Israele e la “nuova” politica energetica nel Mediterraneo Orientale
Middle East & North Africa

Israele e la “nuova” politica energetica nel Mediterraneo Orientale

By Elia Preto Martini
09.30.2021

Durante il 2020 il Mediterraneo Orientale è stato profondamente scosso dalla pandemia da COVID-19 e dalle sue conseguenze economiche e sociali. Questa regione, che negli ultimi dieci anni è diventata un importante hub energetico grazie alle scoperte di numerose riserve di gas naturale, ha infatti subito un forte rallentamento economico, in parte dovuto alla contrazione del mercato energetico. Tra i Paesi che hanno subito gli impatti asimmetrici della pandemia vi è anche Israele, che dal 2009 ha incrementato enormemente il suo potenziale energetico grazie alle scoperte dei giacimenti di gas Tamar e Leviathan, ma che dal 2020 ha dovuto confrontarsi con una serie di sfide per certi versi inaspettate: l’improvvisa limitazione della libertà individuale, lo stop alle attività produttive e la recessione economica globale.

Dalla prospettiva israeliana, però, il 2020 non è stato solo l’anno della pandemia. Una serie di eventi ha infatti segnato profondamente le dinamiche del Mediterraneo Orientale. In primo luogo, gli Accordi di Abramo, formalmente firmati solo dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain, ma estesi con formati simili anche a Sudan e Marocco, hanno posto le basi per una cooperazione più distensiva con il mondo arabo nel suo complesso. A testimonianza di questa nuova tendenza vi è l’interesse dimostrato dai Paesi del Golfo, e in particolare dagli EAU, per sviluppare nuovi progetti congiunti con Israele. Al di là delle aperture dei primi voli di linea, che hanno perlopiù un valore simbolico, questi due Paesi si sono fortemente impegnati nell’ambito della cooperazione economica. In questa direzione va, per esempio, il recente accordo firmato per la cessione delle quote del giacimento Tamar detenute dalla compagnia israeliana Delek Drilling LP alla holding emiratina Mubadala Investment Company. Questa operazione dal valore di poco più di un miliardo di dollari – tuttavia in stand by per valutazioni di carattere ambientale da parte delle autorità competenti israeliane – è, ad oggi, l’accordo più importante raggiunto dopo la normalizzazione dei rapporti diplomatici avvenuta con gli Accordi di Abramo.

In secondo luogo, gli effetti negativi della pandemia da COVID-19 sul mercato energetico sono suonati come un primo campanello d’allarme riguardo alle prospettive di crescita del settore delle risorse non rinnovabili nei prossimi anni. Il governo israeliano, allora guidato da Benjamin Netanyahu, ha quindi colto questa opportunità per proporre un nuovo piano energetico nazionale con l’obiettivo di guidare il Paese verso la transizione energetica. Sebbene non si tratti di un piano radicale come il Vision 2030 promosso da Mohammed bin Salman in Arabia Saudita, i suoi obiettivi rimangono comunque molto ambiziosi. A fronte di un investimento pari a 22 miliardi di dollari, Israele punta a diventare un leader mondiale nel settore delle energie rinnovabili alzando la sua quota di utilizzo dall’attuale 17% al 30%. Se realizzato, questo piano dovrebbe garantire nell’arco di dieci anni anche una riduzione delle emissioni di gas serra pari al 50% e dell’inquinamento atmosferico pari al 93%.

Infine, sebbene in parziale controtendenza rispetto ai trend precedentemente esposti, nel 2020 alcune importanti operazioni finanza straordinaria (M&A) in settori strategici hanno rilanciato l’interesse commerciale israeliano per il settore del gas. In particolare, la multinazionale americana Chevron ha portato a termine l’acquisizione di Noble Energy, la quale deteneva il 25% del giacimento Tamar e il 39,66% del giacimento Leviathan. Questa operazione, unita a quella già citata effettuata dalla Mubadala Investment Company, rappresenta per Israele una grande opportunità. Secondo un report recentemente redatto dal governo, infatti, nei prossimi anni la domanda di gas naturale è destinata a calare, a causa soprattutto della graduale transizione energetica mondiale verso fonti rinnovabili. Pertanto, l’esecutivo sta attualmente valutando l’ipotesi di diminuire i limiti imposti all’export di gas naturale in modo da massimizzare i guadagni derivanti dalle tasse e dai diritti di sfruttamento concessi alle compagnie operanti nel settore.

