Pandemia ed elezioni legislative: lo stress test per la Corea di Moon
Asia & Pacific

Pandemia ed elezioni legislative: lo stress test per la Corea di Moon

By Gianmarco Scortecci
04.16.2020

Mercoledì 15 aprile i cittadini sudcoreani hanno votato per le elezioni legislative su scala nazionale. La Corea del Sud è diventata così il primo Paese ad andare a elezioni in un momento di grande criticità legato all’emergenza sanitaria provocato dalla diffusione del virus COVID-19. Nonostante le difficoltà logistiche derivanti dalle misure di contenimento adottate per consentire lo svolgimento in sicurezza delle votazioni, l’appuntamento elettorale ha registrato la più alta affluenza alle urne degli ultimi vent’otto anni e si è chiuso con una vittoria schiacciante per l’Amministrazione del Presidente Moon Jae-in. Il Partito Democratico (cui appartiene Moon) e i suoi alleati, infatti, hanno ottenuto un totale di 180 seggi, contro i 103 dei rivali del fronte conservatore, guidato dal Partito Unito del Futuro, aggiundicandosi la maggioranza assoluta in Parlamento.

La ragione alla base di un simile successo sembra poter essere ricondotta al gradimento da parte della popolazione per il modo in cui il governo ha saputo contenere l’esplosione dei focolai e gestire l’emergenza sanitaria nel Paese, tanto da contenere il tasso di letalità al di sotto del 2%. L’esempio del contenimento messo in campo, efficace pur essendo privo di lockdown generalizzati, era stato presto ribattezzato “modello coreano” e aveva attirato l’interesse della comunità internazionale, desiderosa di affinare il proprio crisis management in un tipo di emergenza globale che non ha precedenti analoghi.

Tale “modello coreano” si è distinto, anzitutto, per l’elevato standard di sofisticatezza e capillarità nel controllo del contagio. Le autorità nazionali sono state in grado di prendere provvedimenti straordinari come la vendita a prezzi calmierati delle mascherine, la mappatura tecnologica dei contagiati e dei loro rispettivi spostamenti basata sui big data, nonché un elevato numero di tamponi effettuato quasi “a tappeto” e con tecniche applicative anche innovative (tra cui, per esempio, l’idea di somministrare i test presso siti drive-through, un metodo adesso in uso in diversi Paesi). L’elevato successo in termini di contenimento, infatti, è stato promosso anche grazie alle rigide norme di legge attivate in questo periodo di massima allerta. Infatti, le misure sulla tracciabilità, stabilite legalmente ai sensi dell’Infection Prevention Act, consentono di attivare una rete di controlli obbligatori, e non già su base volontaria, e prevedono punizioni con provvedimenti penali che arrivano a includere la reclusione e – nel caso di persone aventi cittadinanza straniera – il rimpatrio forzato in caso di trasgressione.

Caratteristica di base dell’operato coreano è stata anche la tempestività che ha consentito di attivare i descritti protocolli emergenziali in maniera repentina, con contromisure iniziali che erano scattate già dai primi di gennaio. Il primo caso di positività al Covid-19 sulla Penisola Coreana era poi stato comunicato lo scorso 20 gennaio, spingendo l’azione preventiva a farsi ancor più stringente, tanto che a distanza di un mese il Korea Centers for Disease Control and Prevention registrava appena 346 contagi confermati. La rapida reazione alla crisi, che costituisce un tassello sine qua non del cosiddetto “modello coreano”, è stato anche dovuto alla pregressa esperienza affrontata con lo scoppio dell’epidemia  MERS (sindrome respiratoria medio-orientale) nel 2015, che aveva costretto il governo coreano ad affinare mezzi e pratiche per il controllo delle epidemie. Nel caso Covid-19, i rapidi preparativi alla risposta sono anche stati stimolati dalla vicinanza al primo epicentro della malattia, visto anche che i rapporti con la Cina sono tutt’altro che trascurabili e che Seul aveva preferito evitare un blocco del traffico aereo da e verso il Paese (ad eccezione dei collegamenti con la provincia dell’Hubei).

