazionale. Sebbene le informazioni non siano state confermate ufficialmente, l’alta probabilità che questi flussi di armi siano reali, o quantomeno verosimili, viene confermata da altri eventi recenti. Innanzitutto, nel mese di luglio due cittadini turchi e due cittadini siriani sono stati arrestati dalle autorità libanesi a bordo di un volo privato diretto a Beirut dalla Turchia, mentre tentavano di introdurre 4 milioni di dollari in contanti in territorio libanese. Secondo l’allora Ministro dell’Interno Mohammad Fahmi, la somma sarebbe stata destinata al finanziamento di cellule terroriste o delle correnti più violente delle manifestazioni di piazza, un’ipotesi sostenuta anche dalle conversazioni Whatsapp pervenute sui telefoni degli arrestati.

In secondo luogo, la zona di Tripoli è ricca di associazioni e iniziative legate alla Turchia, specialmente promosse dall’Agenzia turca per la Cooperazione e lo Sviluppo TÄ°KA, la quale, ad esempio, fornisce periodicamente beni di prima necessità alle famiglie dell’area di Tripoli. La TÄ°KA, peraltro, dal luglio 2018, quando è diventata un’entità pubblica con un budget dedicato, è uno dei principali vettori della politica interna ed estera del Presidente turco Recep Tayyip ErdoÄŸan. Si è configurata come la longa manus turca per la cosiddetta diplomazia umanitaria, con una rete estesa a livello globale, dal Sahel all’Asia Centrale fino all’America Latina, finalizzata a promuovere gli interessi politici ed economici di Ankara. Altro importante strumento della politica estera di ErdoÄŸan, e sempre inseribile nel contesto della diplomazia umanitaria, è l’ONG turca Kızılay o Red Crescent. Questa si configura a metà tra l’organizzazione non statale e l’organo statale ed è, ad ogni modo, molto vicina al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di ErdoÄŸan. Anche Kızılay è intervenuta prontamente in seguito all’esplosione di Beirut ed è attiva nell’area di Tripoli con aiuti alimentari ed umanitari, come ampiamente pubblicizzato dalla pagina Facebook dell’Ambasciata turca in Libano. Quest’ultima, inoltre, sta incentivando moltissimo lo studio della lingua turca in Libano, anche attraverso l’apertura di centri culturali ad hoc.

Infine, dal punto di vista prettamente istituzionale, l’importanza del teatro libanese agli occhi di Ankara risulta evidente, data la prontezza e la reattività turca ad intervenire in vari modi nel Paese in seguito all’esplosione del porto di Beirut, avvenuta il 4 agosto scorso. Non solo la Turchia ha inviato ingenti aiuti umanitari nel Paese, ma ha anche finalizzato e inaugurato un ospedale turco nella zona di Sidone, sempre a maggioranza sunnita, con la collaborazione della TÄ°KA, del Ministero della Salute turco e dell’Ambasciata turca in Libano e sotto la diretta direzione di ErdoÄŸan. Ankara ha inoltre offerto la cittadinanza a chiunque la richiedesse dichiarandosi turco e, forse la più rilevante tra le mosse turche, si è detta pronta a ricostruire il porto di Beirut e a fornire il porto turco di Mersin, non lontano dal confine con la Siria, a supporto dei traffici commerciali libanesi.

