L’incerta cooperazione tra Europa e Cina nel quadro della Belt and Road Initiative
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L’incerta cooperazione tra Europa e Cina nel quadro della Belt and Road Initiative

By Giulia Guadagnoli
07.12.2018

Tra il 6 e 7 luglio, si è svolto a Sofia il summit tra la Cina ed i 16 Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale (CEE), l’appuntamento annuale giunto ormai alla settima edizione pensato per rafforzare i rapporti politici ed economici tra le due aree geografiche. Conosciuto anche con il nome di Accordo 16+1, il forum vuole essere una piattaforma privilegiata di discussione e incontro tra i leader del blocco per discutere lo sviluppo della Belt and Road Initiative (BRI). Definita il ‘progetto del secolo’, la BRI è una iniziativa annunciata dal Presidente cinese Xi Jinping nel 2013 che, allo stato attuale, coinvolge oltre 65 Nazioni. Il progetto mira a colmare circa 5 dei 26 trilioni di dollari di gap infrastrutturale dell’intero continente asiatico, come stimato dalla Banca di Sviluppo dell’Asia (ADB) per il periodo 2016-2030. Di questa porzione, un quinto è già stato promesso dalla Cina. La strategia punta a collegare Asia, Europa ed Africa, attraverso lo sviluppo di due rotte: una terrestre, la Silk Road Economic Belt, che si estende dalla Cina fino all’Europa, ed una marina, la New Maritime Silk Road, che rappresenta un network di porti e rotte navali dal Mediterraneo al Pacifico.

La forte sponsorizzazione del progetto, promossa dalla Cina, trova spiegazione nelle numerose opportunità che l’iniziativa offre per quest’ultima. Da una parte, attraverso la BRI la Repubblica Popolare Cinese si pone come diretto rivale degli Stati Uniti, con l’obiettivo ultimo di sostituirli nell’immagine di superpotenza a livello globale. Dall’altra, la motivazione politica si colloca di concerto con quella economica. Creando infatti uno sbocco al proprio eccesso di capacità produttiva dell’industria pesante, ed aprendo nuovi mercati per i beni cinesi grazie allo sviluppo delle economie locali in cui il progetto verrà implementato, la Cina aumenterebbe, tra le altre cose, l’importanza del renminbi, usato come moneta principale dell’iniziativa. Tale divisa diventerebbe così una valuta di spicco nel contesto internazionale, iniziando seriamente a far concorrenza al dollaro e all’euro.

Il summit di Sofia è stata l’occasione per il governo cinese non solo di ribadire la volontà di portare avanti in modo trasparente la cooperazione ma anche per stipulare accordi per la costruzione di due autostrade per il collegamento, rispettivamente, tra Veliko Tărnovo (nel nord della Bulgaria) e Ruse (al confine bulgaro con la Romania), e tra Vidin (città bulgara sul Danubio) e Botevgrad (nella Regione di Sofia). Tali investimenti devono essere interpretati sulla base della rilevanza che il continente europeo svolge per la visione di lungo termine cinese. Nel tentativo di bilanciare il ruolo internazionale degli Stati Uniti, infatti, diventa fondamentale per la Cina stringere saldi rapporti diplomatici ed economici con l’Europa, destinazione ultima di entrambe le rotte, ed è proprio in tal senso che la CEE gioca un ruolo chiave, essendo l’anello geografico che collega il continente asiatico con quello europeo. Poiché all’interno dell’area sono presenti differenze nazionali di carattere politico, diplomatico ed economico, la disponibilità a partecipare alla BRI è cambiata nel tempo tra i Paesi CEE: considerevole, in tal senso, il peso che hanno avuto la tipologia di economia della Nazione considerata, i legami più o meno stretti con la UE ed il potenziale di mercato interno. Una piccola economia come la Slovenia, ad esempio, potrebbe riscontrare difficoltà nell’implementazione che Paesi come l’Ungheria, la Polonia e la Serbia non avrebbero. Nel tempo, la CEE si è rapportata con la BRI attraverso tre modalità: dalla ricerca e la strategia connessa per lo sviluppo dei progetti sul territorio, alle riunioni ad alto livello di natura sia bilaterale che multilaterale, fino alla redazione di documenti a sostegno di specifiche politiche di azione (i cosiddetti memorandum d’intesa, MOU). Proprio in virtù dell’importanza strategica rivestita dal territorio, gli investimenti cinesi nella CEE sono arrivati attualmente a circa 10 miliardi di dollari (un esempio di infrastruttura rilevante è il collegamento realizzato a inizio 2017 tra il porto di Ningbo e Budapest, passando attraverso Grecia, Macedonia e Serbia).

