La scommessa cinese sull’eradicazione della povertà
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La scommessa cinese sull’eradicazione della povertà

By Leonardo Palma
03.04.2021

Nel dicembre 2020, durante il discorso di fine anno, il Presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che nonostante le terribili conseguenze della pandemia di covid-19, la Repubblica Popolare era riuscita a raggiungere l’agognato obiettivo di eradicare la povertà assoluta dal Paese. Oltre 100 milioni di persone, pari a circa 1/9 della popolazione mondiale, sarebbero state portate al di sopra della soglia di povertà. Sommati i risultati raggiunti nei precedenti quarant’anni, la cifra salirebbe a quasi 770 milioni.

Quando nel 2013 Xi Jinping fu eletto Segretario del Partito Comunista Cinese (PCC), la sfida dell’eradicazione della povertà divenne una promessa politica da realizzare entro il 2020. Tale promessa serviva a rafforzare la narrativa della buona salute dell’economia cinese dopo la Grande Recessione e della bontà del suo modello politico, entrambe premesse alla strategia del nuovo Presidente di vedere la Repubblica Popolare riconosciuta ed affermata come grande potenza anche al di là dell’area asiatica. Nei primi anni della sua presidenza, Xi Jinping ispezionò le aree rurali più povere del Paese, raggiungendo remoti villaggi e comunità di etnie non-Han per dimostrare vicinanza alla popolazione ed avere contezza della gravità del problema sociale.

La strategia adottata dal governo cinese è stata la così detta “targeted poverty alleviation”, un insieme di misure economiche di contesto, cioè adattate alle singole realtà rurali ed alle diverse sacche di povertà, accompagnate da un attento monitoraggio che in 18 mesi ha prodotto un database contenente l’identità di tutti i cittadini che vivevano al di sotto della soglia di povertà stabilita dalle autorità centrali (2.300 RMB, circa 339.7$ all’anno). Il PCC dichiarò che avrebbe lavorato al fine di eliminare le “due preoccupazioni” (cibo e abbigliamento inadeguato) e provvedere alle “tre garanzie” (sanità, istruzione, alloggio). In tal senso sono stati irrobustiti i meccanismi di cooperazione tra le aree costiere più ricche ed urbanizzate e quelle rurali, abolendo altresì tasse scolastiche nelle province disagiate ed inaugurando il programma dibao, un sussidio assistenziale incondizionato sperimentato per la prima volta a Shanghai nel 1993 e poi esteso alle aree urbane nel 2007. La centralità acquisita dal tema con l’inizio del governo di Xi Jinping è testimoniata dalle scelte fatte dal Segretario del partito per garantirsi l’attivazione efficiente dell’intera macchina burocratica cinese. Per esempio, per contrastare il problema della corruzione dei quadri locali del Partito Comunista e delle possibili inefficienze che questa avrebbe potuto causare nel raggiungimento degli obiettivi, Xi Jinping ha autorizzato una massiccia campagna anti-corruzione ed ha imposto la firma di un documento ai vari leader provinciali rendendoli penalmente responsabili dei fondi e delle politiche sociali nei territori di loro competenza. Team di funzionari ed esperti, accompagnati da commissari speciali per le ispezioni, sono stati inviati nelle aree più povere del Paese; uno sforzo che ha coinvolto 250 mila tecnici, 3 milioni di funzionari e che secondo il governo cinese è costato la vita a 1500 di loro.

