L’onda d’urto delle proteste anti-governative in Sudan
Africa

L’onda d’urto delle proteste anti-governative in Sudan

By Andrea Cerasuolo
01.29.2019

Da più di un mese il Sudan è teatro di manifestazioni che, iniziate come proteste legate alla pessima congiuntura economica in cui si trova il Paese, hanno assunto gradualmente i contorni di una contestazione radicale al trentennale governo del Presidente Omar al-Bashir.

Le cause delle prime manifestazioni, iniziate a metà dicembre 2018, risiedono nella combinazione tra inflazione, interruzione dei sussidi statali e peso del debito pubblico.

Tali problemi hanno iniziato a manifestarsi in maniera sempre più intensa a partire dal 2011, anno dell’indipendenza delle provincie meridionali e della nascita del Sudan del Sud. Questa secessione ha privato il Sudan del 75% della sua produzione petrolifera che dal 1999 al 2011 aveva assicurato alle casse dello Stato 70 miliardi di dollari. La restrizione delle entrate derivanti dalle royalties e dalle esportazioni petrolifere ha portato a un generale peggioramento delle performance economiche, costringendo il governo di Khartoum a varare politiche che ponevano fine ad una serie di sussidi su beni di prima necessità. Neanche la fine di parte delle sanzioni statunitensi, nel 2017, è riuscita a generare una significativa ripresa economica. Le sanzioni, volute dall’allora Presidente statunitense Clinton e in vigore dal novembre del 1997, erano dovute al supporto che il Paese offriva al terrorismo jihadista (per un certo periodo degli anni ’90 anche Osama Bin Laden trovò rifugio in Sudan), ai continui tentativi di destabilizzazione dei governi vicini e alle violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo di al-Bashir.

Nell’ultimo anno il quadro economico è ulteriormente peggiorato. Nel gennaio del 2018 il governo centrale ha cancellato gran parte dei rimanenti sussidi per il grano e i carburanti. Come altri Stati produttori di petrolio, il Sudan in passato ha largheggiato nel distribuire sussidi in virtù degli abbondanti introiti derivanti dall’esportazione del greggio: un modo per alleviare parte delle sofferenze della popolazione ed ottenere consenso. Dal 2011 in poi questo non è stato più possibile dato che la provincie meridionali, le più ricche di petrolio, hanno formato un nuovo stato, il Sud Sudan, riducendo drasticamente gli introiti petroliferi di Khartoum. Il governo del Paese, in accordo con le indicazioni del Fondo Monetario Internazionale, ha progressivamente eliminato i sussidi nella speranza di riequilibrare le proprie finanze. Il recente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità ha condotto ad un’inflazione generalizzata che a novembre ha toccato il 68,93% e a dicembre il 72,92%. In un anno la sterlina sudanese ha perso l’80% del suo potere d’acquisto.

La situazione dei meno abbienti è diventata insostenibile e le condizioni del ceto medio sono peggiorate drasticamente: gli aumenti più consistenti si sono registrati su carne, latte, grano, petrolio e medicinali.

