L’invio di Marines in Australia: l’alba di un nuovo “America’s Pacific Century”
Asia & Pacific

L’invio di Marines in Australia: l’alba di un nuovo “America’s Pacific Century”

By Francesco Valdiserri
12.21.2011

Il 16 novembre, in occasione del 60° anniversario dell’alleanza ANZUS (Australia, New Zealand, United States Security Treaty), il Presidente americano Barack Obama e la Premier australiana Julia Gillard hanno raggiunto un accordo bilaterale sul dispiegamento di un contingente militare USA in Australia.

Il patto prevede lo schieramento di una Marine Air-Ground Task Force nella base militare di Darwin (Territorio del Nord) a partire dal prossimo anno. Nel 2012 sarà dispiegato un primo battaglione di 250 Marines USA, che giungeranno a 2.500 nei 2016-2017. Inoltre, gli Stati Uniti potranno utilizzare altre basi militari australiane, tra cui la base navale di HMAS Sterling e quella di RAAF Tindal, in cui poter rischierare B-52, FA-18 e C-17.

La decisione dell’amministrazione Obama di inviare i Marines in Australia riflette il nuovo indirizzo della politica estera americana, mirato ad un rafforzamento del ruolo politico, economico e militare degli Stati Uniti nell’area dell’Asia-Pacifico, in concomitanza del ritiro da Iraq ed Afghanistan. Tale orientamento è confermato dal tour diplomatico del Segretario alla Difesa USA Leon E. Panetta in Indonesia, Giappone e Corea del Sud (23-26 ottobre) e dalla visita del Segretario di Stato USA Hillary Clinton a Burma (30 novembre). Il rinnovato impegno americano in quest’area è legato a doppio filo al contenimento della crescente influenza della Cina, sebbene il ruolo preminente di Washington, soprattutto dal punto di vista militare, non sia in discussione. Tuttavia, i test recenti della portaerei cinese Varyag, lo sviluppo dello ASBM (Anti-Ship Ballistic Missile) Dongfeng 21-D, e il discorso del Presidente Hu Jintao del 6 dicembre, nel quale ha invitato la Marina a proseguire la propria modernizzazione e a prepararsi alla guerra per salvaguardare la sicurezza nazionale, sono un fattore di preoccupazione a livello regionale ed il segno delle mire cinesi nell’area dell’Asia-Pacifico.

Le priorità delineate dall’amministrazione Obama sono focalizzate in particolare sulle rotte navali che attraversano l’oceano Indiano e sul Mar Cinese Meridionale, dove gli USA si impegneranno a mantenere una “sustained forward presence”, così come emerge dalla “Maritime Strategy”, introdotta dal Governo statunitense nell’ottobre 2007. In quest’ambito, il documento “Vision and Strategy” dello US Marine Corps (giugno 2008) si spinge oltre, ed afferma che l’oceano Indiano potrebbe trasformarsi, prima del 2025, in un possibile teatro di conflitti.

L’importanza del Mar Cinese Meridionale, soprattutto per la presenza di enormi riserve energetiche non ancora sfruttate (gas e petrolio in primis), ha spinto Pechino a dare un ulteriore impulso alle sue rivendicazioni di sovranità su tale area e le sue pretese coinvolgono anche le isole Spratlys, Paracel e Scarborough Shoal. Tale atteggiamento ha determinato un’escalation delle tensioni con gli altri Paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale (Filippine, Brunei, Malesia, Singapore, Indonesia e Vietnam), preoccupati dall’aggressività di Pechino e dal rischio di vedere compromessa la giurisdizione sulle rispettive acque territoriali. La ricchezza delle risorse energetiche presenti ha attirato anche l’interesse dell’India, che, il 12 ottobre scorso, ha raggiunto un accordo con il Vietnam per effettuare trivellazioni in due blocchi rivendicati da Hanoi. L’evento ha provocato la reazione della Cina, che ha annunciato di non tollerare l’intromissione di Paesi terzi nell’area in questione.

Inoltre, emerge la rilevanza strategica del controllo delle rotte navali dell’oceano Indiano (da cui transita il 70% del petrolio estratto nei Paesi del Golfo e destinato al Pacifico) e, soprattutto, dello Stretto di Malacca, dove passa l’80-85% del petrolio e del gas importato dalla Cina. Quest’ultimo dato mette in luce l’importanza vitale che tali flussi energetici rappresentano per Pechino e spiega la reazione allarmata della Cina all’accordo tra Obama e la Gillard, che contribuirà a rafforzare il ruolo militare degli USA nell’area.

Nel quadro generale appena descritto, la scelta dell’Australia come Paese destinato ad accogliere truppe e, probabilmente, forze aeree e navali USA, potrebbe rivelarsi una decisione di fondamentale importanza nel garantire un notevole salto di qualità alla presenza americana nella regione. La decisione di Obama può, infatti, essere letta alla luce di una serie di vantaggi in chiave tattica e strategica, nel contesto di un “repositioning” delle Forze Armate americane nella zona dell’Asia-Pacifico, in ottica anti-cinese e di maggior controllo delle vie economiche che attraversano l’oceano Indiano.

