Geopolitical Weekly n.315

Geopolitical Weekly n.315

By Francesco Barbaro, Andrea Cerasuolo and Gloria Piedinovi
01.24.2019

Afghanistan

Lunedì 21 gennaio, un attentato ha avuto luogo nei pressi di Maidan Shar, capoluogo della provincia centro-orientale di Wardak, a 44 km dalla capitale Kabul. Nelle prime ore del mattino, un gruppo di talebani ha travolto un posto di blocco militare a bordo di un’auto carica di esplosivo, facendola poi saltare in aria all’interno del campo di addestramento dell’Intelligence afghana (National Directorate of Security - NDS). Avuta via libera, altri elementi della stessa formazione talebana hanno fatto irruzione e compiuto una strage. Il numero esatto dei morti non è ancora stato accertato, ma fonti governative afghane hanno affermato che dovrebbe essere compreso tra 45 e 126. Mercoledì 23 gennaio, la NDS ha annunciato di avere neutralizzato il comandante talebano regista dell’azione. Da parte loro, i talebani negano tale perdita ma rivendicano l’attentato di Wardak per mezzo del loro portavoce Zabiullah Mujahid. L’offensiva degli insorti è avvenuta a poche ore da un incontro di rappresentanti della militanza con funzionari degli Stati Uniti, comunicato dallo stesso Mujahid e poi confermato da Washington, nella sede di rappresentanza che i talebani hanno ormai dal 2013 nella capitale del Qatar, Doha. L’incontro è stato solo l’ultimo di una serie di contatti avvenuti negli ultimi mesi e organizzati nel quadro del tentativo dell’Amministrazione Trump di riaprire il dialogo con il gruppo, per arrivare ad una conciliazione dopo quasi 18 anni di guerra.

La scelta di compiere un attentato nell’imminenza dell’incontro non sembra essere casuale, benché potrebbe essere riconducibile a due ordini di ragioni. Da un lato, lo schieramento talebano è fortemente diviso tra fazioni favorevoli al dialogo e altre irriducibili. L’attacco, dunque, potrebbe essere stata un’accelerata di quest’ultima per cercare di far saltare il dialogo con la Comunità Internazionale. Dall’altro, l’episodio di Maidan Shar potrebbe anche far parte di una strategia della Shura di Quetta volta ad alzare la posta in gioco nell’ambito delle contrattazioni con gli USA, nella speranza di ottenere un loro ritiro dal Paese. Il 19 gennaio Trump aveva già dichiarato di voler dimezzare il numero dei soldati sul territorio afghano (da 14.000 a 7.000), ma né le tempistiche né l’effettiva implementazione della decisione sono ancora state finalizzate.

Siria

Nella notte del 20 gennaio, Israele ha condotto un raid aereo sull’aeroporto di Damasco e su altri siti nei pressi della capitale. L’obiettivo era colpire la rete di rifornimenti, i siti di stoccaggio e i centri di comando e controllo utilizzati dai Pasdaran iraniani in territorio siriano. Allo strike ha fatto seguito la risposta iraniana, che il mattino seguente ha lanciato un missile a medio raggio in direzione del monte Hermon, nelle alture del Golan.

Dopo aver intercettato il missile, Tel Aviv ha quindi lanciato una rappresaglia. In un secondo raid gli israeliani hanno colpito direttamente le postazioni antiaeree siriane nei pressi della capitale. Tel Aviv non si è dunque limitata ai consueti strike contro obiettivi iraniani, ma ha colpito anche infrastrutture militari siriane.

Israele conduce raid contro obiettivi militari iraniani in Siria dal 2013, e già nel febbraio 2018 aveva colpito la difesa anti-aerea siriana in risposta all’abbattimento di un suo F-16.

È però la prima volta che Tel Aviv ammette apertamente e attraverso canali ufficiali di aver eseguito un attacco in Siria. L’intenzione dello Stato ebraico potrebbe essere ribadire che, sebbene gli Stati Uniti stiano iniziando a ritirare il proprio contingente dalla Siria, Israele resta fermo nel contrastare la minaccia iraniana.

Tuttavia, tale dinamica rischia di portare a un innalzamento del livello dello scontro, soprattutto se dovesse diventare la prassi. Infatti, non si può escludere che sia stata proprio l’ammissione israeliana della responsabilità degli attacchi a spingere Teheran a reagire, per non subirne un contraccolpo politico e d’immagine.

Zimbabwe

Il 20 gennaio, il Presidente Emmerson Mnangagwa ha annunciato il suo ritiro dal forum economico di Davos, attualmente in corso in Svizzera, per fare rientro in patria. La ragione alla base della sua decisione risiede nell’instabilità prodotta dalle imponenti proteste popolari iniziate il 14 gennaio a causa del repentino aumento del prezzo dei carburanti (128% il diesel e 167% la benzina).

Le manifestazioni di piazza, guidate da associazioni civili, comunità religiose e sindacati, sono state caratterizzate da un elevato livello di violenza e da feroci scontri con la polizia e le Forze Armate e hanno causato la morte di almeno 8 persone. Inoltre, le autorità, nel tentativo di ristabilire l’ordine hanno utilizzato metodi repressivi, inclusi arresti sommari e torture. Tra gli arrestati, alcune personalità di spicco dell’opposizione, tra cui Japhet Moyo, Segretario Generale dello Zimbabwe Congress of Trade Unions, e Evan Mawarire, pastore protestante e storico critico dell’establishment di potere.

Le proteste popolari rischiano di complicare il difficile percorso di stabilizzazione e democratizza-zione che lo Zimbabwe ha intrapreso lo scorso luglio, dopo la deposizione del vecchio Presidente Robert Mugabe, al potere per circa 37 anni. Il suo successore, Emmerson Mnangagwa, appartiene allo stesso partito del suo predecessore, lo ZANU - PF, ed è stato eletto con forti aspettative di cambiamento, liberalizzazione dello scenario politico e sviluppo economico. Tuttavia, tali speranze non hanno trovato riscontro nella realtà, dove la classe dirigente ha continuato a perpetuare corruzione e nepotismo e dove l’economia non mostra segni di miglioramento. In questo senso, l’accesso a finanziamenti ed investimenti esteri appare irrinunciabile, anche se l’instabilità politica costituisce un disincentivo evidente. A riprova di questo è giunto il rifiuto del Sudafrica ad erogare un prestito d’emergenza di 1,2 miliardi di dollari che lo Zimbabwe aveva richiesto a dicembre scorso.

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