Terra contesa: la Siria come terreno di scontro tra Turchia ed Israele?
Middle East & North Africa

Terra contesa: la Siria come terreno di scontro tra Turchia ed Israele?

By Lavinia Ansalone
08.08.2025

Dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad, il governo di transizione siriano, guidato da Ahmad al-Sharaa, ha inaugurato un nuovo corso politico. Questo ha comportato un significativo mutamento degli assetti geopolitici: il nuovo esecutivo ha promosso l’apertura agli investimenti stranieri, avviato il reinserimento della Siria nel sistema finanziario internazionale e promesso il rispetto e l’inclusione delle numerose minoranze etniche e religiose presenti nel Paese. Tuttavia, la realizzazione di tali impegni appare ancora lontana. La forte frammentazione etnica e confessionale della Siria continua a generare tensioni, sfociate in violenti scontri, come quelli che recentemente hanno coinvolto la comunità drusa. I drusi sono un gruppo etnoreligioso che segue una dottrina monoteista originata dall’Islam sciita ismailita, e sono prevalentemente presenti in Siria, Libano, Israele e Giordania. Le tensioni tra questa comunità e i gruppi sunniti si sono intensificate fino a degenerare, nel luglio 2025, in un conflitto aperto. A partire dal 13 luglio, nella regione meridionale della Siria, in particolare nei pressi della città a maggioranza drusa di Sweida, sono esplosi scontri tra membri della comunità drusa e alcune tribù beduine, successivamente affiancate dalle forze di sicurezza governative. In risposta, Israele è intervenuto militarmente a tutela della comunità drusa, inizialmente colpendo obiettivi nel sud-ovest del Paese, per poi intensificare l’azione con attacchi aerei mirati su Damasco, che hanno danneggiato parte del Ministero della Difesa e colpito aree limitrofe al palazzo presidenziale. Il 18 luglio è stato raggiunto un cessate il fuoco tra le parti, grazie alla mediazione congiunta di Stati Uniti e Turchia. Il Presidente siriano ha rinnovato l’impegno a garantire la sicurezza della minoranza drusa, ordinando il ritiro delle forze governative dalle zone teatro degli scontri.

Questo intervento si inserisce in una strategia più ampia attraverso cui Israele mira a consolidare la propria influenza nella regione, progressivamente rimodellando gli equilibri del Medio Oriente in funzione dei propri interessi strategici. La situazione siriana si colloca all’interno di una più ampia dinamica di rivalità con la Turchia. In tale contesto, Tel Aviv si presenta come garante della sicurezza della comunità drusa in Siria, una minoranza che, all’interno di Israele, gode di uno status relativamente integrato: circa l’80% dei drusi israeliani presta servizio militare nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF), un dato che testimonia un rapporto consolidato con lo Stato ebraico. Fin dall’insediamento del nuovo regime siriano, Israele ha posto condizioni ritenute non negoziabili: la demilitarizzazione completa dell’area meridionale e il mantenimento della propria presenza nelle alture del Golan. Tali richieste, tuttavia, riflettono obiettivi più ampi: il contenimento dell’influenza turca nella Siria post-Assad e il consolidamento di una fascia di sicurezza lungo il proprio confine settentrionale. A partire da gennaio 2025, Israele ha stabilito sette avamposti militari nel sud della Siria, i quali sembrano destinati a divenire elementi permanenti del dispositivo di sicurezza israeliano nella regione. Tel Aviv considera cruciale evitare che Damasco cada interamente nella sfera d’influenza turca. Uno dei metodi più efficaci per raggiungere tale scopo sembra essere il mantenimento di una stabilità relativa, mai pienamente compiuta, all’interno del Paese levantino. Le comunità druse del sud della Siria, sebbene accomunate da un’identità religiosa e culturale, sono tutt’altro che monolitiche sul piano politico. Non vi è un consenso unanime circa l’opportunità di disarmarsi, come richiesto dal governo di transizione. La loro riluttanza si basa su motivazioni legate alla sicurezza: il disarmo potrebbe esporle ad aggressioni da parte di altri gruppi armati, in un contesto ancora fortemente instabile. Tuttavia, la storia recente della Siria, come di molti altri teatri post-bellici, insegna che la proliferazione di milizie armate sul territorio tende a generare cicli prolungati di insicurezza e frammentazione. Pochi giorni prima dell’escalation tra le tribù beduine e la comunità drusa che ha innescato l’intervento israeliano, il ministro degli Esteri Gideon Saar aveva pubblicamente manifestato l’interesse israeliano a normalizzare le relazioni diplomatiche con Siria e Libano. Tuttavia, tra le condizioni imprescindibili per qualsiasi apertura, Israele ha ribadito l’intangibilità dello status delle alture del Golan. Tra le opzioni discusse in ambienti diplomatici internazionali, si è persino ipotizzato una futura adesione della Siria agli Accordi di Abramo, una proposta sostenuta attivamente dagli Stati Uniti. Nonostante ciò, la possibilità che la Siria aderisca formalmente agli Accordi nel breve termine appare remota. Da un lato, Tel Aviv non ha dimostrato un reale impegno verso questa possibilità; dall’altro, l’instabilità cronica della Siria rappresenta un ostacolo sostanziale a qualsiasi processo di normalizzazione.