L’approccio dinamico tenuto dagli stati del 16+1 nei confronti della BRI non trova però corrispondenza in altre parti d’Europa e, soprattutto, da parte dell’Unione Europea (UE), di cui fanno parte 11 dei 16 Paesi CEE.  L’Unione Europea, infatti, non ha ancora elaborato una posizione chiara ed univoca nei confronti dell’iniziativa cinese. Da un lato, Bruxelles sembra percepire i potenziali benefici che deriverebbero da un più stretto rapporto con Pechino. Innanzi tutto, la Cina potrebbe essere considerata come valida alternativa a cui guardare per la UE in un momento in cui il rapporto con gli Stati Uniti sta attraversando una fase piuttosto travagliata: il Presidente Trump si è difatti più volte espresso contro una visione multilaterale delle relazioni internazionali, e data la sua chiusura verso forme di cooperazione con l’Unione quali il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP) e l’accordo di Parigi, per non parlare del recente scontro sui dazi, il rapporto tra Stati Uniti ed UE sembrerebbe in rotta di collisione. In secondo luogo, Bruxelles guarda con interesse, seppur cauto, agli investimenti potenziali che Pechino potrebbe indirizzare all’interno del contesto europeo, soprattutto in regioni, quali l’Europa orientale, le cui condizioni economiche sono meno fiorenti rispetto agli altri Stati membri. La realizzazione di progetti connessi a BRI, infatti, avrebbe non solo un impatto sulla rete di trasporti e della relativa logistica, ma potrebbe anche portare ad un aumento dell’occupazione e delle entrate fiscali, con conseguente sviluppo delle economie locali.

Tuttavia, il divario burocratico e le differenze che sussistono in termini di standard procedurali e di qualità, rendono difficile per l’UE aderire in pieno all’iniziativa. L’Unione Europea infatti ha svolto in questi anni un ruolo più politico che finanziario. Infatti la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD), braccio finanziario dell’Unione, ha fatto largo uso dei MOU al fine di garantire il rispetto degli standard progettuali europei, senza tuttavia porsi in prima linea come investitore di prima istanza. Di conseguenza, negli attuali progetti che hanno collegato 35 città cinesi con circa 34 città europee, implementati prima del lancio della BRI e solo dopo fatti rientrare sotto la sua sigla, il ruolo finanziario cinese è stato preponderante. All’interno di tale flusso di investimenti si rilevano tuttavia non solo i Paesi CEE, ma anche altri territori del continente. La Grecia prima fra tutte, quando nel 2016 la compagnia cinese Cosco ha acquisito il controllo del 67% del Pireo, principale porto del Paese. Non sono da meno anche i sostanziosi investimenti perpetrati dalla Cina lungo l’Europa occidentale: Portogallo, Francia, Italia, Germania, Belgio e Regno Unito ospitano i principali. Potendo attribuire alla BRI (per dichiarazioni dello stesso esecutivo cinese) tutte le acquisizioni, fusioni e progetti greenfield nell’area europea dal 2013 ad oggi da parte di compagnie statali cinesi, c’è stato un aumento totale degli investimenti diretti esteri di circa il 400%, passando dai circa 7 miliardi di euro nel 2013 ad oltre 35 miliardi all’inizio del 2017. In questo flusso non sono tuttavia compresi solo gli investimenti infrastrutturali, ma anche una più ampia gamma di progetti che mirano a facilitare l’integrazione culturale, tecnologica e finanziaria tra Paesi, la comunicazione fra i Governi e la circolazione di capitali, merci e persone.

Fino a data odierna, gli investimenti BRI sono finanziati da nove entità diverse. A fine 2016, il 51% di quota sui prestiti era finanziato dal pool delle quattro grandi banche commerciali cinesi: la Industrial and Commercial Bank of China, la Bank of China, la China Construction Bank e la Agricultural Development Bank of China. Il restante 49% è stanziato dalla China Development Bank (38%), dall’Export-Import Bank of China (8%), dal Silk Road Fund (1%), dall’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB, 1%) e dalla New Development Bank (1%). Mentre per la maggior parte sono tutti istituti finanziari a gestione statale, la New Development Bank è formata dai Paesi BRICS e l’AIIB (creata ad hoc per finanziare l’iniziativa) ha una governance molto variegata, che comprende al suo interno la maggior parte dei destinatari del progetto (non da ultimi, quasi tutti i Paesi europei). Quindi se l’Unione Europea, per ora, decide di non agire come forza finanziaria per sostenere il progetto (attraverso l’EBRD, ad esempio), i singoli Paesi hanno tutto l’interesse a promuovere accordi di natura bilaterale con la Cina. Non facendo parte della politica commerciale (di competenza esclusiva UE), gli Stati Membri hanno sovranità riguardo la decisione di aderire all’AIIB, senza dunque passare dal processo legislativo europeo. Un’ulteriore fonte di finanziamento è presente nei vari accordi bilaterali di lungo periodo tra la Cina e i singoli Paesi, oppure multilaterali. Esempio di quest’ultimo caso è il Paris Club, un gruppo istituito nel 1956 che comprende i più importanti investitori presenti nei Paesi economicamente più sviluppati del mondo.

