La partita globale sulle terre rare: una prospettiva europea ed italiana
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La partita globale sulle terre rare: una prospettiva europea ed italiana

By Alessia Ferraboli
01.02.2024

Le terre rare, o Rare Earth Elements (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici che, al contrario di quanto si possa pensare, sono presenti in natura in grandi quantità ma difficili da trovare in alte concentrazioni, rendendo quindi il processo estrattivo complesso e costoso. Più precisamente, tali elementi sono Scandio, Ittrio e 15 lantanoidi ovvero Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio e Lutezio. Tali elementi presentano caratteristiche peculiari che consentono di alterare le normali caratteristiche fisico-chimiche di altri elementi, rendendoli adatti all’impiego per prodotti di alta tecnologia. Ad esempio, il samario e il neodimio sono utilizzati nei magneti per i motori elettrici, il cerio e l’ittrio aumentano la densità e la resistenza al calore della ceramica sinterizzata, ittrio e gadolinio contribuiscono all’efficienza degli interruttori e dei sensori elettronici, il cerio migliora l’efficacia dei catalizzatori nell’industria petrolifera e automobilistica mentre gli ossidi di cerio accelerano la fusione del vetro.

Essi risultano quindi fondamentali in ambito industriale, per applicazioni sia civili che militari, a cominciare dalla tecnologia per l’efficientamento energetico e la transizione verde. Non a caso, nel 2013, l’Unione Europea ha inserito questi elementi tra i “materiali grezzi critici per la strategia”. Le REE, infatti, non si trovano in forma “pura” ma all’interno di altri minerali tant’è che i giacimenti vengono divisi in primari e secondari: i primi racchiudono i minerali contenenti terre rare cristallizzate direttamente dal magma (la miniera Bayan Obo in Cina ha superato in termini produttivi, negli ultimi anni, la miniera Mountain Pass negli USA), mentre i secondi vengono originati dall’alterazione di magma già solidificato, legata alla presenza di fluidi idrotermali. Il più famoso giacimento di questo tipo, da cui si ricavano grandi quantità di bastnaesite, si conferma essere quello di Bayan Obo in Cina. Quest’ultima è responsabile, insieme alle miniere nella provincia del Sichuan e i depositi di argilla contenenti REE ad assorbimento di ioni nelle province di Jiangxi, Hunan, Fujian, Guangdong e Guangxi, di oltre il 60% della produzione totale mondiale di terre rare nel 2019, passando da 120.000 a 132.000 tonnellate nel 2018. Gli Stati Uniti, con una produzione di terre rare pari a 26.000 tonnellate nel 2019, si posizionano al secondo posto avendo solamente la Mountain Pass come unica miniera di terre rare ancora operativa.

In generale, le riserve di terre rare mondiali variano tra 120 e 150 milioni di tonnellate, concentrate soprattutto in Cina, Russia, Brasile, India, Sudafrica, Stati Uniti, Australia, Malesia, Thailandia, Vietnam e Canada. Pechino ne possiede il 37%, seguita da Brasile e Vietnam (18%), Russia (15%) e il restante dai Paesi rimanenti. Il primato e monopolio cinese è dovuto in particolare a due ragioni: da un lato, costi di produzione bassi e investimenti statali in infrastrutture e tecnologia alti, che hanno permesso alla Cina di soddisfare la domanda globale ad un prezzo non competitivo per gli Stati Uniti. Dall’altro lato, alla costruzione, da parte del Dragone, di fabbriche di produzione e raffinazione vicino alle miniere, con lo scopo di accorciare la catena logistica. La posizione dominante della Cina nel settore deriva non solo dalle riserve e dalle capacità industriali domestiche ma anche dal controllo di numerose miniere all’estero. Infatti, nonostante sia il maggior centro di trasformazione metallurgica mondiale, la Cina necessita di una grande quantità di materie prime che spesso vengono importante da altri Paesi: ha acquisito i diritti esclusivi di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo per il cobalto mentre Filippine e Myanmar sono fornitori di nichel e stagno non raffinato per il 75-85%. Con il medesimo fine, Pechino ha investito circa 4,3 miliardi di dollari (cifra destinata a crescere nei prossimi anni) in attività minerarie dell’Africa e dell’America Latina, superando del doppio le quote di Paesi competitori come Stati Uniti, Canada e Australia. Sono noti, inoltre, investimenti cinesi in Indonesia e in Cile per un aumento complessivo del 30% nel 2022, legato alla crescente richiesta di minerali critici per la produzione di energia verde.

