Libia: la sfiducia al governo di Dbeibeh mostra la debolezza della transizione a 90 giorni dalle elezioni
Middle East & North Africa

Libia: la sfiducia al governo di Dbeibeh mostra la debolezza della transizione a 90 giorni dalle elezioni

By Lavinia Pretto
09.22.2021

Il 21 settembre, la Camera dei Rappresentanti (HoR) di Bengasi-Tobruk con 89 voti favorevoli su 113 membri presenti ha ritirato la fiducia al Governo di Unità Nazionale (GNU) guidato dal Primo Ministro Abdul Hamid Dbeibeh. L’Alto Consiglio di Stato (HCS) ha rigettato l’atto, intendendolo come puramente simbolico e senza rilevanza politica, ma è chiaro che al momento l’esecutivo di unità nazionale potrà operare solo come amministrazione provvisoria, segnalando ancora una volta una falla importante nel processo di pace che dura da diversi mesi. Infatti, nonostante il dibattito in corso sul valore legale dell’azione intrapresa dall’HoR in merito al quorum necessario per sfiduciare l’esecutivo (secondo cui sarebbe necessario il voto di almeno due terzi del Parlamento come previsto dall’art. 24 della Dichiarazione costituzionale – che funge da Carta fondamentale provvisoria – e non la sola maggioranza semplice prescritta dal regolamento dell’Assise di Bengasi-Tobruk), l’atto licenziato ha assunto un peso simbolicamente e politicamente rilevante che evidenzia tutta la debolezza delle istituzioni e del processo di transizione libico a 90 giorni dalle elezioni del 24 dicembre.

Gli attriti tra GNU e HoR si erano riacutizzati di recente con la proposta di legge elettorale avanzata da Aguila Saleh, Speaker del Parlamento dell’Est libico, all’Inviato Speciale delle Nazioni Unite, Jan Kubis. Il documento non sarebbe stato votato né dalla Commissione parlamentare costituitasi ad hoc, né dalla sessione plenaria, non trovando quindi alcun tipo di legittimità legislativa. La bozza prevede un mandato di quattro anni estendibile ma soprattutto la possibilità di candidarsi all’esecutivo anche a personaggi discussi come Saif al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex leader libico Muammar, e Khalifa Haftar, generale dell’autoproclamato esercito nazionale. L’obiettivo di Saleh non è solo quello di allargare le maglie della rappresentatività, ma anche di far ricadere la responsabilità (e le pressioni politiche domestiche e internazionali) di un eventuale rinvio del voto sul governo centrale. In risposta a ciò, i Paesi occidentali del gruppo P3+2 (USA, Francia e Regno Unito più Germania e Italia) hanno pubblicato una Dichiarazione congiunta nella quale viene evidenziata la volontà di sostenere le elezioni libiche del 24 dicembre senza rinvii o leggi elettorali personalistiche. Solo la Francia si è mostrata più cauta nel sostenere il documento presentato da Saleh, mostrando ancora una volta il suo carattere bifronte nella crisi libica.

Le tensioni attuali devono però essere lette anche tenendo conto dei diversi contesti di confronto per il controllo del petrolio e quindi dell’intera struttura dell’economia nazionale, ancora bloccata dai veti contrapposti tra Est e Ovest del Paese. Difatti, in questo scenario è cruciale lo scontro tra il Ministro del Petrolio, Mohamed Aoun (vicino a Saleh), e il Presidente della National Oil Corporation (NOC), Mustafa Sanallah. Il cuore della contrapposizione risiede nella volontà del Ministro di estromettere Sanallah e nominare ai vertici del NOC Jadallah al-Awkali, un personaggio vicino a lui e allo stesso Speaker della HoR. Nonostante la legislazione nazionale stabilisca che la compagnia petrolifera debba essere legata proprio al Ministro del Petrolio, il Presidente non si è dimesso, forte anche del supporto e della volontà di Dbeibeh intento nel conservare un pieno controllo su un asset strategico per le sorti presenti e future dello GNU e del Paese. Il Premier teme infatti che la destituzione di Sanallah porterebbe ad ulteriori instabilità in un quadro politico estremamente delicato. Infatti, il comparto petrolifero è la principale fonte di introiti e la NOC è l’unica compagnia che fornisce effettivamente reddito al Paese attraverso l’attività di esportazione dell’oro nero dai porti-terminal, alcuni dei quali ancora bloccati dalle diverse milizie operanti sul terreno e non necessariamente legate ad una parte in particolare.

A complicare ulteriormente il panorama libico, si inseriscono nuovi scontri nella capitale tra gruppi armati rivali. I miliziani di Abdelghani al-Kikli, a servizio del Consiglio Presidenziale, e quelli di Mahmoud Hamza, seguace dell’Islam salafita, hanno riacceso il fuoco su Tripoli volendo decretare la propria supremazia territoriale volta al controllo dei futuri seggi elettorali del Paese. A dispetto della fermezza della Comunità internazionale, non è detto però che le elezioni segneranno davvero un punto di svolta per la Libia. La ricostruzione libica sarà realmente possibile solo se le parti coinvolte accetteranno il gioco democratico e se saranno in grado di trovare una qualche forma di compromesso nella spartizione dei poteri.

Il Primo Ministro Dbeibeh fonda la sua legittimità sul riconoscimento internazionale e sul supporto del Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), che potrebbero però non risultare sufficienti di fronte ad un esecutivo politicamente delegittimato. La Libia rischia, dunque, di trovarsi nuovamente in crisi e la chiave di volta per la sua risoluzione è, ancora una volta, la fiducia nel processo democratico e il supporto internazionale alle istituzioni pubbliche, anche se il supporto dell’UNSMIL e dell’Unione Europea in queste fasi del processo è risultato poco incisivo e a tratti altamente evanescente rispetto al ruolo dei grandi player (Russia, Egitto, Turchia, EAU) in campo e operanti in Libia. Pertanto, il futuro della Libia si presenta estremamente incerto e accidentato.

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