La Turchia si configura sempre più chiaramente come la principale rivale regionale di Israele, in particolare nel teatro siriano, che considera un proprio alleato naturale e un’estensione strategica della propria influenza. Tale visione è stata esplicitata il 5 agosto dal Ministro dell’Economia e dell’Industria siriano, Nidal al-Shaar, il quale durante un incontro bilaterale volto a rafforzare la cooperazione economica ha affermato che Turchia e Siria sono “legate dal destino” e condividono “un futuro comune”. Secondo i nuovi accordi, Ankara stabilirà impianti di produzione sul territorio siriano ed esporterà beni industriali, mentre gli investimenti turchi contribuiranno a rilanciare l’economica locale e ad ampliarne la capacità produttiva. In parallelo, dal 2 agosto, l’Azerbaigian ha avviato l’esportazione di 1,2 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso la Siria, tramite la Turchia, attraverso il giacimento Shah Deniz, nel Mar Caspio. Questo gasdotto rappresenta un’ulteriore conferma del ruolo di snodo energetico che Ankara sta consolidando nel Levante. Il 6 agosto, la Turchia e la Siria hanno concordato l’istituzione di un Consiglio d’affari congiunto, con l’obiettivo di facilitare gli scambi commerciali e attrarre investimenti bilaterali. A ciò si aggiunge la firma di un memorandum che consente il trasporto internazionale diretto su strada, eliminando il precedente obbligo di trasbordo al confine. Le due parti hanno inoltre convenuto sul rafforzamento delle infrastrutture doganali e sulla semplificazione delle procedure di controllo. Questa intensificazione della cooperazione economica testimonia un interesse strategico reciproco. Per la Turchia, la stabilità della Siria è innanzitutto una questione di sicurezza nazionale. Ankara considera le milizie curde siriane una diretta emanazione del PKK, e dunque una minaccia da contenere. Il 21 luglio, Stati Uniti e Turchia hanno imposto alle Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda un termine di 30 giorni per finalizzare il processo di integrazione con il governo di transizione siriano. Contestualmente, il Presidente turco Erdoğan ha ribadito il pieno sostegno all’unità territoriale della Siria, dichiarando di non accettare alcuna soluzione che preveda una sua divisione. In questo contesto, l’intervento israeliano nel sud della Siria è percepito con crescente preoccupazione da Ankara, in quanto rischia di incoraggiare le rivendicazioni autonomiste delle forze curde, proprio nel momento in cui Damasco fatica a garantire la sicurezza delle proprie minoranze. Negli ultimi giorni, funzionari turchi hanno chiesto ai leader delle Unità di Protezione Popolare (YPG) informazioni sui tunnel presenti lungo il confine e sugli arsenali nascosti in aree civili. Il 22 luglio, il Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha dichiarato che la Turchia è pronta a intervenire direttamente per impedire qualsiasi tentativo di frammentazione della Siria, opponendosi fermamente a ogni iniziativa che possa condurre all’autonomia militare dei curdi, considerati una minaccia alla sovranità siriana e alla sicurezza turca. Fidan ha inoltre accusato Israele di voler lasciare la Siria in uno stato di divisione permanente, con l’obiettivo di mantenerla debole e politicamente irrilevante.

Sulla stessa linea, il presidente Erdoğan ha lodato il Presidente siriano al-Sharaa per aver mantenuto una posizione risoluta nei confronti di Israele e per aver avviato un dialogo costruttivo con la comunità drusa. Tale riconoscimento rientra in una strategia volta a rafforzare l’immagine di un governo siriano forte, unitario e capace di muoversi sul piano diplomatico internazionale. La Turchia ha tutto l’interesse a sostenere questo scenario: una Siria stabile e centralizzata è lo strumento migliore per dissuadere le forze curde dal perseguire progetti separatisti e, al contempo, per contrastare i piani israeliani. In tale ottica si inserisce anche la richiesta avanzata da Damasco ad Ankara per l’addestramento delle proprie forze armate nel contrasto all’ISIS. Questo ulteriore passo nella cooperazione militare potrebbe preludere, nel medio termine, alla concessione di basi militari turche sul territorio siriano, rafforzando ulteriormente l’asse tra i due Paesi.

Il futuro della Siria dipenderà dalla capacità del governo di transizione di ricostruire istituzioni solide e inclusive, in grado di gestire la complessità etnica e religiosa del Paese. Tuttavia, senza un reale monopolio della forza da parte dello Stato e con potenze regionali che continuano a usarla come campo di competizione, la sua stabilità rischia di essere compromessa, mettendo a dura prova il consolidamento di un ordine politico incentrato sulla coesistenza tra diversi gruppi etnici e religiosi.