Nel complesso, l’intento cinese è di rafforzare ulteriormente il controllo del mercato globale delle REE al fine sia di mettere in sicurezza le proprie catene di approvvigionamento sia di limitare l’accesso ai Paesi competitori, utilizzando il “ricatto minerario” come, in passato la Russia ha fatto con il gas o l’OPEC con il petrolio. Ne è un esempio la crisi diplomatica tra Cina e Giappone del 2010, quando l’ennesimo riverbero dell’annoso contenzioso riguardo le Isole Diaoyu/Senkaku sfociò nell’interruzione dell’export di REE cinesi a Tokyo, poi esteso poi anche ad Europa e Stati Uniti. Tale iniziativa condusse ad un aumento del 300% del prezzo di taluni minerali critici e la sospensione momentanea dell’attività industriale da parte del gigante Toyota. Allo stesso modo, a partire da agosto di quest’anno, la Cina ha ridotto l’esportazione di nitruro di gallio e biossido di germanio, due metalli utilizzati nella produzione di chip e controllate dalla Cina per una quota del 94% e del 83% della produzione globale. Questa decisione è avvenuta in risposta all’implementazione delle strategie di decoupling e de-risking statunitensi nei confronti di Pechino. Inoltre, il Partito Comunista Cinese ha disposto la transizione del modello industriale nazionale, imponendo il passaggio ad una produzione ad alta tecnologia. In sintesi, la Cina vuole smettere di essere la manifattura a basso costo e bassa tecnologia del mondo per divenire un polo di progresso tecnologico e innovazione. Vi è quindi la possibilità che l’industria cinese realizzi, in futuro, più prodotti finiti ad alta tecnologia che includano componentistica contenente terre rare che soltanto semilavorati minerari. Questo rischia di porre i Paesi importatori nella difficile situazione di dipendere dalla Cina sia per le materie prime che per i beni.

Per ovviare alle criticità derivanti dalla posizione dominante cinese, l’Unione Europea ha avviato l’adozione di strategie di diversificazione e incremento dell’autonomia strategica nel settore minerario. Bruxelles, infatti, ispirandosi agli Stati Uniti e al loro Inflation Reduction Act del 2022 e alla loro strategia di “friend-shoring” delle catene di approvvigionamento, ha pubblicato, nel marzo 2023, il “Critical Raw Materials Act” (CRMA). Si tratta di un quadro normativo che ha come obiettivo quello di garantire un approvvigionamento sostenibile, economicamente accessibile e sicuro oltre che attuare pratiche di economia circolare lungo le catene del valore. Inoltre, la strategia dell’UE mira, da una parte, ad un aumento e a un miglioramento delle capacità di estrazione, di trasformazione e di riciclaggio e dall’altra ad ampliare e diversificare i partner commerciali. Per attuare ciò, vi sarà una semplificazione delle procedure di autorizzazione per l’ottenimento delle licenze minerarie e la costruzione di impianti di raffinazione e trasformazione delle REE e dei minerali critici e un sostegno ai finanziamenti e agli investimenti nei campi della ricerca e dell’innovazione. Nel concreto, entro il 2030, l’Unione dovrebbe raggiungere i seguenti obiettivi: il 10% del proprio fabbisogno di materie critiche estratte domesticamente, il 40% del proprio fabbisogno di materie prime critiche raffinato da imprese europee ed infine il 15% del fabbisogno coperto dal recupero e dal riciclaggio. Tra gli obiettivi del CRMA, inoltre, compare la limitazione alle quote di importazione da un singolo fornitore: nello specifico, l’UE potrà importare non oltre il 65% del proprio fabbisogno di un singolo minerale critico da un singolo Paese esportatore.

A favorire le aspettative di una sempre maggiore autonomia europea, potrebbe contribuire anche la recente scoperta del giacimento di terre rare Per Geijer, a nord della Svezia e, attualmente, il più grande in Europa. Secondo gli esperti, esso potrebbe rendere l’Unione Europea indipendente dalle importazioni cinesi ma, allo stesso tempo, il raggiungimento della piena operatività potrebbe richiedere dai 10 ai 15 anni. Nel frattempo, l’UE e gli Stati membri cercano fornitori alternativi. A livello multilaterale, si sottolinea il lancio della Minerals Security Partnership, un’alleanza a guida statunitense creata nel 2022, con l’obiettivo di diversificare le catene di approvvigionamento per i Paesi coinvolti (l’Unione Europea, Canada, Australia, Francia, Germania, Svezia, Finlandia, Giappone, India, Corea del Sud, e Italia). Ad ottobre, i membri di tale partnership si sono incontrati a Londra per la London Metal Exchange Week, durante la quale sono stati approvati diversi progetti riguardanti il settore REE, focalizzati su estrazione, raffinazione, riciclo e recupero. Per quanto concerne i materiali target, dei 17 progetti, 7 riguardavano l’estrazione di terre rare. A livello bilaterale, nel giugno di quest’anno, l’UE e il Cile hanno firmato un memorandum d’intesa per la formazione di un partenariato strategico con il fine di espandere la fornitura di litio (il Cile ne possiede circa il 36% delle riserve mondiali) e potenziare le supply chains. Inoltre, in linea con il CRMA e gli obiettivi della Global Gateway Strategy (alternativa europea alla belt and Road Initiative), l’UE e l’Argentina hanno firmato un memorandum of understanding per rafforzare la cooperazione sulle supply chains dei materiali critici sostenibili.