In effetti, l’attuale contesto di crisi all’interno del Libano potrebbe offrire considerevoli vantaggi alla Turchia e ad una tacita infiltrazione turca dal basso, in un modus operandi che il Paese ha già utilizzato in altri scenari, come quello siriano e quello iracheno, almeno dal 2009, anno dell’insediamento di Ahmet DavutoÄŸlu come Ministro degli Esteri. Cavalcando la tradizione di un comune passato ottomano, dall’appartenenza all’etnia turcomanna e alla religione musulmana sunnita, DavutoÄŸlu ha improntato la politica estera turca sullo stimolo delle differenze confessionali presenti nei vari Paesi del Medio Oriente e sempre più strumentalizzate per scopi politici negli ultimi decenni da vari attori, in primis dall’Iran. Il Libano, emblema delle differenze confessionali e del clientelismo settario, si presta molto bene all’applicazione di tale paradigma, specialmente in un momento di instabilità politica, economica e istituzionale come quella che sta attraversando: in un momento in cui il patto sociale dello Stato arabo è in pieno disfacimento, interfacciarsi con gruppi specifici caratterizzati da identità ben determinate è più redditizio per gli attori esterni rispetto ad approcciarsi con le istituzioni statali. Dal punto di vista strutturale, la dislocazione della popolazione sul territorio libanese è orientata secondo linee confessionali: in altre parole, ogni regione è tradizionalmente abitata da una certa comunità religiosa, lì concentrata con il proprio sistema di welfare, scuole, ospedali e servizi clientelari. Fare leva su sentimenti identitari, siano essi religiosi o etnici, è dunque più semplice in Libano rispetto ad altri Paesi. La zona di Tripoli, presunta destinataria delle armi turche, è il caposaldo dei sunniti libanesi, comprese le frange islamiste meno moderate. Regione nettamente più povera rispetto a molte altre, è probabilmente una delle aree che ha più sofferto dello status quo instauratosi in seguito agli accordi di Taif, che hanno posto fine alla guerra civile (1975-1990), a causa di una forte marginalizzazione e delle disuguaglianze ad essa conseguenti.

La città di Tripoli è anche sede di varie organizzazioni legate più o meno direttamente alla Fratellanza Musulmana, di cui proprio la Turchia è diventata negli ultimi anni hub regionale. Spicca preminentemente, ad esempio, la Jamaa al-Islamiya, fondata proprio a Tripoli nel 1964 come ramo libanese della Fratellanza. Il gruppo intrattiene strette relazioni con il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del Presidente turco Recep Tayyip ErdoÄŸan, il quale fornisce un budget mensile e visite periodiche alla Jamaa. Se l’organizzazione finora non ha avuto un ruolo politico predominante, principalmente a causa della prevalenza del Movimento Futuro di Saad al-Hariri nella frazione sunnita del Parlamento, il sostegno e la partecipazione della Jamaa alle proteste esplose dall’ottobre 2019 le ha garantito un aumentato sostegno popolare all’interno della comunità sunnita, specialmente grazie alla sua accezione di gruppo sunnita che non ha mai esercitato alcun grado di controllo politico nel Paese. In effetti, la Jamaa ha fin da subito supportato le mobilitazioni popolari, in primis per la comune volontà di abolire il settarismo politico, visto dal gruppo come il principale ostacolo al rivestimento di un ruolo maggiore in campo politico. Il nuovo slancio politico della Jamaa potrebbe renderla, agli occhi della Turchia, un referente importante su cui puntare per garantirsi una presenza più stabile in Libano, anche e soprattutto dopo la perdita di fiducia popolare nei movimenti politici più tradizionali.

Ankara non si limita tuttavia alla Jamaa come suo referente libanese. Al contrario, esistono altri gruppi e individui con legami accertati con la Turchia. Ad esempio, al-Ahbash, movimento sufi sunnita fondato nel 1980 da Abdullah al-Harari e fiero rivale della Jamaa, ma anche i Forum di Nabil al-Halabi, finanziati da Baha al-Hariri, fratello dell’ex-premier Saad al-Hariri. I forum sono attivi a Tripoli e nella regione turca dell’Hatay, dove alcune fonti sostengono che vengano organizzati corsi tenuti dai leader dell’opposizione siriana e destinati ai leader tripolini, per organizzare i movimenti di protesta popolare. Anche questo, se verificato, risulterebbe uno snodo cruciale della strategia turca in Libano, tipica, peraltro, del modus operandi di Ankara in Medio Oriente, ad esempio in Siria. Correlatamente, non vanno dimenticati i movimenti siriani di opposizione al Presidente Bashar al-Assad concentrati a Tripoli, apertamente appoggiati da Ankara e dai gruppi sunniti libanesi. Inoltre, attorno alla zona di Tripoli sono sorte una serie di associazioni turco-libanesi, come la Lebanese Turkish Friendship Association, che offrono supporto e borse di studio in Turchia per cittadini libanesi, o l’Associazione Turcomanna-Libanese, che fa leva sulla comune appartenenza etnica delle minoranze turche. Peraltro, il comune passato ottomano viene anche sottolineato da progetti avanzati direttamente dalle autorità turche, come la ristrutturazione della storica stazione ferroviaria dell’Hijaz a Tripoli.

