Geopolitical Weekly n.152

Geopolitical Weekly n.152

By Andrea Ferrante and Anna Miykova
07.10.2014

Sommario: Afghanistan, Cina, Ucraina, Uganda

Afghanistan

Mercoledì 2 luglio, la Commissione Elettorale Indipendente (IEC) afgana, ha reso noti i risultati preliminari del secondo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi lo scorso 14 giugno. Dal primo conteggio, sembrerebbe che l’ex economista della Banca Mondiale, Ashraf Ghani, abbia ottenuto il 56,4% dei voti, ribaltando, di fatto, la netta affermazione al primo turno del suo rivale Abdullah Abdullah, che contesta ora la veridicità delle proiezioni. Secondo le denunce di Abdullah, infatti, gli attuali risultati sarebbero stati falsati dai pesanti brogli, messi in atto durante l’ultima tornata, che avrebbero interessato soprattutto alcune province orientali, bacino elettorale di Ghani. Già nelle settimane successive alla consultazione, i sostenitori di Abdullah erano scesi in piazza per manifestare contro tali irregolarità e contro l’apparente coinvolgimento della stessa Commissione, tanto da indurre il Segretario della IEC, Ziaul Haq Amarquel a rassegnare le proprie dimissioni.

Il rifiuto di Abdullah di riconoscere i risultati e l’intenzione di formare, in caso di sconfitta, un governo parallelo all’autorità ufficiale ha suscitato la preoccupazione della Comunità Internazionale che guarda alla dilatazione dello stallo politico in atto e alla delegittimazione del processo elettorale come ad una pericolosa minaccia per la futura stabilità istituzionale del Paese. In proposito, il Segretario di Stato americano, John Kerry,  è giunto a Kabul nella giornata di venerdì per cercare di trovare una soluzione condivisa tra le parti che possa, da un lato, porre termine al braccio di ferro tra i due candidati, dall’altro, assicurare la tutela e la credibilità delle istituzioni governative, messe in discussione dall’attuale impasse politico.

Cina

Venerdì 4 luglio, la Marina militare cinese ha fermato un peschereccio vietnamita nei pressi dell’isola di Hainan, Mar cinese meridionale, arrestando i sei pescatori presenti a bordo. Le autorità di Pechino hanno denunciato la violazione delle acque territoriali cinesi da parte dell’imbarcazione, mentre il governo di Hanoi ha fatto sapere che la stessa stava solcando acque appartenenti a un’area di pesca comune. Accaduto a meno di due mesi di distanza dall’installazione da parte di Pechino dell’impianto di trivellazione Hayang Shiyou 981 nei pressi delle isole Paracel, che aveva generato forti violenze anti-cinese ad Hanoi, l’episodio rischia ora di riacutizzare le tensioni tra i due Paesi.

La detenzione dei pescatori vietnamiti, tuttavia, appare solo l’ultima manifestazione dell’ assertività cinese, che rappresenta un fattore di criticità non solo per i rapporti bilaterali tra Pechino e Hanoi ma anche per la stabilità generale di un’area, quale il Mar Cinese Meridionale, in cui si intrecciano le rivendicazioni di altri attori che si affacciano su questo tratto di mare (Taiwan, Brunei, Filippine e Malesia) e che guardano all’atteggiamento cinese come ad un pericoloso fattore di criticità per i propri interessi strategici nella regione.

Improntata a una strategia del “fatto compiuto”, infatti, la politica di interdizione messa in atto dalle autorità cinesi, per impedire l’accesso alle imbarcazioni straniere nelle acque rivendicate, mira ad imporre in modo unilaterale una nuova definizione dei confini delle acque territoriali e delle Zone Economiche Esclusive, con forti ripercussioni sui diritti di sfruttamento delle risorse presenti nell’area e, conseguentemente, della sovranità territoriale degli altri Stati rivieraschi.

Ucraina

Il 5 luglio scorso, i ribelli filorussi della Repubblica Popolare di Donetsk (RPD) hanno abbandonato la città di Slovyansk, divenuta dallo scorso marzo una delle roccaforti dell’insorgenza nell’est del Paese. La ritirata delle milizie anti-governative, che hanno ripiegato su Donetsk e Lugansk, è stata diretto effetto dell’operazione antiterrorismo di Kiev che, nelle ultime settimane, ha fatto riscontrare un notevole incremento della propria efficacia. Per la prima volta dallo scoppio dell’insurrezione, le autoproclamate Repubbliche popolari del Donbass hanno perso il vantaggio militare che inizialmente avevano sulle forze ucraine e adesso si preparano ad una strenua difesa delle loro ultime roccaforti orientali. A questo proposito, appare significativo come proprio durante la ritirata, 3 ponti ferroviari che collegano la città di Donetsk siano crollati, provocando l’interruzione delle linee di comunicazione con la città. Anche in assenza di una rivendicazione, vi sono forti sospetti che possa trattarsi di un’azione dei separatisti per rallentare l’avanzata dell’Esercito ucraino.

A livello internazionale, continuano i tentativi di trovare una soluzione politica alla crisi ma il nuovo assembramento di truppe russe a Voronezh, a pochi km dal confine ucraino, porta a ritenere che Mosca prosegua con la sua politica ambivalente: da un lato promuovere i negoziati tra le parti, dall’altro sostenere i separatisti con equipaggiamento e mercenari.

Gli ultimi sviluppi della strategia russa nei confronti di Kiev lasciano intendere che, in caso di rischio di sconfitta del fronte separatista, il Cremlino non escluda del tutto la possibilità di un intervento militare diretto.

Uganda

Lo scorso 6 luglio un gruppo di uomini armati non meglio identificati ha attaccato alcune postazioni di polizia e caserme nei distretti ugandesi di Kasese, Ntoroko e Bundibugyo, al confine con la Repubblica Democratica del Congo (RDC), provocando la morte di 58 persone (41 assalitori e 17 tra poliziotti e civili). Sebbene l’attacco non sia stato rivendicato, sono forti i sospetti che la responsabilità sia del gruppo ugandese ADF-Nalu, nato dall’unione delle Forze Democratiche Alleate (ADF) e dall’Esercito Nazionale per la Liberazione dell’Uganda (NALU) e costituito per la maggior parte da miliziani islamici affiliati alla setta Jammaat Tabligh. La ripresa dell’insorgenza di ADF-Nalu, che ha a lungo sfruttato le province orientali del Congo come retroterra per i propri attacchi, costituirebbe una seria minaccia alla sicurezza di Kampala, poiché il gruppo agisce in funzione antigovernativa ed è riuscito progressivamente a canalizzare il forte malcontento delle comunità musulmane più deboli e marginalizzate. A suscitare forte preoccupazione è la possibilità di una graduale infiltrazione di ADF-Nalu da parte di elementi del network jihadista regionale, in particolare miliziani del gruppo somalo al-Shabaab. Infatti, alla luce della recente internazionalizzazione operativa di al-Shabaab, è ravvisabile l’intenzione di intensificare i rapporti tra le due formazioni per aprire un nuovo fronte dell’insorgenza jihadista. L’Uganda è impegnata nella lotta ad al-Shabaab nel contesto della missione AMISOM e potrebbe quindi rappresentare un obiettivo sensibile per l’islamismo radicale del Corno d’Africa, come confermato dai 2 attentati che hanno insanguinato Kampala nel 2010 e dell’allarme terrorismo lanciato dalle autorità statunitensi lo scorso 3 luglio. Nella fattispecie, l’obbiettivo dei miliziani sarebbe stato l’aeroporto internazionale di Entrebbe.

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