Le prospettive di Israele per una nuova fase militare in Siria
Middle East & North Africa

Le prospettive di Israele per una nuova fase militare in Siria

By Lavinia Pretto
10.22.2021

Sabato 16 ottobre Midhat Saleh, alto funzionario del governo di Damasco, è stato ucciso da un cecchino israeliano a Ein el-Tinneh, villaggio di frontiera israeliano sulle alture del Golan. Ex deputato e attivista da sempre fautore della restituzione dell’altopiano allo Stato siriano, Saleh si era frequentemente scontrato con le autorità di Tel Aviv sulla questione Golan, tanto da essere condannato nel 1985 a 12 anni di prigione con l’accusa di aver usato mine ed esplosivi contro cittadini israeliani. In seguito al suo rilascio si era poi trasferito in Siria dove nel 1998 è stato eletto in Parlamento per poi servire come consigliere governativo sulla questione del Golan. Nonostante ad oggi le Forze di Difesa Israeliane (IDF) non abbiano commentato l’accaduto, i media israeliani e arabi hanno riferito che alla base dell’assassinio di Saleh possa esserci il suo rapporto molto stretto – soprattutto in termini di intelligence – con ambienti legati all’Iran. Qualora venisse riconosciuta una qualche responsabilità di Tel Aviv, si potrebbe delineare in questa prospettiva una nuova fase anti-iraniana di Israele nella guerra civile in Siria. Il governo israeliano considera infatti Teheran una minaccia alla sua stessa esistenza, dimostrandosi particolarmente sensibile alla crescita di presenza e influenza della Repubblica Islamica nella vicina Siria a supporto di Assad. In altre parole, l’uccisione di Saleh potrebbe rappresentare un cambiamento di rotta di non poco conto, in quanto per la prima volta Israele avrebbe colpito un obiettivo legato all’Iran al di fuori del confine siriano.

Di fronte a tale scenario, potrebbe non essere una coincidenza anche l’attacco del 13 ottobre da parte dell’aviazione israeliana nell’area a sud di Palmira. I missili hanno sorvolato lo spazio aereo giordano e l’avamposto statunitense di al-Tanf, portando alla morte di un soldato siriano e ferendo tre miliziani sciiti. Il bombardamento non è passato inosservato alla Repubblica Islamica, che ha dichiarato che avrebbe risposto con forza all’incursione. La zona in cui è avvenuta l’offensiva era stata fino ad allora lasciata illesa da Tel Aviv, non ricoprendo di fatto alcun valore strategico.

Non a caso, sin dal 2013, Israele ha regolarmente effettuato attacchi aerei in Siria colpendo soprattutto avamposti e strutture legate all’esercito lealista, alle forze iraniane e alle milizie filo-sciite (tra cui Hezbollah) operative in supporto del regime di Damasco. Solitamente però le incursioni aeree si erano incentrate sulla capitale o nei pressi delle alture del Golan, al fine di colpire aree nevralgiche e arrecare danni consistenti alle truppe di Assad. Tuttavia, negli ultimi mesi Israele ha mostrato una sempre maggiore assertività, perpetrando non solo attacchi più risoluti ed inconsueti, come quello ai danni di Saleh, ma anche colpendo zone al di fuori del suo precedente raggio di azione, come appunto l’area a sud di Palmira. La presa di posizione israeliana deriverebbe proprio dal rafforzamento delle forze filo-sciite in Siria, tanto da portare il Paese ad adeguare le strategie finora condotte in modo coerente con il contesto presente sul terreno. La maggiore vulnerabilità di Israele non deriva però solamente dall’esacerbazione delle tensioni con l’Iran, ma anche dal disimpegno americano in Siria e dalla rilegittimazione (regionale e internazionale) della Presidenza Assad. Oltre al ritiro delle truppe, l’Amministrazione Biden ha mantenuto toni vaghi nei riguardi del governo di Damasco. Se da un alto ha dichiarato di non voler normalizzare i rapporti con il regime, dall’altro ha però implicitamente favorito il suo riavvicinamento con gli attori della regione. Il minore interesse di Washington deriva dal fatto che l’area mediorientale (discorso leggermente differente per il Golfo) non rientra più tra le priorità strategiche USA, che invece preferisce focalizzarsi sullo scacchiere asiatico e indo-pacifico. Inoltre, il lento disgelo delle relazioni tra Assad e i Paesi arabi, con il conseguente rafforzamento della legittimità del regime, fanno temere ad Israele un maggiore isolamento del conflitto siriano nell’agenda regionale, che potrebbe, di converso, giovare a totale vantaggio del fronte sciita nel Paese levantino.

In mancanza di un alleato internazionale strategico come gli USA (in parte sopperibile con la Russia) e al cospetto di una maggiore presenza iraniana in Siria, Tel Aviv potrebbe occuparsi sempre più in prima persona delle dinamiche macro regionali, mostrandosi anche più risoluta nella conduzione degli attacchi armati contro il governo di Damasco.

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