Arginate così le principali criticità sanitarie, l’esecutivo ha cominciato a studiare le ripercussioni economiche della pandemia, cercando di capire la natura delle ricadute per approntare un efficace pacchetto di sostegno al tessuto produttivo. Il più immediato fattore di rischio per l’economia coreana deriva dallo shock all’offerta che ha colpito il Paese come conseguenza del diffondersi dell’epidemia nella Repubblica Popolare Cinese. Gli indici sulla produzione cinese erano scivolati sotto la soglia che segna la contrazione economica nel mese di febbraio. Da par suo, la Corea del Sud è molto dipendente da forniture Made in China che costituiscono input di produzione essenziali per svariati settori, fra cui in primis quello dell’industria automobilistica. Nei primi due mesi del 2020, le importazioni dalla Cina sarebbero, infatti, diminuite di circa il 12% secondo i valori rilasciati dalla Korea International Trade Association (KITA), con conseguenti perdite di profitto concentrate non solo sulla grande produzione manifatturiera, ma anche su business di piccola-media taglia, di fondamentale importanza per il dinamismo dell’economia coreana.

Lo spettro di una recessione per il Paese, del resto, emerge anche dalla variazione degli indici di borsa e dagli indicatori sull’andamento economico. Il Business Survey Index (dato che stima la fiducia del mondo business nelle condizioni economiche per attività manifatturiere e, per indicare prospettive d crescita deve attestarrsi sopra il valore 100) si trovava a quota 76 punti nel mese di gennaio. Il valore è poi crollato a 65 punti per febbraio e addirittura a 56 il mese successivo, segnando la discesa più drammatica dai tempi della crisi del 2008.  Si tenga presente che nel mese di febbraio l’espansione del contagio in Corea era stata piuttosto limitata, dunque la fiducia dei produttori aveva subito una battuta d’arresto per lo più come riflesso della crisi cinese.  Il contraccolpo ulteriore per il dato di marzo, mese che ha visto una esponenziale diffusione del Covid-19 al di fuori della Cina, rappresenta invece l’inizio di una crisi endemica per il Paese. A tal proposito, un altro dato già contemplabile è l’andamento dell’indice di borsa sudcoreano. Il KOSPI si attestava nei primi giorni di marzo a 1987 punti e ha poi subito una ripida discesa arrivando a 1457 punti (il 19 marzo). Da quel punto l’indice ha cominciato una discontinua fase di rimbalzo incoraggiata anche dall’imponente pacchetto di sostegno all’economia promosso dagli Stati Uniti, il cui Senato ha approvato mercoledì 25 marzo una manovra da ben 2000 miliardi di dollari, la quale ha favorito una risalita del tasso di cambio del won sudcoreano superiore all’1% e un calo del rendimento dei titoli di stato emessi dal Paese.

Certo è che la spinta alla fiducia suscitata da un pacchetto di aiuti squisitamente straniero potrebbe avere effetti effimeri e solo momentanei, senza dubbio insufficienti per un Paese che sta entrando in una fase endemica della crisi, se non affiancati da un’iniezione di credito autonoma. Adesso, pertanto, il governo sudcoreano intende effettuare interventi simili a quello statunitense (sebbene di portata più ristretta), così da sostenere in maniera ben mirata le regioni e gli operatori economici più in difficoltà. Tali misure sono urgenti per limitare il calo della crescita che era stata stimata al 2% in rapporto al Pil dall’IMF World Economic Outlook, ma che andrà molto probabilmente rivista al ribasso, senza neppure escludere il rischio di segno meno. In questo scenario a tinte fosche, fattore favorevole è rappresentato dalle condizioni di un debito pubblico tutto sommato sotto controllo, al 41% in rapporto al Pil, che consentirebbe di disegnare un piano d’aiuti piuttosto importante anche laddove questo dovesse comportare un significativo aumento del deficit.

