A chi fa comodo un attacco all’egemonia saudita?
RiEnergia

A chi fa comodo un attacco all’egemonia saudita?

09.30.2019

L’Arabia Saudita è da decenni la pompa di benzina del pianeta, e sull’esportazione del greggio Riyadh ha costruito la sua rilevanza a livello globale. Insieme al ruolo di protettore dell’Islam – gli al-Saud sono i custodi dei luoghi santi della Mecca e Medina – è sul petrolio che il Regno saudita fonda la sua proiezione esterna nella regione e oltre. E’ difficile immaginare un Medio Oriente e un mondo arabo senza Arabia Saudita, come non si può pensare ad un mercato globale del petrolio senza Riyadh.

Quindi non deve stupire che siano proprio i simboli dell’Islam e il petrolio i bersagli di chi vuole cambiare in profondità gli equilibri attuali del Medio Oriente e del mondo, assestando un colpo duro al Regno. Colpire i luoghi santi dell’Islam significa indebolire i Saud e provocare un’onda lunga avvertita in tutto il mondo islamico. Successe così con l’assalto alla Grande Moschea della Mecca nel 1979, un’azione imitata dallo Stato Islamico tre anni fa con l’attacco a Medina. Lo stesso vale per l’oro nero: se l’Iran ha minacciato più volte di bloccare il traffico nello stretto di Hormuz, da cui transita ogni giorno un quinto del greggio mondiale, da mesi i ribelli Houthi – impegnati dal 2015 in Yemen in un conflitto con Riyadh – attaccano pozzi e pipeline in territorio saudita.

L’attacco alle infrastrutture petrolifere saudite del 14 settembre è quindi l’ultimo episodio di una competizione per l’egemonia nella regione che si trascina da tempo e vede contrapporsi Riyadh e Teheran su una pluralità di fronti diversi, dal conflitto siriano, all’Iraq e infine allo Yemen, solo per citare i principali. Non è ancora stato stabilito con sufficiente certezza la dinamica di questo attacco. La rivendicazione degli Houthi yemeniti non ha convinto gran parte della Comunità Internazionale, in primis gli Stati Uniti, che hanno subito puntato il dito contro l’Iran.

Che sia stata direttamente Teheran a sferrare il colpo, o non piuttosto qualcuno dei suoi proxy in Iraq o in Yemen, non cancella l’evidenza che il risultato dell’azione collimi con l’agenda della Repubblica Islamica e, in particolare, delle sue fazioni più oltranziste, fermamente contrarie al dialogo con Washington, che si erano opposte con forza anche all’apertura di quella stagione di distensione avviata con la sigla dell’Accordo sul Nucleare nel 2015. Fazioni, queste, che dopo il ritiro americano dall’Accordo hanno ripreso in mano la politica estera iraniana dandole una connotazione nettamente più assertiva. E sono anche le dirette ispiratrici di quella politica di “difesa attiva” che Teheran, fin dagli albori del regime khomeinista, ha trasformato nella cifra della propria azione esterna. Fra tali misure rientrano sia il ricorso ad attentati e azioni di sabotaggio sia lo sviluppo di proxy nella regione, da impiegare per ingaggiare i rivali lontano dai propri confini nazionali e per influenzare la vita politica e l’economia dei Paesi in cui essi agiscono.

In quest’ottica, l’attacco al cuore pulsante dell’economia saudita ha sfruttato la mancanza di un’architettura di governance regionale, nella cui cornice comporre interessi e agende divergenti se non opposti, per indebolire il ruolo saudita anche all’interno di quei consessi sovranazionali in cui Riyadh ha un posto di primo piano. Su tutti, l’OPEC (in cui domina) e l’OPEC Plus (dove, in condominio con Mosca, controbilancia la crescita della produzione non convenzionale americana).

Proprio per queste ragioni, la valutazione della portata dell’attacco e delle sue ripercussioni non si deve fermare alle implicazioni materiali, ma deve tenere nel dovuto conto quelle di livello geopolitico e simbolico, di fronte alle quali le prime, dalla prospettiva saudita, possono anche sembrare poca cosa.

Gli strike del 14 settembre al complesso di Abqaiq e agli impianti di Khurais hanno sottratto alla produzione giornaliera saudita 5,7 milioni di barili di petrolio, la metà dell’output del Regno e circa il 5% dei volumi giornalieri globali. Indubbiamente, si tratta di un fendente portato deliberatamente in profondità all’economia saudita. Tra gli obiettivi colpiti ad Abqaiq, infatti, figurano soprattutto quei gas oil separation plant (GOSP) che sono cruciali per depurare il greggio e renderlo commerciabile, e la cui riparazione è ben più complessa rispetto ad altre infrastrutture come, ad esempio, un oleodotto. L’entità del danno, le incertezze circa la rapidità delle riparazioni e l’assottigliamento della spare capacity dei Paesi OPEC (peraltro quasi tutta saudita) hanno causato un terremoto sui mercati globali, con un’impennata di circa il 20% del prezzo al barile.

Ma ad essere colpita più duramente non è tanto la produzione petrolifera in sé, quanto, piuttosto, l’affidabilità stessa del Regno agli occhi dei Paesi importatori suoi clienti. Anche se il danno venisse riparato a tempo record e non si registrassero ulteriori scossoni sui mercati, l’attacco ha trasformato una possibilità teorica – la diminuzione o lo stop momentaneo dell’export saudita di greggio – in una realtà concreta e tangibile, per quanto di effetto limitato. Non è difficile immaginare che, al di là della reazione immediata per compensare possibili ammanchi, i Paesi che importano da Riyadh stiano approntando misure cautelative di carattere più strutturale. In primisuna diversificazione accelerata delle proprie forniture. L’effetto psicologico dell’attacco può sostanziarsi, per questi Paesi, in una vera e propria corsa al reperimento di partner alternativi (tra i candidati più probabili vanno annoverati gli Stati Uniti e, in una certa misura, la Russia). Ciò vale soprattutto per quei mercati più energivori e caratterizzati da economie in robusta crescita, come quelli asiatici, che, nel complesso, valgono circa due terzi dell’export dell’Arabia Saudita, diretto in gran parte verso Giappone (21%), Cina (17%), Corea del Sud (14%) e India (12%). E questa corsa danneggia doppiamente il Regno saudita: sia perché può erodere la sua quota in termini assoluti nella produzione globale di idrocarburi, sia, soprattutto, perché può avvenire in tempi relativamente rapidi. Ciò impedirebbe agli al-Saud di procedere con gradualità nel piano di trasformazione dei fondamentali della propria economia. Una gradualità di cui il Regno ha assolutamente bisogno per mantenere la sua stabilità politica e sociale interna, presupposto ineludibile della sua egemonia nella regione mediorientale.

Fonte: RiEnergia

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