L’impatto della morte dell’emiro di AQMI Abdelmalek Droukdel sulle attività jihadiste in Nord Africa e Sahel
Africa

L’impatto della morte dell’emiro di AQMI Abdelmalek Droukdel sulle attività jihadiste in Nord Africa e Sahel

By Marco Di Liddo
06.07.2020

5 giugno, il Ministero della Difesa francese ha annunciato di aver eliminato l’emiro di AQMI (al-Qaeda nel Maghreb Islamico) ed alcuni suoi luogotenenti nel corso di un’operazione nel nord del Mali, condotta con il supporto di non meglio precisati elementi delle Forze Armate locali.

La neutralizzazione di Droukdel rappresenta un significativo successo militare e politico per Parigi, in virtù soprattutto dell’impegno profuso nel processo di stabilizzazione del Sahel e, indirettamente, del nord Africa, iniziato nel 2013 con l’intervento militare in Mali (operazione Serval) e proseguito fino ad oggi con l’operazione contro-terrorismo Barkhane e con l’istituzione della Task Force “Takuba” (dal nome della tipica scimitarra tuareg). Uno sforzo ben esemplificato dai numeri delle forze dispiegate , ad oggi consistenti in oltre 5000 uomini e circa 950 tra mezzi terrestri e aerei.

L’emiro Abdelmalek Droukdel era uno degli ultimi esponenti della vecchia guarda jihadista in Nord Africa e Sahel: veterano della guerra civile afghana (1992 -1996), aveva combattuto la fase finale della guerra civile algerina nelle file del GSPC (gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento) ed aveva in Abu Musab al-Zarkawi (leader di al-Qaeda in Iraq a metà degli anni 2000) il suo mentore ed ispiratore. Asceso alla guida del GSPC nel 2006, dopo la morte del leader  Nabil Sahraoui, Droukdel è stato il principale promotore dell’internazionalizzazione della militanza terroristica algerina e dell’ingresso dei suoi movimenti nel network di al-Qaeda. Infatti, è stato sotto la sua leadership che i frammentati movimenti jihadisti del Nord Africa si sono “federati” sotto l’ombrello qaedista ed hanno dato origine ad AQMI. La leadership di Droukdel è stata molto impattante per il radicalismo jihadista algerino e nord africano, tanto da attribuirgli il “merito” di aver diffuso la dottrina takfir sul larga scala e di aver introdotto la pratica degli attentati suicidi in Algeria.

Tuttavia, a partire dal 2011, la stella di Droukdel è andata rapidamente spegnendosi nel firmamento jihadista algerino e nord africano. La veemenza della strategia contro-terroristica algerina, supportata dall’aiuto francese e statunitense, ha costretto l’emiro di AQMI ad un frettoloso ritiro nella clandestinità della regione montuosa della Kabilia algerina, presumibilmente ospite della locale comunità berbera con cui condivideva l’astio verso il sistema di potere di Algeri.

La cattività in Kabilia ha isolato la leadership di AQMI dal resto della militanza ed ha reso molto più complicate le comunicazioni tra vertice e base dell’organizzazione. Tuttavia, non è stato quello l’unico fattore che ha segnato il declino di Droukdel. Infatti, proprio a partire dagli anni 10 del 2000, le dinamiche operative, organizzative ed ideologiche del jihadismo globale e regionale hanno cominciato ad evolversi e cambiare.

Innanzitutto, le reti terroristiche sono diventate sempre più decentralizzate e meno dipendenti dalle shura centrali che, con il tempo, hanno dovuto accettare un ruolo sempre più simbolico a dispetto della crescita dell’autorevolezza e del potere dei comandanti sul terreno. Tale processo ha una spiegazione prettamente economica: il centralismo jihadista delle origini derivava dal “mecenatismo” del terrore consentito dalla ricchezza personale di Osama Bin Laden e di altri influenti finanziatori. Con il suo declino, le branche regionali ed i franchise di al-Qaeda hanno dovuto affidarsi sempre più all’autofinanziamento imperniato sul controllo dei traffici illeciti, sulla gestione delle risorse idriche e del suolo, sulla tassazione delle attività economiche nei territori da essi controllati e sul saccheggio, tutte attività gestite e controllate dai leader combattenti della katibe. In quest’ottica, non è un caso che, dal 2013, AQMI abbia affrontato un’ondata scissionista che ha portato alla nascita di nuove organizzazioni terroristiche fondate dai leader locali, come il Movimento per l’Unicità di Dio e il Jihad in Africa Occidentale (MUJAO) e al-Mourabitun (le sentinelle).

Questo processo economico-politico ha gradualmente spostato l’epicentro delle attività jihadiste nel Sahel, ossia in quella regione dove le lacune di governance e controllo territoriale dello Stato permettevano alle organizzazioni terroristiche di affermare una propria statualità de facto alternativa e concorrente. A sua volta, la diffusione del radicalismo nel Sahel è stato possibile soltanto cooptando le agende delle minoranze etniche discriminate, come i Tuareg ed i Fulani, con l’effetto immediato di far perdere centralità all’elemento arabo ed algerino, un tempo dominante.

