Geopolitical Weekly n. 336

Geopolitical Weekly n. 336

By Simone Acquaviva and Melania Malomo
09.19.2019

AFGHANISTAN: i talebani alzano il tiro in vista delle elezioni di fine settembre

Martedì 17 settembre due attacchi suicidi, , hanno portato alla morte di 48 persone in Afghanistan. La prima delle due esplosioni è avvenuta durante il comizio del Presidente Ashraf Ghani a Charikar, nella provincia di Parwan, la seconda nei pressi dell’ambasciata statunitense a Kabul.

Gli attentati sono stati entrambi rivendicati dai Talebani e rappresentano un chiaro segnale di ostilità del gruppo verso l’appuntamento elettorale del 28 settembre, quando, salvo rinvii, i cittadini afghani saranno chiamati ad eleggere il nuovo Capo di Stato. I Talebani controllano larghe parti di territorio afghano ed hanno interesse a delegittimare il processo democratico e ad istaurare un clima di terrore che ne renda impossibile la realizzazione o allontani i cittadini dalle urne.

Gli attacchi avvengono a circa una settimana dall’interruzione dei negoziati con gli Stati Uniti, che avrebbero condotto al ritiro di 4.500 soldati dal territorio afghano. Da allora delegazioni talebane, nel tentativo di aggirare lo stallo negoziale con gli Stati Uniti e portare comunque avanti il processo di reinserimento nel sistema istituzionale afghano, hanno cercato possibili canali di dialogo alternativi con l’Iran e la Russia. Ancora non è chiaro se e quando il dialogo con Washington potrà riaprisi. Nonostante da parte americana permanga la volontà di assicurare un rientro, almeno parziale, delle truppe prima dell’appuntamento con le presidenziali statunitensi del 2020, la Casa Bianca sembra intenzionata a rivedere la gestione di un eventuale ridimensionamento della presenza statunitense nel paese, per scongiurare un improvviso peggioramento della crisi di sicurezza nel Paese.

ARABIA SAUDITA: attacco al cuore dell’industria petrolifera del Regno dei Saud

Domenica 15 settembre, due tra i più grandi complessi petroliferi al mondo, Abqaiq e Khurais, che si trovano in Arabia Saudita, sono stati parzialmente distrutti in seguito ad un attacco da parte di droni o missili, di provenienza ancora dubbia. L’attacco ha causato un dimezzamento della produzione petrolifera saudita, facendo mancare dal mercato circa il 5% del fabbisogno petrolifero mondiale. Si è anche verificato un rialzo del 20% sui prezzi del petrolio.

L’attacco è stato rivendicato dai ribelli Houthi ed è stato giustificato nel contesto di una controffensiva agli attacchi aerei sauditi, che da 5 anni colpiscono obiettivi civili in Yemen. I ribelli hanno dichiarato che, in assenza di una tregua, continueranno a colpire i punti cardine dell’industria e dell’economia saudita. Tuttavia, per gli Stati Uniti l’attacco è sicuramente imputabile all’Iran. Secondo Washington, da immagini satellitari sarebbe emerso che i droni e i missili provenivano da nord/nord-est, e che sarebbero stati lanciati direttamente dal territorio iraniano. Precedentemente, invece, gli Stati Uniti avevano ipotizzato che l’attacco potesse essere stato sferrato dal territorio dell’Iraq del sud o da aree limitrofe. L’Iran ha negato ogni accusa.

Anche se le dinamiche dell’attacco risultano ancora poco chiare, esso ha ovviamente esacerbato le tensioni Iran-USA. Infatti, il “pull-out” americano dall’accordo sul nucleare con Teheran ha rafforzato i segmenti politici oltranzisti in Iran. Questi hanno sfruttato la politica di massima pressione contro l’Iran, decisa subito dopo dall’Amministrazione Trump, per mettere fuori gioco le fazioni più moderate dell’establishment iraniano.

Un segnale di questo rinvigorimento dei “falchi” iraniani, che controllano anche la proiezione di Teheran nella regione, può essere letto già negli attacchi alle petroliere statunitensi e britanniche nello stretto di Hormuz dei mesi scorsi.  La distruzione delle industrie petrolifere saudite però è un attacco che porta lo scontro ad un livello più alto, con il rischio non trascurabile di pericolose escalation, e di un inasprimento della contesa per l’egemonia regionale. Tensioni e conflittualità che potrebbero sfogarsi nei punti già caldi della regione.