In primo luogo, la solida e storica alleanza tra Australia e Stati Uniti costituisce una forma di garanzia per la sicurezza degli apparati militari che verranno dispiegati nelle basi australiane e, soprattutto, offrirà a Washington una maggiore libertà d’azione nella conduzione sia di esercitazioni, che di eventuali operazioni militari.

In secondo luogo, ipotizzando uno scenario caratterizzato da un’escalation delle tensioni tra USA e Cina, la possibilità di usufruire di più basi dislocate sul territorio australiano comporterebbe indubbi vantaggi da un punto di vista logistico, rispetto alle altre basi utilizzate dagli Stati Uniti nel Pacifico. Nella fattispecie, la posizione geografica delle infrastrutture militari australiane, tra cui quelle di Darwin, Sterling e Tindal, garantirebbe un veloce dispiegamento delle forze americane ed un rapido accesso sia all’oceano Indiano, che, a nord, al Mar Meridionale Cinese. In altre parole, una maggiore capacità di proiezione del potenziale bellico statunitense nei teatri sensibili in questione. Inoltre, i circa 4mila chilometri che separano la base di Darwin, quella più a nord dell’Australia, dalle coste cinesi, sono una distanza tale per cui l’unica opzione percorribile da Pechino per tentare di neutralizzare le forze militari americane sarebbe l’utilizzo dei missili balistici intercontinentali Dongfeng (DF-4, DF-5A, 31 e 31-A). Al contrario, le basi di Singapore (Paya Lebar, Sembawang Whaeves e Changi), e le otto basi aeree (tra cui quella di Kadena ad Okinawa) e le tre basi navali in Giappone e Corea del Sud (tra cui quelle di Yokosuka, Sasebo e Chinhae), a causa della vicinanza geografica alla Cina, risulterebbero maggiormente vulnerabili ad una reazione militare. La base di Apra Harbor, nell’isola di Guam, e quella di Diego Garcia (atollo situato nell’oceano Indiano), oltre ad avere dimensioni ridotte, sono dotate d’infrastrutture non sufficientemente sviluppate per ospitare un ingente dispiegamento di navi, sebbene sia in progetto un loro potenziamento. Occorre quindi ricordare come gli USA abbiano dovuto rinunciare nel 1991 alla base navale di Subic Bay e alla base aerea Clark nelle Filippine, dopo l’eruzione del vulcano Pinatubo e del conseguente rifiuto da parte del governo filippino di prorogare l’utilizzo delle basi agli Stati Uniti.

Inoltre, un’ulteriore e rafforzata presenza americana immediatamente a sud del Mar Cinese Meridionale, permetterebbe di incrementare la pressione militare a ridosso degli Stretti di Malacca, Lombok e Sunda, principali accessi strategici al Mar Cinese Meridionale, insieme allo Stretto di Luzon situato a nord.

L’invio di truppe in Australia potrebbe tuttavia influire negativamente sulla fragile architettura rappresentata dai negoziati tra Cina e Paesi ASEAN (Association of Southeast Asian Nations), canale diplomatico mirato al raggiungimento di un accordo sui contenziosi ancora aperti nel Mar Cinese Meridionale. Con la decisione di Obama, infatti, la rivalità sino-statunitense confluisce forzatamente all’interno dei negoziati, con il risultato di un maggior nervosismo da parte di Pechino e di ulteriori difficoltà nella ricerca di una soluzione pacifica alle questioni ancora sul tavolo delle trattative (in particolare la stesura di un Code of Conduct, documento che regoli le attività nel Mar Cinese Meridionale). La fermezza degli Stati Uniti nei confronti della Cina rischia inoltre di incrinare i rapporti fra i vari Paesi ASEAN, alcuni dei quali inclini a proseguire in un approccio soft nei confronti della Cina. Tra questi, spicca l’Indonesia, attore regionale di primo piano nel contesto della rivalità tra USA e Cina, dal momento che il Paese intrattiene relazioni economiche e militari con entrambi i Paesi. Giacarta ha, infatti, reagito con diffidenza alla notizia dell’invio di truppe in Australia, nel timore di compromettere i rapporti con Pechino e subire gli effetti di una possibile escalation militare. Tuttavia, il 18 novembre, l’Indonesia ha reso noto un accordo con gli USA per l’acquisto da parte di Giacarta di ventiquattro ex-USAF F-16C/D Block 25 ricondizionati, consegna che dovrebbe avvenire a partire dal 2014.

Infine, da un punto di vista economico, sarà interessante valutare l’impatto che l’invio di Marines in Australia avrà sulle strette relazioni commerciali tra Pechino e Canberra. La Cina è, infatti, il primo partner commerciale dell’Australia, con un interscambio che supera i 100 miliardi di dollari, ed il principale detentore del debito australiano, ragioni alla base della freddezza con cui il mondo dell’economia australiana ha accolto la decisione di Obama. Al momento, tuttavia, nonostante la prevedibile contrarietà di Pechino al dispiegamento delle truppe USA a Darwin, le relazioni economiche tra Cina ed Australia non sembrano aver subito ripercussioni. Pechino può, infatti, giocare la carta della dipendenza economica dell’Australia dalla Cina, come un mezzo per esercitare la sua influenza su Canberra.

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