Il crescente coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti in Africa
Middle East & North Africa

Il crescente coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti in Africa

By Alessio Stilo
09.04.2025

Negli ultimi anni gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno approfondito in modo rilevante la loro proiezione in Africa, trasformandosi da attore regionale del Golfo a protagonista emergente del Continente nero. Attraverso una combinazione di investimenti infrastrutturali, iniziative energetiche, accordi minerari e attività diplomatiche, Abu Dhabi e Dubai hanno ampliato la loro influenza ben oltre le tradizionali aree di cooperazione con il Nord Africa, arrivando a competere direttamente con la Repubblica Popolare Cinese e a sopravanzare Stati Uniti e Unione Europea sul piano economico. Questa strategia, che si inserisce in una fase di ristrutturazione globale delle priorità africane, mostra come gli Emirati stiano costruendo una presenza destinata a incidere profondamente sugli equilibri futuri della regione.

Dal 2019 al 2023 le imprese emiratine hanno annunciato progetti in Africa per circa 110 miliardi di dollari, con oltre il 65% dei capitali diretti verso il settore delle energie rinnovabili, un dato che fotografa la centralità della transizione energetica nella visione emiratina, in linea con la strategia “We the UAE 2031”, nonché con i propositi di diversificazione economica e con la volontà di presentarsi alla stregua di partner di riferimento per i Paesi africani nel percorso verso uno sviluppo sostenibile. La compagnia Masdar, che incarna gli sforzi di Abu Dhabi verso la transizione verde, ha già previsto investimenti fino a 10 miliardi di dollari e l’installazione di 10 gigawatt di capacità rinnovabile entro il 2030, mentre AMEA Power ha realizzato il più grande impianto solare dell’Africa occidentale in Togo e ha avviato progetti a Gibuti, in Tunisia, Uganda e Burkina Faso. Parallelamente, società come Global South Utilities hanno avviato centrali fotovoltaiche in Repubblica Centrafricana e Madagascar.

Uno dei programmi-chiave che gli EAU impiegano per diversificare la propria economia (con l’obiettivo innalzare il PIL a 800 miliardi di dollari entro il 2030, oltre a 1,1 trilioni di dollari di scambi commerciali non petroliferi totali entro il 2031) è il Comprehensive Economic Partnership Agreement (CEPA), che Abu Dhami mira ad allargare ai Paesi africani. In quest’ultimo senso, l’accordo CEPA stipulato il 25 agosto 2025 con l’Angola, dopo gli analoghi siglati in precedenza con Kenya, Repubblica Centrafricana e Mauritius, sembra confermare la tendenza all’incremento del contributo degli stessi CEPA (+ 42% nel 2024 rispetto all’anno precedente) sul totale del commercio estero non petrolifero degli Emirati Arabi Uniti.

Il settore minerario rappresenta un altro pilastro della strategia africana. La Repubblica Democratica del Congo (RDC), ricchissima di rame, cobalto e stagno, è divenuta un terreno privilegiato per l’ingresso emiratino. Abu Dhabi International Resources Holding ha acquisito quote di rilievo in miniere di rame e stagno, mentre NG9 Holding ha avviato la costruzione della prima raffineria integrata di rame-cobalto nel Paese. Questi progetti non solo rafforzano la posizione emiratina nelle catene globali delle materie prime essenziali per la transizione energetica, ma contribuiscono anche al tentativo congolese di sviluppare capacità locali di trasformazione.

Il comparto energetico tradizionale non è stato trascurato: ADNOC detiene il 10% del bacino Rovuma in Mozambico, mentre la società Dubai Alpha MBM sta costruendo la prima raffineria petrolifera dell’Uganda. A ciò si aggiungono investimenti nei settori logistici, agricoli e delle infrastrutture portuali, laddove i colossi DP World e AD Ports (che controllano o gestiscono oltre una dozzina di terminal in diversi Paesi africani) consolidando il ruolo emiratino come hub della connettività tra Africa, Golfo e Asia.

La crescente presenza emiratina si confronta inevitabilmente con quella cinese. Pechino rimane l’attore dominante in Africa per scala e profondità dei progetti, come mostrano le grandi opere infrastrutturali in Kenya, Tanzania e Mozambico. Ciò nonostante, il modello degli EAU si distingue per agilità e rapidità di esecuzione. Mentre la Cina punta su mega-progetti statali finanziati da banche pubbliche e spesso associati a debito a lungo termine, Abu Dhabi preferisce interventi più contenuti, con ritorni rapidi e limitata esposizione debitoria per i partner africani. Questo approccio rende le iniziative emiratine più attrattive per diversi governi africani che, già gravati dal debito, sono alla ricerca di alternative meno onerose.