Alla fine del 2019, secondo le stime ufficiali, solo 5.5 milioni di persone vivevano ancora in condizioni di penuria. 9.6 milioni di persone sono state trasferite verso aree urbane, i villaggi più remoti sono stati raggiunti da strade asfaltate ed elettrificati mentre più di 100.000 scuole sono state rinnovate o ricostruite interamente. La pandemia esplosa a Wuhan ha impattato su questi programmi ma il PCC, preoccupato dalle ricadute politico-sociali di una promessa non mantenuta, ha deciso di non mancare l’appuntamento del 2020 incrementando il fondo anti-povertà fino a 146 miliardi di yuan (circa 23 miliardi di dollari). Per Pechino si tratta di un obiettivo irrinunciabile poiché la conferma dell’eradicazione della povertà estrema è la premessa essenziale alle strategie di crescita della Cina nei prossimi anni. Xi Jinping ha più volte dichiarato che il traguardo da raggiungere entro il 2049, centenario della nascita della Repubblica Popolare, è quello di una “società moderatamente prospera”. Una meta funzionale tanto alla promozione di un modello cinese presso i Paesi in via di sviluppo e all’interno delle istituzioni internazionali, quanto alla stabilità politica interna. La crescita asimmetrica del Paese è infatti considerata dal PCC come uno dei principali fattori di rischio per l’unità della Cina, in quanto potrebbe creare una spaccatura in termini di benessere per la popolazione tra le diverse province e generare così un malcontento difficile da gestire… Proprio per l’implicita importanza politica dell’eradicazione della povertà estrema, dubbi persistono sulle cifre fornite da Pechino e sui metodi statistici impiegati dal regime per contabilizzare i propri successi.

Sebbene la povertà sia un fenomeno multidimensionale, la misura generalmente adottata dagli Stati è quella del livello di reddito medio. L’attuale soglia della povertà, stabilita dalla Banca Mondiale, è fissata a 1.90$ (2.300 RMB) al giorno con Parità del Potere d’Acquisto (PPP) al 2011. Usando questo parametro econometrico si può osservare come la povertà globale abbia subito un drastico declino dal 1990 passando dal 36.2% della popolazione mondiale (1.9 miliardi di individui) a circa l’8.7% (668.7 milioni di persone) nel 2018. Grazie a decenni di crescita economica a doppia cifra, la Cina è stata da sola responsabile del 60% del decremento suddetto portando la percentuale di povertà nel Paese dal 66.3% allo 0.3%. Tuttavia il contributo cinese al decremento globale è chiaramente funzione delle sue dimensioni. Il Vietnam, infatti, avrebbe ridotto la povertà estrema nei propri confini dal 61.3% all’1.9% nel periodo intercorso tra 1990 e 2018, influendo però sulle statistiche globali solo per il 3.2%. Inoltre la soglia di 1.90$ è una misura statica della povertà estrema che, secondo la Banca Mondiale, dovrebbe invece essere messa in relazione con il reddito pro-capite del Paese di riferimento. Tale indice può essere infatti rappresentativo di una economia come quella dell’Etiopia che presenta un reddito pro-capite inferiore ai 1000$. Per Paesi con redditi medio-bassi come l’India (tra i 1000$ ed i 4000$) un indice più corretto sarebbe quello di 3.20$ al giorno. La Cina popolare, Paese che può ormai essere considerato tra quelli a reddito medio-alto, dovrebbe conseguentemente adottare una soglia intorno ai 5.50$ al giorno. Pechino avrebbe in altre parole contabilizzato la povertà estrema come se la propria economia fosse ancora in transizione da un livello basso ad uno medio-basso, nonostante secondo le principali istituzioni internazionali abbia da tempo superato tale soglia.

Fissando l’incide a 5.50$ al giorno, nel 2018 in Cina il 17% della popolazione (237.2 milioni di persone) viveva ancora al di sotto della soglia di povertà. Un tasso ben più alto di quello di altri Paesi a medio-reddito come la Turchia (8.5%) o l’Iran (15%), seppur molto inferiore a quello messicano (22.7%) e brasiliano (19.8%). In effetti, la Cina si trova oggi in una situazione simile a quella degli Stati Uniti degli anni 1950-1960 quando quest’ultimi si apprestavano a diventare un’economia ad alto reddito. Applicando la stessa soglia di povertà adottata all’epoca (in rapporto all’attuale indice dei prezzi) di 21.70$, attualmente l’80% della popolazione cinese andrebbe considerato ancora in condizioni di indigenza o penuria. Se tale paragone fosse confermato, ciò dimostrerebbe come la Cina popolare sia anni se non decenni addietro rispetto ai propri obiettivi.