Israele al voto: Netanyahu e Gantz pareggiano, ancora nessuna maggioranza chiara

Il 17 settembre, in Israele si sono tenute le elezioni per il rinnovo del Parlamento, la Knesset. Si tratta delle seconde elezioni in un anno, dopo quelle di aprile che non avevano determinato una maggioranza chiara di governo. Sia il Likud di Netanyahu che il partito di Gantz avevano ottenuto 35 seggi, ma Netanyahu aveva rifiutato di scendere a compromessi, anche con i partiti di centro.

I risultati di queste ultime elezioni, però, hanno più o meno replicato quelli di aprile: un testa a testa tra lo storico partito conservatore di destra, il Likud, che avrebbe ottenuto 31 seggi, e il neo-partito centrista Blu e Bianco di Gantz, ex Capo di Stato Maggiore, che ne avrebbe 33. Tuttavia, sia la coalizione di destra (Likud, partiti religiosi ultra-ortodossi e l’Unione dei Partiti di Destra), che si presenterà alle consultazioni come un unico blocco, sia quella di centro-sinistra (composta da Blu e Bianco, Partito Laburista, Unione Democratica e Lista Araba Unita) non arrivano a ricoprire i 61 seggi necessari per ottenere la maggioranza alla Knesset.

L’ago della bilancia quindi sembra essere il partito dell’ex Ministro della Difesa Lieberman, Israele Casa Nostra, che avrebbe 9 seggi. Lieberman ha già avanzato stringenti richieste per la sua partecipazione ad una delle due coalizioni. Infatti, ha chiesto un governo che ostracizzi sia partiti religiosi ultra-ortodossi, Shas e Giudaismo Unito nella Torah, che quelli arabi, al terzo posto nelle elezioni con 13 seggi. Ma soprattutto, Lieberman chiede un governo senza Netanyahu, il grande sconfitto delle elezioni.

Nei prossimi giorni, il Presidente Rivlin incontrerà gli esponenti dei vari partiti e gli chiederà di indicare la figura del Primo Ministro, che poi avrà 4 settimane a disposizione per formare il governo. La soluzione che garantirebbe maggiore stabilità potrebbe essere quella di un governo laico di ampio respiro, formato dalla coalizione Likud-Blu e Bianco, che godrebbe di una maggioranza parlamentare sufficiente. Tuttavia, alla luce dei veti incrociati già resi pubblici, questo compromesso non sembra facile da raggiungere, perché obbliga entrambi i partiti a rompere l’asse con la propria coalizione di riferimento. In assenza di un accordo in tempi brevi, resta quindi possibile un ritorno alle urne per la terza volta.

TUNISIA: due outsider al ballottaggio per le elezioni presidenziali

Il giurista Saïed e il magnate delle telecomunicazioni Karoui sono i due contendenti alla carica di Presidente della Tunisia, emersi da un pool di 26 pretendenti sfidatisi nel primo turno delle presidenziali lo scorso 15 settembre. Con il loro voto, i cittadini tunisini hanno mandato un chiaro messaggio di discontinuità nei confronti della classe politica del Paese. Lo conferma l’esclusione dal ballottaggio di tutti i candidati direttamente legati ai partiti, di governo e di opposizione. Tra i grandi sconfitti vi sono il Primo Ministro uscente Chahed, il Ministro della Difesa Zbidi, e Mourou, esponente del partito islamista Ennahda.

Saïed ha ottenuto il 19% dei consensi, facendo perno su tematiche conservatrici e sull’immagine di indipendente. Karoui, già tra i fondatori nel 2012 del partito Nidaa Tounes, ha sfruttato il proprio potere mediatico ma ha condotto parte della propria campagna dal carcere, dove è rinchiuso per un’accusa di evasione fiscale.

La preferenza dei tunisini per i due outsider indica una insoddisfazione verso l’azione dei governi precedenti, che non hanno saputo affrontare problemi strutturali come le disugualianze sociali e regionali, e non hanno saputo risollevare la situazione economica.

Il prossimo 6 ottobre si svolgeranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Se i tunisini confermeranno il distacco dai partiti e disperderanno il loro voto, potrebbe essere molto complicato trovare una maggioranza di governo nella prossima assemblea. Al futuro Presidente spetterà quindi un fondamentale compito di mediazione per la formazione e la tenuta di un esecutivo il più possibile stabile ed in grado di affrontare le sfide della giovane democrazia mediterranea.

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