La primavera siriana ed i rapporti Ankara - Damasco
Middle East & North Africa

La primavera siriana ed i rapporti Ankara - Damasco

By Pierfrancesco Cardalesi
03.19.2012

La rivolta attualmente in corso nella Repubblica Araba di Siria ha prodotto e continua a produrre importanti effetti sullo scacchiere regionale e sui fragili equilibri di vicinato; tra le prime conseguenze prodotte dalla primavera siriana vi è la brusca interruzione delle relazioni diplomatiche tra Ankara e Damasco.

Solo alcuni anni prima le relazioni tra i due paesi avevano reso possibile la realizzazione di importanti accordi in diverse materie ed Ahmet Davutoglu, Ministro degli Esteri turco, dal suo insediamento nel maggio 2009 aveva compiuto, in meno di due anni, oltre sessanta missioni diplomatiche in territorio siriano; tra l’estate del 2007 e quella del 2008, inoltre, la Turchia aveva intrapreso numerose azioni volte a favorire la sottoscrizione di un vero e proprio accordo di pace tra Siria e Stato d’Israele.

Il core business di tale processo di pace era costituito, da parte israeliana, dalla restituzione alla Siria del Golan occupato mentre, dal canto suo, la Siria avrebbe dovuto provvedere a sospendere ogni forma di supporto a favore di Hezbollah e di Hamas, allontanando da Damasco il suo leader politico, Khaled Mashaal; la Siria, inoltre, avrebbe dovuto garantire ad Israele un allentamento delle relazioni diplomatiche con la Repubblica Islamica dell’Iran.

L’inserimento della Turchia all’interno di tale processo di pace era ispirato alla politica, inaugurata proprio da Ahmet Davutoglu, del “zero problemi con i vicini” ma, di fatto, tale processo è stato gravemente compromesso, tra il dicembre 2008 ed il gennaio 2009, dal lancio dell’operazione Piombo Fuso da parte del governo israeliano contro Hamas nella Striscia di Gaza; le azioni intraprese dal governo israeliano in quell’occasione e le successive sanzioni contro i Territori Occupati hanno provocato un inasprimento delle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Israele che nemmeno l’insediamento di Barack Obama presso la Casa Bianca nel gennaio 2009 è riuscito più a stemperare.

Nell’autunno del 2010 la Siria ha chiesto alla Turchia di dare un’energica ripresa al processo interrotto nell’estate del 2008 ma, di fatto, le prime agitazioni di piazza a Daraa erano ormai vicine e la dura repressione perpetrata dal regime di Bashar al-Asad nel contrastare le proteste di piazza ha rapidamente deteriorato le relazioni diplomatiche turco-siriane; Ankara ha censurato in tutte le sedi a sua disposizione l’operato del regime alawita ed è giunta, infine, ad interrompere ogni fornitura militare a favore di Damasco.

Successivamente il governo turco ha offerto al popolo siriano ed all’opposizione al regime alawita la possibilità di dare risonanza internazionale al proprio dissenso ospitando ad Antalya, tra il 31 maggio ed il 3 giugno 2011, la ben nota Conferenza per il cambiamento; il successivo 23 agosto, inoltre, ad Istanbul è nata la principale piattaforma politica d’opposizione al regime, il Consiglio Nazionale Siriano.

Questo graduale avvicinamento della Turchia alle forze d’opposizione al regime siriano e l’interruzione delle relazioni diplomatiche con la Siria ha provocato forti tensioni tra Ankara e Teheran; il 9 ottobre 2011, di fatto, l’ex comandante della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, Rahim Safani, ha apertamente minacciato il governo turco. Il suo proclama era furiosamente rivolto contro la proiezione di potenza regionale della Turchia, il peso delle sue relazioni con le forze della NATO ed, infine, il processo di secolarizzazione promosso da Ankara nei confronti dell’Islam; la repubblica islamica, di fatto, ha sempre temuto l’influenza culturale ed intellettuale che la Turchia è in grado di esercitare su diversi paesi arabi ed islamici.

Le azioni che in futuro Damasco deciderà di intraprendere nei confronti della Turchia saranno certamente condizionate dalla posizione che quest’ultima assumerà in relazione all’ipotetico scenario di un intervento armato in territorio siriano; come noto, attualmente questa strada risulta non percorribile in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite stante il veto espresso dalla Federazione Russa e dalla Repubblica Popolare Cinese in merito alle due possibili opzioni: le dimissioni forzate del presidente Bashar al-Asad e l’intervento militare.

Quest’ultima opzione, di fatto, potrebbe essere percorsa, in linea teorica, all’interno di una coalizione guidata dagli Stati Uniti e che abbia il consenso della Lega Araba ad operare in Siria; in questo caso, la presenza della Turchia risulterebbe necessaria vista la conoscenza del territorio siriano e l’importante supporto logistico rappresentato proprio dalla penisola anatolica. Una soluzione militare che si consumasse al di fuori del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tuttavia, dovrebbe comunque ottenere l’avallo della Federazione Russa, le cui principali unità navali sono proprio schierate presso il porto siriano di Tartus.

Qualora la Turchia decidesse di assumere una posizione apertamente ostile nei confronti della Siria il regime di Damasco potrebbe giocare, come ultimo colpo di coda, la carta del PKK Dagli accordi di Adana, di fatto, diverse cellule del Partito dei Lavoratori del Kurdistan sono presenti in territorio siriano e, nel caso in cui Ankara decidesse a favore di un intervento militare nell’ambito di una coalizione a guida statunitense, il regime alawita potrebbe stimolare un’ulteriore escalation del terrorismo di matrice curda in territorio turco.

L’intervento armato, tuttavia, oltre a costituire un’opzione non facilmente percorribile sembra non interessare Ankara; il governo turco, infatti, dovrebbe combattere una fervida opposizione interna contraria a tale opzione mentre, di fatto, sembra molto più interessato a partecipare all’eventuale regime change sostenendo, anche sul proprio territorio, le iniziative dell’opposizione siriana ed utilizzando i canali a disposizione del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo di Recep Tayyip Erdogan nel dialogo con le forze islamiche che si oppongono a Bashar al-Asad.

Tra le alternative al regime di Bashar al-Asad, di fatto, vi è quella di una guida islamica della Siria; da questo punto di vista, in più occasioni i Fratelli Musulmani si sono detti entusiasti ammiratori del modello turco, ovvero di un modello in grado di superare l’autoritarismo militare laico realizzando un ordinamento tradizionale e conservatore sul piano valoriale ma spiccatamente liberale sul piano delle riforme economiche. Una Siria a guida islamica che risorga dalle ceneri del regime di Bashar al-Asad, molto probabilmente, si affretterebbe a ripristinare le relazioni diplomatiche bruscamente interrotte con la Turchia e sarebbe costretta a rivedere, non necessariamente interrompendole, le proprie relazioni all’interno dell’asse sciita a guida iraniana.

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