Queste tre tendenze hanno influenzato in maniera significativa la politica estera israeliana, in particolare nel Mediterraneo Orientale, portando la leadership del Paese a cercare, per quanto possibile, un bilanciamento tra cooperazione regionale ed interesse nazionale. Possiamo identificare alcuni cardini di questo paradigma sviluppatosi in parte come “reazione” agli eventi sopracitati. In primo luogo, Israele è sempre più impegnato a costruire un framework normativo per delimitare i confini marittimi dell’area. La ratio di questo obiettivo è in realtà molto semplice: al fine di favorire gli investitori internazionali è necessario creare un ambiente privo di ostilità geopolitiche e con un certo grado di certezza giuridica. Fino ad oggi quello israeliano è stato un caso di successo nell’attrarre capitali internazionali, nonostante le dispute in atto con l’Autorità Nazionale Palestinese, per il controllo del giacimento Gaza Marine, e con il Libano per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE). Le tensioni crescenti, soprattutto sul fronte turco-cipriota, potrebbero però avere delle conseguenze negative sul Mediterraneo Orientale nel suo complesso, rendendo urgente il raggiungimento di un equilibrio tra i principali attori dell’area. La via scelta, almeno in questo caso, sembra essere quella del diritto internazionale tramite accordi bilaterali che rispettino le disposizione della Convenzione sul Diritto dei Mari del 1982 di Montego Bay, in opposizione alla “politica di potenza” che ha storicamente caratterizzato i conflitti arabo-israeliani nella regione.

Il secondo obiettivo che Israele vuole perseguire è invece più complesso poiché implica un bilanciamento tra spinte divergenti. Da un lato, l’economia israeliana e, più in generale, quella di tutti i Paesi occidentali sembra essere diretta verso una direzione green e sostenibile. Dall’altro lato, numerosi report insistono sulla necessità di beneficiare hic et nunc delle possibilità economiche offerte dall’export di gas prima di assistere ad una diminuzione della domanda nei prossimi anni. Il caso del gasdotto EastMed, un maxi progetto infrastrutturale dal valore stimato di circa 6-7 miliardi di dollari, merita una menzione particolare poiché evidenzia alcune delle sopracitate contraddizioni. Se mai sarà realizzata, quest’opera dovrebbe collegare Israele alla Grecia, passando per le isole di Cipro e Creta, e, solo successivamente, raggiungere l’Italia grazie al gasdotto Poseidon. È evidente però che l’interesse israeliano verso il progetto sia mutato a causa dei recenti sviluppi economici e geopolitici. Uno degli ostacoli maggiori è certamente arrivato dalla scelta della Commissione von der Leyen di tagliare i finanziamenti ad opere riguardanti le fonti energetiche non rinnovabili. La realizzazione di questa infrastruttura è inoltre minacciata dalla politica estera molto aggressiva della Turchia che in anni recenti ha rivendicato de facto un potere di veto sulle principali operazioni marittime del Mediterraneo Orientale.