D’altronde le stesse gerarchie del Partito Comunista sarebbero preoccupate dalla sostenibilità sul lungo periodo delle misure adottate negli ultimi anni, una spesa che ammonta a 800 miliardi di dollari. Senza considerare l’impatto della pandemia nel 2020, numerose asimmetrie affliggono le politiche messe in campo: il programma dibao ha dimostrato i propri limiti sia a livello provinciale, con alti tassi di corruzione, sia a livello nazionale con solo il 3.1% di copertura della popolazione totale e con uno scarto di quasi 30$ tra aree rurali ed urbane. Nondimeno, sussidi incondizionati di tal genere favoriscono fenomeni come la “trappola della povertà” disincentivando la ricerca di un impiego per paura di perdere il beneficio dell’assistenza statale. Allo stesso tempo, con il passaggio da Paese a medio-reddito a Paese ad elevato reddito, dunque con diversa incidenza della povertà, la Cina incontrerà numerose difficoltà nel contrasto all’indigenza e continuare ad applicare indici di misurazione adatti a Paesi con basso-reddito potrebbe rivelarsi controproducente impendendo al regime di avere una chiara visione delle condizioni sociali in cui versa la popolazione.

Sebbene non sia possibile negare i successi della Cina nel contrasto alla povertà estrema, è allo stesso tempo innegabile che milioni di cittadini delle province più rurali vivono in condizioni di indigenza. Nelle grandi città i lavoratori migranti soffrono condizioni di precarietà, insicurezza sui luoghi di lavoro, bassa produttività e stipendio e rimangono esclusi dalla rete assistenziale statale. Nel 2018 il 43.8% della popolazione lavorativa era considerata “vulnerabile”. Tuttavia questa realtà non è altro che lo specchio dell’asimmetria tra lo sviluppo costiero e quello più interno, un gap che attecchisce non soltanto sui redditi pro capite o sull’accesso ad una maggiore varietà di beni di consumo ma anche e soprattutto sulla qualità della vita, influendo su abitudini alimentari e mortalità.

La pandemia potrebbe con molta probabilità aggravare queste disparità, impattando con maggiore vigore sulle fasce rurali della popolazione e sui lavori migranti, una tendenza che vedrà crescere le pressioni sul governo centrale affinché mantenga le proprie promesse. Poiché il contrasto alla povertà rappresenta un’importante fonte di legittimazione per il governo cinese, sia all’interno che all’estero, per quest’ultimo diventa fondamentale dimostrare come il modello economico proposto funzioni ancora e che la possibilità di diventare una “società moderatamente prospera” sia un obiettivo non soltanto raggiungibile ma sostenibile sul lungo periodo. In caso contrario, la leadership cinese potrebbe assistere ad una progressiva perdita di credibilità agli occhi della popolazione più in difficoltà. Uno smacco che avrebbe importanti ricadute anche sull’immagine della Cina nel mondo e sulla possibilità di intestarsi una sorta di ruolo guida non soltanto della globalizzazione ma anche dei Paesi in via di sviluppo.

Pertanto la Cina sembra intenzionata a trovare il modo di tornare a crescere a ritmi sostenuti ma anche sostenibili. La strada, tuttavia, appare in salita: l’invecchiamento demografico, milioni di lavoratori privi di formazione e dipendenti dal settore primario, velocità di sviluppo ancora diverse tra costa e continente, così come gli effetti della pandemia, rendono il quadro generale assai incerto. Se Pechino non dovesse riuscire a far coincidere la narrativa con la realtà potrebbe essere travolto dai suoi stessi ambiziosi obiettivi e pagarne il prezzo in termini di credibilità della leadership agli occhi della popolazione e, di conseguenza, di stabilità sociale del Paese

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