Un apposito Emergency Economic Council ha dunque disegnato il pacchetto di aiuti sudcoreano, sotto la guida del Presidente Moon che ha voluto sottolineare la gravità della congiuntura parlando del rischio di una recessione peggiore di quella del 2008. Da qui è giunta la necessità di raddoppiare una prima proposta da $40 miliardi – che aveva già ricevuto l’assenso di governo, parlamento e banca centrale – con l’introduzione di un nuovo piano da circa $80 miliardi, ufficializzato martedì 24 marzo. Questo complesso pacchetto di salvataggio segue molteplici direttrici. In primo luogo, vi sarebbe una misura per reddito minimo d’emergenza (“basic disaster income”) per circa $8 miliardi, indirizzati al 70% della popolazione (escludendo le classi più agiate) con una stima totale di 14 milioni di famiglie beneficiarie. In secondo luogo, sono previsti dei prestiti per la piccola-media impresa (stimabili in $24 miliardi) più dei finanziamenti di capitale per obbligazioni societarie di aziende a rischio credit crunch (circa $16 miliardi). In terzo luogo, vi è una manovra di supporto targettizzata verso il comparto sanitario delle regioni più colpite dal virus (come anzitutto l’area di Daegu) basata sulla puntuale definizione di una “special disaster zone”. Altre misure includono un sostegno da $8 miliardi per la stabilizzazione del mercato azionario.

La fase di difficioltà economica attraversata dal Paese negli ultimi mesi aveva rappresentato la spina nel fianco dell’Amministrazione Moon ed era stata più volte utilizzata dalle opposizioni per cercare di mettere in difficoltà il governo, in vista dell’appuntamento alle urne. I risultati dell’attuale Amministrazione, infatti, erano stati altalenanti nel corso degli ultimi anni: in particolar modo, pesavano (e tuttora pesano) sia la performance economica degli ultimi anni, danneggiata anche dalle ricadute della guerra dei dazi Cina-Stati Uniti, sia lo scarso progresso nelle relazioni con la Corea del Nord. Quest’ultimo punto era uno dei capisaldi dell’agenda di Moon e, valutando ex post, sembra che la grande attenzione dedicata dal Presidente al dialogo con Kim Jon-un non abbia portato dividendi proporzionati alla valenza dell’engagement intrapreso. Di conseguenza, l’opposizione, composta da elementi storicamente meno inclini al dialogo con il Nord, aveva tentato di evidenziare questo scarso successo dinanzi agli elettori.

La consultazione legislativa era vista, del resto, come un nodo cruciale sia per l’esecutivo che per le opposizioni. Da una parte, il Presidente e il Partito Democratico di Corea si presentavano, de facto, a un referendum sul successo della loro amministrazione. Mentre alle elezioni presidenziali del 2017 il loro blocco progressista aveva ottenuto una vittoria netta (ma pressoché scontata) dopo lo scandalo corruzione e l’impeachment della Presidentessa conservatrice Park Geun-Hye, con il chiaro successo di quest’anno, il fronte riceve un feedback positivo ben più importante da parte dell’elettorato coreano, che non sembrava essere particolarmente soddisfatto delle politiche di Moon.

D’altra parte, lo stesso campo d’opposizione, per quanto ricompattato rispetto alle scorse elezioni presidenziali, ha messo in evidenza tutte le proprie difficoltà. La coalizione conservatrice si è presentata ad una tornata elettorale che aveva la funzione di soppesarne il valore effettivo, dopo anni di riassestamenti scatenati dal citato caso di impeachment. Alla testa del blocco si è posto il neonato Partito Unito del Futuro, costituito a febbraio 2020 da elementi che facevano parte del Partito della Libertà di Corea, del Nuovo Partito Conservatore e di altri gruppi minori che avevano presto cominciato a faticare nel far valere la propria influenza all’interno dell’alleanza.