Infine, Israele vuole continuare la strada intrapresa con gli Accordi di Abramo per migliorare i rapporti diplomatici con i Paesi dell’area ed espandere la cooperazione anche ad altri settori. In questa direzione va, ad esempio, il recente incontro a Sharm El-Sheikh tra il Primo Ministro israeliano Naftali Bennett e il Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. I comuni obiettivi nel mercato energetico sono stati certamente il punto di partenza di questo dialogo che successivamente ha toccato numerosi temi, quali le questioni legate alla sicurezza e al conflitto israelo-palestinese. Quest’ultimo, infatti, rimane una delle dispute più importanti all’interno del più ampio dialogo arabo-israeliano ed una sua risoluzione, almeno parziale, potrebbe aprire nuove opportunità di cooperazione. Anche il Marocco dopo aver preso parte al processo di normalizzazione diplomatica si è dimostrato disponibile ad intensificare i propri rapporti con Israele. Lo scorso luglio questo Paese ha infatti firmato un importante accordo che permetterebbe ai suoi servizi di intelligence di operare congiuntamente a quelli israeliani nel settore della cyber-sicurezza tramite lo scambio di informazioni e lo sviluppo di progetti di ricerca comuni.

In questa prospettiva, le rapide trasformazioni geopolitiche del Mediterraneo Orientale, unite allo scoppio della pandemia, hanno spinto Israele a rimodulare i propri obiettivi di politica estera. Sebbene sia chiaramente troppo presto per capire che direzione prenderà il Paese nei prossimi dieci o vent’anni anni, è possibile evidenziare fin da ora una delle maggiori criticità che i policymakers del Paese dovranno affrontare nell’imminente futuro, ovvero il tentativo di bilanciare tendenze economiche e geopolitiche contrastanti. Da un lato, la necessità di massimizzare i benefici legati all’export di gas naturale nel breve periodo dovrà necessariamente fare i conti con i nuovi trend energetici green e ad alta sostenibilità emersi negli ultimi anni. Dall’altro lato, la normalizzazione dei rapporti diplomatici seguita agli Accordi di Abramo lascia ancora numerosi nodi irrisolti nel rapporto che lega gli Stati arabi ad Israele, tra cui il conflitto israelo-palestinese. In tal senso, la posizione dell’attuale esecutivo molto più sensibile alle istanze dei coloni ebraici in Cisgiordania, potrebbe rappresentare – almeno a livello formale – un elemento di fragilità nei processi diplomatici in corso e, conseguentemente, impedire una piena integrazione di Israele nel Mediterraneo Orientale.

In conclusione, è molto probabile che per promuovere una politica basata sul multilateralismo e sul diritto internazionale, Israele dovrà cercare di risolvere le due dispute che lo coinvolgono: la prima con il Libano per la delimitazione delle rispettive ZEE e la seconda con l’Autorità Nazionale Palestinese per trovare una soluzione stabile a tutti gli aspetti del conflitto israelo-palestinese che influenzano in maniera più o meno diretta il “sistema Mediterraneo” nel suo complesso. Nel primo caso, gli eventi più recenti non sono stati particolarmente incoraggianti: Israele ha recentemente firmato un accordo con la compagnia americana Halliburton per la ricerca di nuove riserve di gas naturale in un’area attualmente contesa con il Libano, facendo infuriare il Primo Ministro libanese Najib Mikati che si è dichiarato contrario a scendere a compromessi sulle questioni che riguardano la sovranità del suo Paese. Anche se i colloqui formali saranno mantenuti, questo accordo getta molte ombre sull’esito della risoluzione nella disputa marittima. Nel secondo caso il futuro del conflitto israelo-palestinese si lega direttamente alle traiettorie del Mediterraneo Orientale. Sebbene il nuovo governo abbia cercato di lanciare dei segnali di distensione nei confronti delle autorità palestinesi, promuovendo nuovi dialoghi inter-ministeriali per migliorare l’economia e la sicurezza reciproca, la situazione quotidiana sul piano sociale vede ancora numerosi scontri e violenze. Solo raggiungendo questi due obiettivi il Paese avrà la forza necessaria per portare avanti una vera rivoluzione nelle dinamiche più profonde del Mediterraneo Orientale, contribuendo alla promozione di una zona aperta alla cooperazione e alle pacifiche relazioni diplomatiche. In caso contrario, il rischio è che questi obiettivi ambiziosi rimangano inattuati tra contestazioni reciproche e crisi politiche crescenti.

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