L’Europa intende dunque concentrarsi prioritariamente su tali materie prime critiche strategiche in quanto sono alla base dello sviluppo di settori chiave quali fonti di energia rinnovabile, mobilità elettrica, settore digitale, difesa e aerospazio. Ne sono un esempio le batterie agli ioni di litio. Infatti, ad oggi, l’UE importa il 70% di tale prodotto dalla Cina. Contemporaneamente, se si analizzano le capacità industriali autoctone, il quadro risulta ancora più desolante; soltanto l’1% del lito necessario è estratto in territorio europeo e ben l’84% della componentistica per l’assemblaggio viene dalla Cina. Tra i Paesi europei, anche l’Italia si è attivata nella ricerca di soluzioni alternative per ridurre la dipendenza delle terre rare dal gigante asiatico. Tra i diversi progetti attuati a livello nazionale, successivo al tavolo tecnico avviato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy con il Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica nel gennaio 2021, a settembre dello scorso anno è stato istituito il tavolo tecnico “Materie Prime Critiche” attraverso un Decreto interministeriale tra il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero della Transizione Ecologica. Tra i principali obiettivi di tale iniziativa, vi è la creazione di una strategia nazionale volta a formulare proposte normative, economiche e di mercato per assicurare un approvvigionamento sicuro e sostenibile. L’azione intrapresa dai diversi Ministeri risulta funzionale soprattutto dopo uno a studio sulla vulnerabilità delle catene di approvvigionamento condotto da Ambrosetti in collaborazione con Iren. In esso, infatti, l’Italia si posiziona come il primo Paese dell’UE per la quota del PIL attribuibile al valore della produzione industriale sostenuta dalle materie prime critiche, (38% complessivo), per un valore di circa 686 miliardi di euro. Negli ultimi dieci anni si è poi osservato un incremento del 35% di tale valore, accompagnato da un aumento della domanda italiana di materie prime critiche fino a 11 volte tra il 2020 e il 2040.

Inoltre, emerge come il riciclo di tali materie possa essere una possibile soluzione immediata in quanto si stima che, entro il 2040 esso possa soddisfare dal 20% al 32% del fabbisogno annuale italiano, superando così entro il 2030 l’obiettivo ufficiale del 15% di riciclo fissato dal CRMA. Per rendere tale realizzazione possibile, Iren ha incluso nel suo piano industriale 2030 l’impegno a destinare l’80% degli investimenti complessivi alla promozione della crescita sostenibile e, grazie ad essi, ha costruito in Italia il primo distretto di economia circolare del Valdarno. Un ulteriore progetto, situato in provincia di Siena, prevede la realizzazione di un impianto specializzato nel riciclo dei pannelli solari dai quali si stima di recuperare ogni anno circa nove mila tonnellate di materiali utili per l’industria italiana, tra cui vetro, alluminio, rame, plastica e silicio. Oltre al riciclo e all’economia circolare, potrebbe inoltre essere efficace effettuare una mappatura più dettagliata del territorio e investire in esplorazioni e estrazioni minerarie ma questo comporterebbe costi ambientali e sociali significativi oltre che tempi molto lunghi per raggiungere la piena operatività di nuovi siti estrattivi.

Il problema persistente è che ancora non ci sono metodi per estrarre terre rare che non impattino gravemente sull’ambiente o che siano a prezzi accessibili per il mercato europeo. Un’alternativa valida potrebbe essere quella di sostituire le REE con materie facilmente reperibili e a basso costo ambientale come il sodio, il potassio o il ferro. Con questi elementi affermano che sarebbe possibile creare delle leghe, dei materiali compositi con le medesime proprietà delle terre rare: un processo però apparentemente lungo e complesso. L’Italia avrebbe così un ruolo guida per le aziende che operano nel settore della transizione ecologica e, in Europa, per quanto riguarda le politiche per i materiali sostenibili.

In definitiva è chiaro come le terre rare continuino a rimanere una risorsa fondamentale per tutte le industrie ad alto contenuto tecnologico e di come l’Unione Europea e i rispettivi Paesi continuino a cercare di diminuire la dipendenza e il potere contrattuale della Cina in questo settore. Tuttavia, almeno nel breve periodo, Pechino sarebbe in grado di mantenere la leadership sul mercato per due ragioni: in primo luogo, le norme per l’estrazione mineraria e le esportazioni sono sempre più severe così come la riduzione della produzione. In secondo luogo, il processo di estrazione e di trattamento di questi elementi continua ad essere troppo costoso, complesso e difficilmente replicabile per le aziende europee. In altre parole, la Cina possiede competenze e condizioni operative nel settore che non possono ancora essere replicate o esportate in altri Paesi.

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