Un altro elemento distintivo è rappresentato dalla varietà degli attori coinvolti: accanto ai fondi sovrani, è in crescita il ruolo di imprese private e family business emiratini, incoraggiati a partecipare all’espansione in Africa anche attraverso iniziative istituzionali come la “UAE Africa Gateway”, una piattaforma lanciata a fine 2024 al fine di facilitare l’espansione e gli investimenti delle imprese emiratine nei mercati africani. Questa apertura favorisce la diversificazione settoriale e territoriale, con progetti che spaziano dall’Etiopia alla Nigeria, dall’Algeria al Sudafrica, segnando una presenza ormai capillare.

Un aspetto meno visibile, seppur altrettanto strategico, è il ruolo degli EAU come piattaforma di intermediazione per capitali diretti in Africa. Grazie ai centri finanziari internazionali di Dubai e Abu Dhabi, che offrono giurisdizioni di common law e civil law, gli Emirati si candidano a diventare il principale hub per la strutturazione di fondi, arbitrati e strumenti di gestione patrimoniale legati al Continente nero. Già oltre 21.000 aziende africane operano negli EAU, mentre cresce il numero di imprenditori che scelgono Dubai per costituire family office o fondazioni, attratti da stabilità valutaria e ambiente legale favorevole. Questa funzione di “ponte finanziario” conferisce agli Emirati un ulteriore vantaggio competitivo rispetto ad altri attori esterni coinvolti (o con interessi) in Africa.

L’espansione emiratina in Africa non si limita al versante economico. Abu Dhabi ha assunto un ruolo più marcato in diversi dossier di sicurezza, come dimostrano il supporto alle forze somale contro al-Shabab e il coinvolgimento nella guerra sudanese. Tuttavia, proprio il caso del Sudan evidenzia le ambiguità della postura emiratina. Il governo di Khartoum accusa gli EAU di sostenere i paramilitari delle Rapid Support Forces nella guerra civile che contrappone queste ultime alle forze armate regolari guidate da Abdel Fattah al-Burhan, anche tramite le forniture di sistemi d’arma e il ricorso a mercenari stranieri. Sebbene Abu Dhabi abbia respinto le accuse, il sospetto di un attivismo parallelo alla cooperazione economica solleva dubbi sulla reale natura della sua presenza. Analoghe preoccupazioni emergono in Somalia, dove il dispiegamento di radar israeliani da parte emiratina e l’uso dell’aeroporto di Bosaso per scopi militari hanno alimentato tensioni con il governo centrale di Mogadiscio, che accusa Abu Dhabi di sostegno attivo (inclusi significativi investimenti) alle velleità secessioniste dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland.

Questi episodi mostrano come l’Africa costituisca per gli EAU anche un laboratorio di proiezione geopolitica e militare, complementare alla dimensione economica. Il rischio è che l’immagine di partner affidabile e promotore di sviluppo sostenibile venga incrinata dall’associazione con conflitti e attività paramilitari, o persino dall’accusa (perpetrata dai critici) di aver costruito un “asse di secessionisti” nella regione, con riferimento all’asserito sostegno emiratino, nel corso dell’ultimo decennio, a cause separatiste in Libia, Yemen, Sudan e Somalia.

Dal punto di vista africano, la relazione con gli EAU offre indubbi vantaggi. Gli investimenti emiratini rispondono a bisogni urgenti di infrastrutture, energia e occupazione, spesso con tempistiche e condizioni più favorevoli rispetto a quelle offerte da attori tradizionali. Inoltre, la diversificazione dei partner esterni consente ai governi africani di ridurre la dipendenza da un singolo interlocutore, come nel caso della Cina. Malgrado ciò, la natura marcatamente transazionale della strategia emiratina e la sua connessione con obiettivi geopolitici propri comportano anche rischi: dall’esposizione a controversie legali internazionali sino al coinvolgimento indiretto in conflitti regionali.

Nel complesso, il crescente protagonismo emiratino in Africa segna una fase di trasformazione profonda nelle relazioni tra il continente e gli attori del Golfo. Gli EAU non si limitano più a un ruolo marginale, ma si propongono come partner di riferimento, in grado di offrire capitali, tecnologie e intermediazione finanziaria. Al contempo, la presenza emiratina porta con sé nuove dinamiche di competizione, tanto con potenze globali come la Cina, quanto con attori regionali come l’Arabia Saudita e l’Iran. La traiettoria futura dipenderà dalla capacità degli EAU di bilanciare l’ambizione di influenza con la necessità di mantenere credibilità come partner di sviluppo. Per i Paesi africani, la sfida è connessa alla prerogativa di sfruttare le opportunità offerte dagli investimenti emiratini senza cadere in nuove forme di dipendenza o in dinamiche di conflitto, suscettibili di compromettere i benefici economici.