Infine, un altro referente importante per la Turchia sarebbe il Maggiore Generale Ashraf Rifi, uno dei leader locali di Tripoli da sempre animato dall’ambizione di guidare tutto il fronte sunnita, che ha coperto i ruoli di Direttore Generale delle Forze di Sicurezza Interna prima, e Ministro della Giustizia poi. Dopo la conclusione dei suoi mandati istituzionali avrebbe mantenuto le comunicazioni e il coordinamento con i servizi segreti turchi, che in precedenza intratteneva a livello ufficiale. Le comunicazioni si sarebbero interrotte dopo la perdita di Rifi alle ultime elezioni parlamentari. Sebbene lo stesso leader sunnita abbia ripetutamente negato tanto che la Turchia abbia una presenza a Tripoli, quanto l’esistenza di un legame tra la sua persona e Ankara, i suoi seguaci, rappresentanti della comunità sunnita tripolina, dopo la vittoria di ErdoÄŸan alle elezioni in Turchia hanno sfilato per le strade di Tripoli agitando la bandiera turca, in un chiaro segnale di supporto al Sultano.

Gli elementi sopracitati sottolineano quanto la presenza turca nel nord del Libano sia corroborata, tanto da un punto di vista alto e istituzionale, quanto basso e popolare. Le motivazioni che si celano dietro questa infiltrazione, così come i vantaggi che Ankara potrebbe trarne, sono da individuarsi in due dinamiche geopolitiche di cui la Turchia si trova attualmente protagonista, e all’interno delle quali il Libano è snodo cruciale grazie alla sua posizione, geograficamente e politicamente parlando.

In primo luogo, un’accresciuta presenza turca a sostegno delle comunità sunnite in Libano fa da contraltare all’appoggio, ormai in erosione, che queste ultime ricevevano dall’Arabia Saudita. In effetti, quest’ultima negli ultimi anni ha nettamente diminuito il proprio coinvolgimento negli intricati affari libanesi, specialmente dopo la disputa del 2017, quando il Primo Ministro libanese Saad al-Hariri si è improvvisamente dimesso, presumibilmente sotto pressioni saudite, dopo essere stato detenute in circostanze poco chiare a Riyadh. Il motivo principale dietro l’erosione del supporto saudita è l’eccessivo controllo esercitato da Hezbollah, e dunque dall’Iran, sulle sorti del Paese. Nel post-2017 Riyadh ha diminuito anche il versamento di aiuti economici destinati alla popolazione sunnita, che ora annovera anche i sauditi tra le cause del rapido declino del Paese. Se storicamente in Libano le tradizionali divisioni confessionali sono state rinfrancate dal supporto di sponsor internazionali, come la Francia per la componente maronita e l’Iran per quella sciita, l’eclissi della presenza saudita mette la comunità sunnita in condizione di cercare nuovi referenti esterni. In questo contesto, la Turchia emerge in modo sempre più evidente come candidato d’eccezione: lo stesso ex-Primo Ministro Hariri, un tempo fortemente filo-saudita, intrattiene stretti legami con il Presidente turco ErdoÄŸan, tanto da essere invitato al matrimonio della figlia. Non è un caso, dunque, che all’indomani dell’esplosione del porto di Beirut, alla visita del Presidente francese Macron, rappresentante dei tradizionali alleati dei cristiani maroniti, sia seguita prontamente quella del Vicepresidente turco Fuat Oktay e del Ministro degli Esteri turco Mevlüt ÇavuÅŸoÄŸlu, rappresentanti degli aspiranti alleati dei sunniti. Questo, in ottica geopolitica, è riflesso della disputa regionale tra Ankara e le monarchie del Golfo per il dominio del mondo sunnita, in cui all’affiliazione turca alla Fratellanza Musulmana si contrappone il deciso rigetto della stessa da parte del Golfo.

