Zimbabwe: la nuova dirigenza cerca di rientrare nel Commonwealth
L'Indro

Zimbabwe: la nuova dirigenza cerca di rientrare nel Commonwealth

05.29.2018

Con Marco Di Liddo (Ce.S.I.) analizziamo la strategia dello Zimbabwe post-Mugabe

Lo Zimbabwe, ex-colonia britannica indipendente dal 1965 (inizialmente sotto il nome di Rhodesia e sotto un violento regime di apartheid), era stato espulso dal Commonwealth nel 2002 a causa delle violazioni dei Diritti Umani perpetrate dal Presidente Robert Mugabe, in carica dal 1980. le politiche di Mugabe contro gli ex-coloni bianchi portarono ad una riforma agraria che li privò di tutte le proprietà destinate alla produzione rurale (il che diede il via ad una grave crisi economica nel Paese); l’opera repressiva di Mugabe, però, non toccò solo i bianchi, bensì colpì tutti gli oppositori politici del partito al potere, lo ZANU (Zimbabwe African National Union: Unione Nazionale Africana dello Zimbabwe). A causa soprattutto delle politiche repressive di Mugabe, lo Zimbabwe fu sospeso dal Commonwealth delle Nazioni, di cui faceva parte in quanto ex-colonia britannica, nel 2002; nel 2003 uscì definitivamente dell’organizzazione.

Con il recente cambio al vertice, che ha visto la destituzione di Mugabe e l’ascesa del nuovo Presidente, Emmerson Mnangawa, il Paese sembrerebbe aver preso una nuova strada. Nonostante Mnangawa sia stato per lungo tempo uno dei più stretti collaboratori di Mugabe, la svolta è evidente: una delle prime misure annunciate dal nuovo presidente, per rilanciare l’economia del Paese, è stata una nuova riforma agraria che permetta ai bianchi di tornare a coltivare le terre di cui erano stati privati negli anni ’80; inoltre, ed è questa la notizia più interessante sul piano internazionale, lo Zimbabwe ha fatto richiesta per tornare a far parte del Commonwealth. Si tratta di un chiaro segno che ad Harare si pensa ad una nuova fase nei rapporti internazionali del Paese.

A questo punto, bisognerà vedere quale sarà la reazione dell’Inghilterra, principale rappresentante dell’organizzazione, e degli altri Paesi membri (è certo che verranno fatte delle richieste sul piano dei Diritti Umani), oltre che della Cina, attualmente il principale investitore in Zimbabwe: a Pechino saranno felici della nuova relazione tra Harare e Londra?

Per tentare di fare chiarezza sulla questione, abbiamo parlato con Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) ed esperto di politica africana.

Quali furono le ragioni dell’uscita dello Zimbabwe dal Commonwealth?

Lo Zimbabwe fu sospeso a più riprese dal Commonwealth sostanzialmente a causa delle scellerate decisioni politiche di Robert Mugabe; non dobbiamo dimenticare che Mugabe è stato uno dei dittatori, non solo più feroci di tutta l’Africa, ma anche difficilmente inquadrabili, caratterizzato da uscite piuttosto estemporanee, delle scelte politiche ed economiche a volte bizzarre. Lo Zimbabwe fu sospeso dal Commonwealth per la prima volta nel 2002 perché il Commonwealth voleva mandare un messaggio molto forte a Mugabe a causa, appunto, delle continue violazioni dei diritti umani che il dittatore perpetrava in maniera incontrollata; questo è andato avanti per tutta la durata del suo mandato da Presidente, cioè per trentasette anni.

Quale è la situazione politica, economica e sociale in Zimbabwe oggi?

Il Paese si è liberato del giogo di Mugabe da pochi mesi, dal novembre 2017, e si trova ancora in una fase di transizione politica. Purtroppo lo Zimbabwe non ha né una tradizione democratica, né una tradizione di alternanza della classe dirigente al potere. Sostanzialmente, dal punto di vista politico, sia la popolazione dello Zimbabwe, sia gli osservatori internazionali, hanno paura che il nuovo Presidente, Emmerson Mnangawa, conosciuto soprattutto con il soprannome “il Coccodrillo” e a lungo vice di Mugabe stesso, prima di essere messo in disparte, provi ad affermare la propria persona esattamente come aveva fatto il suo predecessore; a differenza di Mugabe, però, il nuovo Presidente dovrebbe tenere un corso di politica estera ed interna leggermente diverso: una leggera apertura alle opposizioni e, soprattutto, un piano economico che rilanci la produttività di un Paese che ha tantissime risorse, sia minerarie che agricole, che non è mai riuscito a sfruttare a causa di alcune scelte di politica estera di Mugabe. Questo desiderio di ritornare nel Commonwealth rappresenta, da un lato, un tentativo di riallacciare dei rapporti strutturali con realtà importanti, come quelle legate alla Gran Bretagna, dall’altro vuole mandare un messaggio al mondo e questo messaggio è che lo Zimbabwe è aperto a collaborazioni trasversali, non solo con realtà che le sono storicamente prossime, come il Sudafrica che, anche per ragioni geografiche, si pone come interlocutore privilegiato. La maggior parte della diaspora dello Zimbabwe, infatti, vive e lavora in Sudafrica e anche i rapporti culturali tra i due Paesi sono molto forti: anche lo Zimbabwe ha vissuto un regime di apartheid, anche lo Zimbabwe se ne è liberato ma, rispetto al Sudafrica e al messaggio di Nelson Mandela, i politici dello Zimbabwe hanno avuto una politica più estremista e decisamente più critica nei confronti del potere bianco, tanto è vero che parte dell’Estrema Sinistra sudafricana, quella che ruota attorno agli Economic Freedom Fighters (Combattenti della Libertà Economica) di Julius Malema, si rifà in maniera abbastanza evidente allo ZANU dello Zimbabwe e all’insegnamento di Mugabe.