Nel complesso, il nuovo modello jihadista, non più algerino-centrico e costretto ad abbandonare il purismo ideologico per ragioni di reclutamento e finanziamento, male si coniugava con il modus operandi e il pensiero di Droukdel. Di conseguenza, negli ultimi 10 anni, l’emiro è rimasto prigioniero del simulacro derivante dal suo ruolo e ha dovuto cedere il passo a leader più moderni, più innovativi e più recettivi nei confronti dei mutamenti politici regionali. In sintesi, il nucleo più pericoloso del jihadismo nord africano si è trasferito nel Sahel ed è stato gestito da una nuova leadership, quella dei gangster-jihadisti, formata da personaggi del calibro di Iyadh ag Ghaly (tuareg), Amadou Kouffa (fulani) e Mokhtar Belmokhtar (algerino di nascita ma berbero per “vocazione”).

Lo stesso può dirsi per il nord Africa, dove il prestigio dei leader saheliani aveva superato quello di Droukdel e dove lo Stato Islamico ha cominciato a porre una sfida concreta al network qaedista. In Tunisia, Ansar al-Sharia ha agito con grande autonomia nel contesto della galassia jihadista regionale e lo Stato Islamico è stato il principale responsabile della logistica che ha permesso ad oltre 10.000 foreign fighters di recarsi in Siria ed Iraq a partire dal 2015. In Libia, dove alla frammentazione sociale e tribale corrisponde una corrispondente frammentazione del panorama terroristico, Droudkel non è mai stato un leader seguito ed ascoltato. Anzi, organizzazioni dell’orbita qaedista come Ansar al-Sharia hanno preferito interloquire con Belmokhtar e con le reti saheliane anche per ragioni economiche (il controllo dei traffici illeciti lungo le rotte desertiche). Allo stesso modo, anche le sacche di conflittualità nella regione meridionale del Fezzan (Tuareg contro Tebu) sono state sfruttate più dai network saheliani che da AQMI.

Un discorso simile vale per il Marocco e ancor più per l’Egitto, dove il nocciolo duro dell’insorgenza jihadista è affidata alla militanza beduina del Sinai, non esattamente la più allineata ai dettami di AQMI.

Oggi, il nucleo del jihadismo africano è nel Sahel, dove imperano il Gruppo Per la Salvezza dell’Islam e dei Musulmani (GSIM), un ombrello di organizzazioni su base etnico-tribale fortemente indipendenti tra loro e governato da un tuareg come ag Ghaly, e lo Stato Islamico nella sue due branche della provincia del grande Sahara (SIGS) e dell’Africa Occidentale (SIAO).

Come se non bastasse, la recente escalation jihadista in Burkina Faso, Congo orientale e Mozambico racconta una progressiva a costante migrazione del terrorismo di ispirazione salafita sempre più a sud e sempre più in direzione dell’Africa sub-sahariana, dove sussistono migliori condizioni per aumentare il bacino di reclutamento e creare nuovi emirati de facto. Appare implicito che tale migrazione meridionale porti con sé un ulteriore indebolimento dell’elemento algerino e, più in generale, dell’AQMI tradizionalista di 10 anni fa.

In conclusione, la morte di Droukdel è un risultato importante per la Francia sotto due profili: quello politico-propagandistico, poiché porta con sé la neutralizzazione di una personalità di grido del jihadismo nord africano, e quello militare operativo, poiché denota la crescita delle capacità cinetiche e di intelligence nella regione del Sahel. Inoltre, la morte di Droukdel per mano di Parigi rappresenta un segnale positivo per tutto il panorama della contro-insorgenza e del contro-terrorismo regionale, da anni impegnato nel tentativo di ostacolare la minaccia jihadista ma spesso accusato di scarsa efficienza.

Tuttavia, i benefici della neutralizzazione dell’emiro di AQMI purtroppo si esauriscono qui. Ad oggi, la galassia jihadista saheliana è dominata da altri leader e, soprattutto, è governata attraverso un modello fluido e decentralizzato che diminuisce sensibilmente la dipendenza dei rami operativi dal nucleo centrale, dall’emiro e dalla shura.

Di conseguenza, la natura odierna del fenomeno jihadista impone soluzioni e strategie adattive che vadano oltre le neutralizzazione dei capi militari e dei leader politico-ideologici. In un contesto in cui la radicalizzazione si nutre di vulnerabilità sociali, economiche e politiche ed in cui il decentramento operativo e la permeabilità tribale agevola l’intercambiabilità delle leadership locali, eliminare i vertici di un’organizzazione terroristica ha meno peso che in passato.

Quindi, una matura ed efficace strategia di contrasto, oltre all’elemento cinetico-militare, deve concentrarsi sui cosiddetti fattori di human security  (governance, diritti, sicurezza alimentare, economica e sociale) il cui deperimento garantisce nuova linfa al movimento jihadista. Senza la promozione del dialogo politico tra le minoranze Tuareg e Fulani ed i governi centrali del Sahel e senza una profonda riforma della governance delle risorse in senso più inclusivo, la violenza jihadista è destinata a crescere ed a minacciare con sempre maggiore vigore la stabilità della regione  e gli interessi di tutta la Comunità Internazionale, a cominciare dall’Italia.

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