Iraq, la sfida del Premier al-Kadhimi alle milizie sciite
Middle East & North Africa

Iraq, la sfida del Premier al-Kadhimi alle milizie sciite

By Anthea Favoriti
10.08.2020

Il 30 settembre sei razzi hanno colpito le vicinanze di una base della coalizione internazionale anti-Stato Islamico a guida statunitense, a Erbil, capoluogo della regione del Kurdistan iracheno. È la prima volta in assoluto che viene presa di mira questa infrastruttura, normalmente considerata più sicura di altre analoghe nel resto del Paese. La tempistica è poi rilevante: l’attacco è avvenuto poche ore dopo che il Primo Ministro Mustafa al-Kadhimi aveva assicurato di voler proteggere le missioni diplomatiche straniere e le strutture usate dai loro contingenti militari.

Due giorni prima, una milizia sciita ha lanciato due razzi Katyusha contro un’abitazione a Baghdad, uccidendo dei civili. L’attacco avrebbe dovuto colpire le truppe statunitensi presso il vicino aeroporto. Questi eventi giungono a quattro giorni di distanza dall’ultimatum del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in base al quale si provvederà alla chiusura dell’ambasciata americana e tutto il personale statunitense lascerà l’Iraq a meno che il governo iracheno non ponga fine ai continui attacchi contro sedi diplomatiche e militari USA.

Questi ultimi lanci di razzi si inseriscono in un quadro securitario particolarmente delicato per l’Iraq. Di fatto, dall’uccisione del Generale a capo delle Forze Quds Qassem Soleimani e del vice Comandante delle Forze di Mobilitazione Popolare (FMP, in arabo Hashd al-Shaabi) Abu Mahdi al-Muhandis in un raid statunitense presso l’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio scorso, le offensive contro basi e strutture americane in Iraq si sono intensificate. Quanto accaduto nei giorni scorsi costituisce uno sviluppo preoccupante, indice di una forte ripresa delle ostilità da parte delle milizie filoiraniane che rifiutano la presenza statunitense nel Paese.

L’attuale fase di forte pressione politica sta mettendo a dura prova l’esecutivo del neo-Premier al-Kadhimi, che si trova a dover affrontare una serie di sfide gravose sia in politica interna sia estera. Innanzitutto, il persistere della pandemia da Covid-19 e l’impatto socio-economico di lunga durata che questa determinerà. Ma anche il protrarsi delle proteste popolari che hanno colpito i governatorati centro-meridionali del Paese e la capitale, di cui il 9 ottobre è ricorso il primo anniversario. Non ultimo, il contenimento delle milizie filoiraniane inquadrate tra le FMP, considerate la longa manus iraniana e il principale strumento di influenza della Repubblica Islamica in territorio iracheno. Nei riguardi di quest’ultime, il neo-Premier si sta dimostrando una guida politica intenzionata a restituire stabilità e sicurezza al Paese, per mezzo di una serie di iniziative in ambito securitario.

Sul piano delle politiche securitarie, sin dall’insediamento il primo obiettivo di al-Kadhimi è stato quello di riportare le milizie filoiraniane sotto il controllo governativo per ripristinare una sovranità statale gravemente menomata dal potere dei gruppi armati. Il neo-Premier ha quindi voluto inviare importanti segnali di apertura agli attivisti delle mobilitazioni, vittime della strategia repressiva portata avanti dalle milizie durante le proteste antigovernative, con la promessa di punire i responsabili delle uccisioni. D’altronde, fra le principali ragioni dell’attuale crisi della macchina statale vi è proprio il ruolo proattivo che questi gruppi hanno avuto nella repressione delle manifestazioni e nella natura stessa dell’apparato militare iracheno.

Infatti, in Iraq il potere decisionale, all’interno del sistema politico, è diluito tra reti informali e clientelari spesso legate a potenti milizie armate formalmente legittimate ma “indipendenti”, come i gruppi paramilitari legati alle FMP. Quest’ultime costituiscono parte della fisionomia ibrida del settore militare, insieme all’Esercito regolare e ai reparti d’élite autonomi come, ad esempio, l’Unità dell’antiterrorismo iracheno (Counter Terrorism Service, CTS).

L’istituzione delle FMP risale in risposta all’appello del 13 giugno 2014 dell’Ayatollah Ali al-Sistani - massima autorità dello sciismo iracheno - al jihad contro la campagna dello Stato Islamico. In quel contesto, migliaia di giovani si offrirono volontari e il governo dichiarò ufficialmente la nascita delle FMP, che si costituirono sia con nuovi gruppi sia con gruppi paramilitari già attivi da tempo nell’insorgenza contro le forze di occupazione americane. Tra questi, Asai’b Ahl al Haq e Kata’ib Hezbollah.

Quest’ultima riveste oggi un ruolo centrale nelle vicende securitarie che interessano l’Iraq. Fondata originariamente nel 2003, il gruppo detiene un forte legame con Hezbollah, il partito-movimento sciita libanese, dal quale in origine sembra aver ricevuto addestramento e armamenti. Nel panorama iracheno è la milizia più anti-americana e ideologicamente fedele al regime iraniano: i miliziani riconoscono l’ayatollah Khamenei quale loro leader e seguono la dottrina del velayat-e faqih. Poco si conosce, tuttavia, della struttura organizzativa del gruppo, a parte il suo leader Jamal Jaafar Ibrahimi, già citato in precedenza e noto ai più con il nome di battaglia Abu Mahdi al-Muhandis. Dal punto di vista partitico, con il suo ramo politico Kata’ib Hezbollah appartiene all’Alleanza Fatah (blocco politico sciita guidato da Hadi al-Amiri), secondo partito per maggior numero di voti alle elezioni di maggio 2018 e tra i più attivi partiti nel chiedere il ritiro completo delle truppe americane dal territorio iracheno.