Tre sono le principali criticità che hanno minato il Partito Unito del Futuro. In primis, la coalizione conservatrice da esso guidata non è evidentemente riuscita a colmare il netto distacco rispetto ai progressisti: stando ai sondaggi più sfavorevoli, la forbice dello svantaggio si era estesa sino a toccare i 15 punti percentuali. In secondo luogo, il gruppo ha conservato scomodi legami con ambienti vicini all’ex Presidentessa Park, che era stata leader proprio del Partito della Libertà, ovvero del principale “azionista” nella formazione del PUF. In terzo luogo, la complessa manovra di unificazione non ha permesso di stabilizzare in tempo la nuova forza politica e la nascita del partito è stata ufficializzata solamente a due mesi dal voto. Un segno tangibile della scarsa coesione era poi giunto nelle scorse settimane con alcune correnti minoritarie che avevano optato per la fuoriuscita. Mossa che ha avuto senza dubbio gravi ripercussioni, dato che la gran parte dei seggi dell’Assemblea Nazionale si assegnano tramite il sistema maggioritario e, pertanto, anche una perdita di pochi punti percentuali tende a compromettere la competitività di una coalizione in molteplici distretti.

Il prolificare dei piccoli partiti era stato incentivato anche dai due gruppi maggiori, in virtù della nuova riforma elettorale. Quest’ultima aveva fornito un’altra incognita, passata forse in sordina, ma di indubbio peso politico. La riforma aveva stabilito che l’assegnazione dei seggi parlamentari sarebbe avvenuta, da lì in poi, con un sistema inedito, sebbene poco diverso da quello impiegato per le precedenti legislative. La spartizione dei 300 seggi dell’Assemblea Nazionale è rimasta a grandi linee analoga, fondata su un sistema misto: 253 seggi assegnati con il maggioritario (first past the post) e 47 assegnati con il proporzionale. La novità è il metodo di applicazione della parte proporzionale, ora non più “parallelo” rispetto ai risultati del voto maggioritario (come nelle scorse tornate) e divenuto, invece, “compensatorio”. Una virata che tende a favorire la formazione di gruppi parlamentari di piccola taglia e promuovere alcuni movimenti regionali, con effetti dunque di aumento dell’entropia politica sudcoreana. Ecco perché i due gruppi maggiori avevano rapidamente preso contromisure andando a formare, nelle settimane prima del voto, dei partiti “satellite” per massimizzare il numero degli eletti tramite le liste compensatorie.

La tecnica ha evidentemente dato i suoi frutti. Basti notare che ben 17 dei 180 seggi conquistati dalla coalizione progressista sono stati vinti grazie al meccanismo del proporzionale compensatorio. Il rapido varo dei partiti satellite era altresì volto ad ottenere più preferenze possibili da parte degli elettori coreani che si proclamano indipendenti rispetto alle proposte partitiche. Dagli ultimi sondaggi effettuati prima della consultazione, infatti, era emerso che in Corea oltre un quarto degli aventi diritto al voto si considera appartenente a tale bacino di non allineati. Dato molto pesante che aveva costituito un’ulteriore incognita in favore della fluidità, considerando che il sistema elettorale consentiva anche il voto disgiunto.

L’attuale Amministrazione è quindi riuscita ad ottenere un parlamento favorevole. Quest’ultimo sarà un alleato fondamentale nella parte conclusiva del mandato presidenziale, sia per continuare a trasmettere solidità alla gestione della pandemia, per la quale non si può escludere una seconda ondata che riporti l’epicentro in Asia, sia per non compromettere troppo il periodo di avvicinamento alle presidenziali 2022. Elezioni che permetteranno di soppesare l’eredità lasciata da Moon, forse riconoscendolo come un leader che ha impresso un segno duraturo nella politica del Paese, e non soltanto come l’avversario del fronte conservatore più in difficoltà di sempre.

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