Di fatto, dopo la decisione di eliminare gran parte dei rimanenti sussidi, sono scoppiate le prime manifestazioni nelle zone centrorientali del paese, in particolare il 19 dicembre nella città di Atbara. Protagonisti di queste rivolte sono gli studenti liceali e universitari. Un elemento da non sottovalutare perché, in un Paese in cui quasi il 68% della popolazione ha meno di trent’anni, i giovani potrebbero costituire la massa critica decisiva per abbattere al Bashir. Successivamente, le proteste si sono estese alla capitale Khartoum, teatro dal 23 dicembre di violenti scontri tra manifestanti e forze di sicurezza. In queste manifestazioni si sono distinte, sia per partecipazione che per forza della protesta, le associazioni professionali di medici, avvocati, medici e farmacisti. L’incapacità del governo di far fronte alla crisi, unita ai lunghi anni di dominio autoritario, hanno aggiunto un elemento politico alle manifestazioni. Se nei primi giorni delle proteste i manifestanti esprimevano delle rivendicazioni di tipo socio-economico, successivamente si è assistito a richieste esplicite da parte delle piazze di dimissioni per il Presidente al-Bashir. Il settantacinquenne Presidente del Sudan ha alle spalle lunghi anni di governo. La sua scalata al potere iniziò negli anni ’80 all’interno dell’esercito e culminò alla fine di quel decennio con un colpo di Stato che pose fine all’allora legittimo governo sudanese. Fin dall’inizio della sua esperienza di governo, al-Bashir si accompagnò ad alleati islamisti, come il Fronte Islamico Nazionale di Hassan al-Turabi, e nel 1991 introdusse la sharia in Sudan: cosa che finì per inasprire i dissapori fra il nord del Paese a maggioranza islamica e il sud cristiano e animista. Da allora al-Bashir ha alternato periodi di apertura e liberalizzazione democratica a periodi repressione e accentramento del potere. Di recente, ha prima annunciato di non volersi ricandidare alle elezioni presidenziali del 2020 per poi ritrattare e ufficializzare la sua candidatura.

I campanelli d’allarme per il governo si sono moltiplicati perché le proteste non hanno risparmiato le zone tradizionalmente più lealiste come le ricche città situate nelle zone centrali del Paese, lungo il corso del Nilo. Diversi partiti d’opposizione hanno espresso solidarietà ai manifestanti e, notando una certa inerzia da parte dell’esercito, alcuni di essi si sono appellati alle Forze Armate per porre fine al governo di al-Bashir. Un ulteriore segnale di pericolo per il governo può essere considerato il rientro in patria di Sadiq al-Mahdi, leader in esilio del partito d’opposizione National Umma Party e ultimo presidente prima che Omar al-Bashir ne prendesse il posto tramite un colpo di Stato nel 1989. Al-Mahdi è un politico di lungo corso che fu presidente già negli anni ’60. Tuttavia, durante il suo secondo mandato, iniziato nel 1986, non riuscì a risolvere gli annosi problemi che affliggevano già allora il Paese: divisioni settarie, corruzione, scandali e instabilità politica. Il suo governo fu caratterizzato da debolezza e inconcludenza: ciò scatenò gli appetiti di al-Bashir e dei suoi sodali che non tardarono a cogliere la prima occasione propizia per porre fine al suo governo. Da allora, al-Mahdi, mantenendosi sempre alla guida del suo partito, ha trascorso lunghi periodi all’estero, in esilio volontario, rientrando in patria di tanto in tanto mentre e aspettando il momento per riconquistare il potere perduto.

Stretto fra la crescente contestazione e il ritorno in patria di storici oppositori, la risposta del governo di al-Bashir si è articolata lungo tre direttive. La prima è stata la dura repressione delle manifestazioni di piazza anche quando il loro svolgimento era stato pacifico: a seconda delle stime, si contano tra i 20 e 50 morti, centinai di feriti e d’arresti. Come seconda mossa, le autorità hanno reso difficoltoso per la popolazione l’accesso ad internet, ristretto la libertà dei giornalisti sia sudanesi che stranieri e diffuso comunicati in cui si sottolineava come dietro le proteste ci sarebbero cellule di sabotatori e agenti al servizio di potenze straniere. La terza parte della controffensiva governativa è affidata direttamente ad al-Bashir che ha rilasciato molte interviste in cui faceva appello all’unità nazionale sostenendo l’imminenza di nuove e più efficaci riforme economiche di cui, però, non ha fornito dettagli.