Nella lotta contro lo Stato Islamico nel 2014-2018, Kata’ib Hezbollah così come le altre milizie hanno contribuito alla liberazione dei territori iracheni dallo Stato Islamico, riuscendo a sopperire alla situazione di sbandamento in cui versava l’esercito regolare iracheno. Le FMP hanno cercato quindi di capitalizzare il consenso popolare raccolto nella lotta contro Daesh, vedendo nella politica un modo per legittimarsi e appropriarsi di istituzioni dello stato. Così facendo, si sono viste riconoscere un posto all’interno degli assetti istituzionali iracheni: ciò ha permesso loro di avere voce in capitolo sulle decisioni politiche e gli sviluppi interni al Paese.

Di fatto, i delicati equilibri fra le FMP, gli apparati di sicurezza e il Primo Ministro si intrecciano ogni qualvolta siano indette delle elezioni o trattative per la formazione di un nuovo esecutivo. Lo stesso al-Kadhimi, per esempio, è in parte debitore alle fazioni sostenute dall’Iran per la sua nomina. Dopo aver esercitato numerose pressioni contro il precedente candidato favorito di Washington, Adnan al-Zurfi, il nuovo Comandante delle Forze Quds iraniane, il Generale Esmail Ghaani, ha svolto un ruolo significativo nel convincere i partiti filoiraniani a esprimere la loro approvazione per al-Kadhimi. Teheran, in una posizione debole di negoziazione all’indomani dell’era post-Soleimani, non avrebbe potuto aspettarsi alcuna cooperazione da Washington se avesse voluto installare un Primo Ministro marcatamente filo-iraniano. La scelta è quindi ricaduta sulla figura di al-Kahdimi, che fin dall’inizio del suo mandato ha cercato di conciliare le posizioni divergenti di Iran e Stati Uniti.

Tuttavia in un primo momento, la sua nomina era stata fortemente osteggiata dalle milizie di Kata’ib Hezbollah, che avevano apertamente accusato il nuovo Premier di essere implicato nell’uccisione dell’ex leader al-Muhandis e del Generale Soleimani. La volontà di rappresaglia per l’uccisione dei due leader sembrerebbe aver spinto Kata’ib Hezbollah a intraprendere nell’ultimo semestre una strategia più assertiva contro la presenza e gli interessi americani nel Paese. Lo testimoniano i numerosi attacchi dalla metà di settembre contro siti e basi militari, che ospitano personale degli Stati Uniti e dei diversi Paesi facenti parti della task force congiunta impegnata nell’operazione “Inherent Resolve” in chiave anti-Stato Islamico.

È nel tentativo di depotenziare il ruolo delle milizie sciite che vanno dunque lette le recenti manovre del neo-Primo Ministro e nelle quali si inquadra l’iniziativa dello scorso 25 giugno, in cui al-Kadhimi ha ordinato al CTS iracheno di condurre un’operazione contro una fra le principali postazioni a Baghdad di Kata’ib Hezbollah, che ha portato all’arresto di 14 combattenti accusati di programmare attacchi nella Green Zone della capitale.

L’ azione non ha, tuttavia, rappresentato un reale “giro di vite” per i suoi combattenti. Di fatto, dall’annuncio dell’arresto il 26 giugno, 150 miliziani hanno posto sotto assedio la residenza di al-Khadimi per ottenere la liberazione dei compagni. Il Primo Ministro è così dovuto scendere a compromessi, permettendo lo spostamento dei combattenti in un centro di detenzione gestito da un membro stesso di Kata’ib Hezbollah. Con questa operazione sembrerebbe, dunque, che il governo iracheno abbia solamente voluto inviare un segnale temporaneo all’amministrazione Usa nel tentativo di soddisfare  le richieste di sicurezza. Un’iniziativa dunque solo di facciata, perché dietro le quinte gli equilibri non sono mutati, come dimostra d’altronde il recente attacco dello scorso 30 settembre che ha colpito una base della Coalizione Internazionale a Erbil.

L’ offensiva è avvenuta a poche ore di distanza da un incontro internazionale di al-Kadhimi, con circa 25 diplomatici stranieri, tra cui l’ambasciatore degli Stati Uniti, in cui il Premier ha discusso gli sviluppi più recenti in merito alla sicurezza delle missioni diplomatiche in Iraq. A oggi, l’ipotesi di un ritiro delle missioni diplomatiche internazionali costituisce la prima fonte di preoccupazione per la leadership irachena. Benché al-Kadhimi si sia impegnato a cercare un dialogo anche con la Repubblica Islamica, quest’ultima ha da sempre ribadito il proprio rifiuto alla presenza di truppe statunitensi dispiegate sul territorio iracheno, che ritiene dannose per la sicurezza e la stabilità regionale. Di fatto, il recente intensificarsi dell’escalation in corso sembrerebbe rispondere alla volontà di Teheran di mantenere, tramite le milizie filoiraniane, un pressing elevato sui contingenti americani in territorio iracheno, volto ad accelerare il disimpegno Usa nella regione.

Sebbene Baghdad abbia affermato la propria volontà di garantire la protezione delle rappresentanze diplomatiche, la possibile chiusura dell’ambasciata americana oltre a minare inevitabilmente l’intero quadro securitario del Paese, segnerebbe anche la fine del sostegno al Primo Ministro al-Kadhimi, facendo precipitare il Paese in una nuova spirale di crisi istituzionale, violenze e insicurezza.

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