Un altro aspetto fondamentale nella situazione attuale, è la presenza della Cina, Paese che ha con lo Zimbabwe un rapporto privilegiato in termini di commerci, soprattutto di materie prime e di land-grabbing: si dice addirittura che coloro che hanno organizzato il Colpo di Stato che ha destituito Mugabe avessero fatto dei colloqui preparatori in Cina per essere sicuri di avere l’appoggio del Governo di Pechino. Lo Zimbabwe, in questo momento, non si può permettere di avere un buon rapporto soltanto con Pechino, perché le politiche economiche di Pechino in Africa sono politiche piuttosto predatorie e non promuovono lo sviluppo di un mercato locale, quindi c’è anche bisogno di intrattenere nuove relazioni con Paesi come la Gran Bretagna, con realtà come l’Unione Europea, in grado di sostenere questo Paese attraverso prestiti, aiuti e quant’altro. La situazione sociale, tra l’altro, è ancora piuttosto precaria e rispecchia anche l’incertezza economica di un Paese che deve recuperare parecchio e che non è certo in una situazione delle migliori.

La ragione principale che ha spinto le Autorità di Harare a chiedere di rientrare nel Commonwealth, quindi, è fondamentalmente economica o c’è dell’altro?

La ragione è sia economica che politica: le due cosa vanno assolutamente di pari passo. Si deve immaginare che questa è una ex-colonia britannica e, una volta esclusa dal Commonwealth, ha perso tanti canali preferenziali a livello di relazioni internazionali; adesso ha bisogno di recuperarli, quindi le due dimensioni, politica ed economica, non possono dividersi. Viviamo in un mondo globale, in un mondo dove c’è bisogno di creare delle relazioni importanti sia a livello economico che a livello politico: il Governo dello Zimbabwe si rivolge all’ex-madrepatria coloniale perché conosce il peso che questa ex-madrepatria ha in determinati contesti, come possono essere le Nazioni Unite o altre organizzazioni internazionali, e lo fa mentre mantiene parallelamente i rapporti con Pechino, per avere un doppio canale; in un certo senso, diversifica la propria politica estera.

Quindi possiamo dire che l’uscita dalla scena politica di Robert Mugabe sia stata decisiva per quanto riguarda la decisione del Governo dello Zimbabwe di chiedere di rientrare a far parte del Commonwealth?

Assolutamente sì. Mugabe era al potere dal 1980 e la sua stagione di potere era stata caratterizzata da tantissime uscite anche piuttosto bizzarre e incongrue, per molti aspetti un po’ estreme: non ci si poteva più rivolgere allo Zimbabwe con Mugabe in carica perché la gestione del Presidente lo rendeva impossibile. Si trattava di un leader politico che, a parte la repressione violentissima dei Diritti Umani, ha anche attuato una riforma agraria che ha privato i bianchi di tutte le loro proprietà e restava un elemento di destabilizzazione di tutto il Continente africano perché faceva parte di quella schiera di leader africani duri e puri, contro l’Occidente ad ogni costo. Senza l’ostacolo costituito da Mugabe, si possono riaprire dei canali che erano impercorribili fino a qualche mese fa.

Quali reazioni ci si deve aspettare da parte dell’Inghilterra e degli altri membri del Commonwealth?

Sicuramente ci sarà disponibilità a riprendere il Paese all’interno del gruppo però, naturalmente, verranno chieste delle garanzie. Il Commonwealth è un club ristretto e farne parte ha un significato politico molto importante: bisogna adeguarsi a determinati parametri in termini di rispetto dei Diritti. All’interno del Commonwealth ci sono tutti Paesi che, non soltanto si ritrovano nella comune storia dell’Impero Britannico, ma che oggi condividono anche dei valori di un certo tipo; ritornare a far parte di quel club vuol dire anche voler dare un indirizzo politico interno di un certo tipo, sicuramente più liberale.

Come potrebbe reagire la Cina ad un eventuale ritorno dello Zimbabwe nel Commonwealth?

Io credo che la Cina capisca quali sono le esigenze dello Zimbabwe. Inoltre credo che a Pechino abbiano un’agenda politica per l’Africa così precisa, così a lungo termine e, soprattutto, che fa riferimento a degli strumenti così forti e superiori a quelli su cui può fare affidamento la Gran Bretagna, che la cosa non dovrebbe destare eccessiva preoccupazione. La Cina può andare nello Zimbabwe con la sicurezza che deriva dalla disponibilità di risorse economiche ed umane gigantesca, rispetto a quella inglese: gli inglesi non sono più in grado di proiettare in Africa un’influenza paragonabile a quella cinese. La Cina può giocare su qualsiasi tavolo e, soprattutto, può farlo con il vantaggio di chi non chiede al partner commerciale il rispetto di parametri sui Diritti Umani o di parametri di trasparenza burocratica: questo perché non deve rendere conto ad un’opposizione, ad un dibattito democratico o a dei parametri politici che si è data, diversamente dalla Gran Bretagna che, invece, fa parte di un gruppo di Paesi che appartengono ad una famiglia politica diversa. La Cina va lì e, con la forza del denaro e della propria industria manifatturiera e delle infrastrutture, può offrire qualcosa di molto più grande, in tempi molto più ristretti e in termini molto più vantaggiosi rispetto all’Inghilterra.

Fonte: L’Indro