Geopolitical Weekly n.316

Geopolitical Weekly n.316

By Francesco Barbaro, Andrea Cerasuolo and Gloria Piedinovi
01.31.2019

Burkina Faso

Il 27 gennaio, un commando armato ha assaltato il mercato del villaggio di Sikire, nel nord-est del Paese, uccidendo dieci persone. Il giorno successivo, quattro soldati sono stati uccisi e altri cinque sono rimasti feriti in seguito ad una imboscata subita nell’area prospicente il villaggio, lungo il con-fine con il Mali.

Anche se non è giunta alcuna rivendicazione ufficiale, probabilmente gli autori degli attacchi potrebbero appartenere ai gruppi jihadisti autoctoni che da più di quattro anni imperversano nelle regioni nord-orientali del Paese saheliano. I militari hanno già subito azioni di questo tipo. Nel 2016 un attacco contro un’unità antiterrorismo delle Forze Armate è stato rivendicato da Ansar al-Islam, gruppo jihadista legato ad al-Qaeda.

L’attività jihadista nel Paese si è intensificata tanto da indurre lo scorso dicembre il governo di Ouagadougou a proclamare lo stato d’emergenza per sei mesi nelle provincie settentrionali.

Nel Paese, si contano almeno tre gruppi operativi: il già citato Ansar al-Islam, il Fronte di Libera-zione di Macina e lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Questi movimenti controllano le aree rurali settentrionali approfittando delle debolezze dell’autorità centrale e finanziandosi attraverso i traffici illeciti e il controllo delle risorse naturali (acqua e pascoli).  A ciò bisogna aggiungere le particolari condizioni etnico-sociali del Paese che sconta scelte politiche avverse al gruppo etnico dei Fulani, prevalentemente pastori seminomadi, che hanno spinto molti di questi ad abbracciare la causa jihadista in cerca di riconoscimento e tutela politica. Di fronte all’aumento quantitativo e qualitativo degli attacchi, membri del parlamento hanno a più riprese denunciato il coinvolgimento nell’organizzazione degli attacchi di appartenenti alla Guardia Presidenziale, corpo d’élite sciolto dopo la rivolta a guida militare che depose l’ex Presidente Compaorè nel 2014, col fine di riconquistare il prestigio e il potere persi.

Filippine

Domenica 27 gennaio, a Jolo nelle Filippine, due bombe sono scoppiate durante la celebrazione di una messa, distruggendo la cattedrale e causando la morte di venti persone. La città è capoluogo dell’isola di Sulu e appartiene alla regione meridionale di Mindanao, a maggioranza musulmana.  Sulu aveva acquisito un forte valore simbolico, essendo stata l’unica a respingere lo storico referendum per l’istituzione della regione autonoma di Bangsamoro in tutto il sud delle Filippine , proposto negli ultimi mesi dal governo di Manila per cercare di porre termine a decenni di lotte indipendentiste portate avanti dall’insorgenza locale. Tutte le province interessate, ad eccezione di Sulu, avevano difatti approvato il quesito referendario a larga maggioranza (85%), per vedere la creazione di un’entità amministrativa con poteri esecutivi, legislativi, fiscali, e destinataria di cospicui fondi dallo Stato centrale. Questo processo vedrebbe direttamente coinvolto uno degli storici gruppi ribelli, il Moro Islamic Liberation Front (MILF), che ha recentemente accettato di venire a patti con il governo, rinunciando all’obiettivo di uno Stato indipendente e preparandosi a trasformarsi in una forza politica organica al sistema democratico.

L’attacco, compiuto dunque nell’unica provincia che ha respinto il referendum, potrebbe essere stato frutto del tentativo da parte dell’insorgenza locale di lanciare un segnale di forza alle autorità centrali . A poche ore dall’esplosione, infatti, l’attentato è stato rivendicato dalla branca regionale del sedicente Stato Islamico (IS, Daesh), che ha proprio nel sud delle Filippine la propria roccaforte. Qui Daesh costituisce un “ombrello” nel cui nome agiscono formazioni locali ad esso affiliate: a compiere materialmente l’attentato sarebbe stato Abu Sayyaf, gruppo ribelle che ha nell’isola uno dei suoi centri operativi e che già in passato parte del network jiadista legato ad al-Qaeda nella regione.  In tale contesto vi è la possibilità che l’IS, in difficoltà in Medioriente, tenti di spostare il proprio baricentro territoriale nel Sudest asiatico, con il rischio di un ritorno della minaccia legata al terrorismo internazionale nella regione.

Tunisia

Il 27 gennaio è stata annunciata a Monastir la nascita del nuovo partito Tahya Tounes (Viva la Tunisia), a sostegno del Premier Youssef Chahed. La nuova formazione, nata nel pieno della crisi del governo tunisino, si pone come un’alleanza che vuole riunire le forze democratiche moderniste.

Attualmente la coalizione di governo è composta dal partito islamista conservatore Ennahda e da quello laico riformista Nidaa Tounes. Proprio all’interno di Nidaa sono avvenuti, negli ultimi mesi, significativi mutamenti. Infatti, il Premier Chahed ha fatto parte del partito fino allo scorso settembre, ma già nei mesi precedenti aveva espresso posizioni sempre più in disaccordo con la linea del Segretario Hafedh Essebsi. A settembre, Essebsi ha espulso ufficialmente il Premier dal partito, e ha gradualmente preso le distanze da Ennahda, pur rimanendo formalmente insieme all’interno della coalizione di governo. Nel frattempo, attorno a Chahed si sono radunati circa 40 deputati, in gran parte fuoriusciti da Nidaa, con i quali è nato il nuovo movimento politico.

La mossa va letta sullo sfondo delle prossime elezioni legislative e presidenziali, che si dovrebbero svolgere a dicembre. Con la creazione di Viva la Tunisia, Nidaa si trova di fronte un potenziale contendente per il ruolo di rappresentare l’ala democratica progressista nel panorama politico tunisino. Il livello della competizione tra le due formazioni sembra destinato ad aumentare, soprattutto alla luce del fatto che la base elettorale a cui si rivolgono i due partiti è sostanzialmente la stessa, ossia l’elettorato democratico, moderato e laico. Dunque, la campagna elettorale rappresenta un passaggio estremamente delicato per entrambi i partiti. Questa potrebbe assumere i connotati di non solo di una vera e propria lotta per la leadership del campo progressista tunisino, ma anche di uno scontro per la sopravvivenza politica di ciascuna delle due formazioni.

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