D’altra parte, la posizione geografica del Libano, affacciato sul mar Mediterraneo, lo rende un elemento cruciale anche per un’altra partita in cui Ankara è implicata, ossia quella del Mediterraneo Orientale. Il Libano, infatti, è l’unico Paese dell’area a non aver ancora assunto una posizione netta a favore di uno dei due schieramenti, quello turco contrapposto a quello greco, appoggiato da Egitto, Israele, Cipro e Giordania, tra gli altri. La Turchia teme di venire isolata dalla partita degli idrocarburi, legata a doppio filo a quella della determinazione delle zone economiche esclusive (ZEE) nel Mediterraneo Orientale. Le tensioni nell’area si sono notevolmente innalzate nell’ultimo periodo, portando anche al rischio di vere e proprie escalation, sia tra Turchia e Grecia, sia tra Turchia e Francia. In questo contesto, l’offerta turca di utilizzare il porto di Mersin per i traffici libanesi e di ricostruire il porto di Beirut è con tutta probabilità sostenuta da una valutazione strategica di più ampio respiro, inserita nelle dinamiche della contesa mediterranea. Questo a maggior ragione se considerata la disputa aperta tra Libano e Israele sulla demarcazione del confine marittimo, che potrebbe far propendere Beirut verso un posizionamento filoturco. Per la Turchia il Libano è l’unico e l’ultimo potenziale alleato rimasto nell’area del Mediterraneo Orientale, se non si conta la Repubblica Turca di Cipro del Nord, una considerazione che sottolinea la portata degli interessi di Ankara nel garantirsi un piede fisso nel Paese. Questo anche per avere un dossier ulteriore da utilizzare nel fronteggiare, in modo più o meno diretto, la Francia, fortemente coinvolta nelle dinamiche libanesi specialmente in seguito all’esplosione del 4 agosto.

L’attuale situazione di crisi in Libano, specialmente nella sua intersezione con l’erosione della presenza saudita e le tensioni nel Mediterraneo Orientale, rappresenta una grande opportunità che Ankara sembra sfruttare per ritagliarsi un ruolo all’interno del Paese. Questo avviene tanto dall’alto, con relazioni istituzionali esplicite ed evidenti, quanto dal basso, co-optando le comunità sunnite delle zone a maggioranza sunnita, come Tripoli. Tuttavia, quest’ultimo punto potrebbe avere forti ripercussioni nelle dinamiche confessionali libanesi, apparentemente nascoste dalle richieste della cosiddetta rivoluzione, ma sempre importanti negli equilibri del Paese. Questo soprattutto se venisse confermata l’informazione riguardo ai flussi di armi inviati ai movimenti sunniti di Tripoli, già autori di episodi violenti negli ultimi mesi, anche nel corso delle proteste antigovernative. Armare i gruppi sunniti, specialmente in un vuoto di potere come quello attuale, rischierebbe di polarizzare nuovamente le posizioni lungo linee settarie, specialmente dato che il principale ostacolo alla formazione di un nuovo governo è rappresentato dall’ostinazione dei partiti sciiti, in primis Hezbollah e Amal. Con il Partito di Dio, inoltre, i gruppi sunniti hanno avuto, negli anni, molte frizioni, soprattutto derivanti dall’appoggio di due fazioni contrapposte nel conflitto siriano – Assad per Hezbollah e i ribelli per le comunità sunnite. Lo stesso Ashraf Rifi, ex-Ministro della Giustizia molto vicino alla Turchia, è uno dei maggiori oppositori sia del regime siriano che del Partito di Dio: oltre alle aperte espressioni di sfida rivolte a questi ultimi, la sua dimissione dal mandato istituzionale è stata da molti letta come un gesto di protesta contro il ruolo dominante di Hezbollah. In questo contesto, e specialmente in condizioni di forte povertà e marginalizzazione come quelle vissute da parte della popolazione di Tripoli, il supporto di una potenza esterna potrebbe incentivare gli elementi più veementi delle organizzazioni sunnite a sfogare il proprio malcontento in modo violento, sfruttando le tensioni, specialmente confessionali, già esistenti.

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