La crisi economica devastante e le precarie relazioni con molti Paesi occidentali hanno spinto il Sudan a cercare finanziamenti e aiuti tra i suoi storici alleati nella Penisola Arabica, quali Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e dall’Egitto. Questi Paesi hanno espresso preoccupazione per la stabilità del Sudan senza avventurarsi in un esplicito e incondizionato sostegno ad al-Bashir. Tale reticenza nel sostegno diretto ad al-Bashir può essere anche il frutto della spregiudicata politica estera del Presidente sudanese. Nello scacchiere regionale, al-Bashir è stato per decenni alleato dell’Iran, posizione che ha contribuito all’avvio delle sanzioni USA, salvo prenderne le distanze a partire dal 2013 trovando più conveniente, soprattutto a livello finanziario, il sostegno all’Arabia Saudita. Ora Omar al-Bashir si è recato in visita in Qatar, il cui emiro si è premurato di dichiarare che farà il possibile per dare al Sudan tutto ciò di cui ha bisogno per superare la crisi. Qatar e Arabia Saudita attraversano un momento di estrema tensione nelle loro relazione, poiché Riyadh intende punire la spregiudicatezza e l’eccessiva autonomia in politica estera di Doha.

Il viaggio di al-Bashir in Qatar può essere letto come una ricerca di ulteriori fonti di finanziamento al di fuori dei suoi tradizionali alleati.

Per contro, i Paesi occidentali hanno mostrato un atteggiamento più critico nei confronti di al-Bashir, chiedendo il rispetto delle libertà fondamentali, anche se al momento non sembrano aver messo in campo mezzi di pressione diretta. Gli Stati Uniti potrebbero usare il rinvio sine die dell’abolizione delle rimanenti sanzioni come mezzo per ottenere un allentamento della repressione del governo di al-Bashir e spingere per un trasferimento pacifico dei poteri ad altri soggetti nazionali.

La situazione in Sudan è stato motivo d’apprensione anche per l’Italia che nelle ultime settimane ha già sperimentato una crisi diplomatica lampo con il Sudan a seguito dell’interessamento del Ministero degli Affari Esteri per il fermo di una giornalista italiana, Antonella Caporale, ad opera dei servizi di sicurezza sudanesi che l’hanno trattenuta per diverse ore e rilasciata solo dopo averla intimidita e aver distrutto le riprese che aveva realizzato sulle proteste. Più complesse sembrano essere le implicazioni per il futuro dei progetti italiani volti a costruire hotspot per migranti in Sudan. Questa strategia fa parte del cosiddetto Processo di Khartoum, sugellato a Roma nel 2015, che mira a costruire un rete tra i Paesi del Corno d’Africa che possa gestire in maniera più efficiente le dinamiche migratorie che interessano quella regione: il Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite ha certificato che nel 2017 vi erano oltre 700.000 migranti in Sudan, la stragrande maggioranza dei quali, tuttavia, desiderava continuare il proprio viaggio. Recentemente il Ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha ribadito che vi sono progetti per costruire campi per migranti in Sudan così come negli altri Paesi limitrofi alla Libia. Se l’instabilità dovesse proseguire, tali progetti subirebbero almeno forti ritardi facendo venir meno uno dei tasselli fondamentali per controllare il flusso migratorio proveniente dall’Africa orientale e andando a peggiorare uno scenario già compromesso.

Sembra ancora prematuro ipotizzare quale sorte attenderà le proteste in Sudan. Tuttavia, alcuni elementi di partenza (grande popolazione giovanile, alto numero di persone sotto la soglia di povertà, inflazione e crisi economica) e le dinamiche di piazza sembrano ricordare gli avvenimenti della cosiddetta Primavere Arabe. In quest’ottica potrebbero prospettarsi due scenari: guadagnando ulteriore consenso e forza, i manifestanti potrebbero spingere al-Bashir a non ricandidarsi alle elezioni del 2020 oppure elementi interni ai partiti di governo e alle Forze Armate potrebbero decidere che, per evitare ulteriori lacerazioni nel Paese, sia necessario mettere da parte l’anziano leader. Tuttavia, occorre ricordare che al-Bashir ha saputo costruire una forte rete clientelare all’interno dei servizi di sicurezza sudanesi e che nei suoi lunghi anni al potere è riuscito in più di un’occasione a sopravvivere al malcontento popolare.

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