Ciò che frena l’Europa dal prendere una posizione definita di lungo termine sul progetto sono i vari punti di criticità che lo hanno caratterizzato fin dall’inizio. Una prima fonte di scetticismo si basa sul potenziale livello di dipendenza che i Paesi potrebbero maturare nei confronti della Cina, a causa del debito. Il livello di sostenibilità di quest’ultimo, essendo gli investitori per larga parte cinesi, preoccupa fortemente i leader europei. Una tale relazione potrebbe infatti portare il Governo della Repubblica Popolare ad esercitare un’eccessiva influenza sui decisori politici dei Paesi ad alto debito. Da un punto di vista politico, inoltre, l’espansione della presenza economica cinese nella CEE preoccupa l’Unione Europea, a causa del possibile dilagarsi di sentimenti euroscettici correlati agli ingenti incentivi finanziari ricevuti. Questa possibilità potrebbe anche essere utilizzata nel lungo periodo dagli Stati Membri facenti parte del 16+1 per acquistare potere negoziale a Bruxelles, data la loro attuale scarsa capacità di influenzare il processo decisionale europeo. Un’altra fonte di dissidio è rappresentata dalla possibile lesione del principio europeo della libera concorrenza: le imprese cinesi infatti sono fortemente avvantaggiate nella competizione agli appalti per la realizzazione delle infrastrutture, avendo la Cina creato l’iniziativa anche per avere sbocchi al proprio eccesso di offerta produttiva. Non potrebbe esserci soluzione alla sovraccapacità, se non fossero proprio le compagnie cinesi a costruire. Il vero problema, tuttavia, riguarda la trasparenza nella gestione della BRI. Essendo le infrastrutture, l’energia e le tecnologie settori chiave per la sicurezza nazionale, lo sviluppo di questa iniziativa ha messo in allarme gli attori europei. Sulla falsariga del Comitato sugli Investimenti Esteri negli Stati Uniti (CFIUS), la Commissione Europea ha tentato di promuovere misure comunitarie di controllo sugli investimenti, per indagare sull’eventuale mancanza di trasparenza non solo nella gestione, ma anche nella finalità ultima degli stessi. Per ora gli sforzi in tal senso non hanno ancora dato frutti, data la contrarietà espressa da parte di alcuni Stati membri (quali ad esempio Ungheria e Grecia, che dalla BRI stanno ottenendo ingenti flussi di capitale in entrata), ma considerati gli scandali accaduti ad esempio nel porto del Pireo e nella ferrovia Belgrado-Budapest (entrambe sotto inchiesta da Bruxelles rispettivamente per sospetta frode fiscale e possibili violazioni sulle norme europee in tema di appalti pubblici), il bisogno di trasparenza sta pian piano diventando il punto cardine delle trattative. A tal proposito si inquadrano varie recenti iniziative di matrice europea, come la “Strategia UE sulla China” e la “Connectivity Platform” (un forum costituito per favorire la sinergia tra i due attori), che mirano appunto a migliorare la cooperazione tra la BRI e le politiche europee non solo sull’infrastruttura, ma anche sulla logistica e sui finanziamenti, il tutto nel totale rispetto della legislazione europea e del diritto internazionale vigenti.

Guardando al prossimo Summit UE-Cina a Pechino, fissato per il 16 e 17 luglio 2018, le proposte sviluppate negli ultimi due anni sembrerebbero un tentativo della leadership europea per avvicinarsi gradualmente al progetto. È infatti necessario per l’Unione Europea bilanciare le criticità presenti con le opportunità offerte dalla BRI. Se da una parte non vuole concedere un eccessivo potere sul proprio territorio alla Cina, a livello di diplomazia economica, dall’altra non può nemmeno rischiare di perdere influenza sui Paesi esplicitamente favorevoli ad instaurare un rapporto duraturo con la Repubblica Popolare, soprattutto in un periodo come quello attuale, in cui da un lato gli euroscetticismi stanno conquistando la pubblica opinione, mentre dall’altro sta lentamente perdendo l’alleanza con gli Stati Uniti, Paese che storicamente ha tenuto lontano l’Europa da eccessive ingerenze orientali.

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