COP 27: un bilancio tra luci e ombre
Geoeconomics

COP 27: un bilancio tra luci e ombre

By Martina Angelini
12.21.2022

Dal 6 al 18 novembre 2022 si è tenuta a Sharm el-Sheikh la ventisettesima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite (COP27), presieduta dall’Egitto, rappresentato dal Ministro degli Affari Esteri Sameh Shoukry. Si tratta della riunione annuale tra i vertici dei Paesi firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) del 1992, meglio conosciuta come Accordi di Rio, il cui scopo è valutare il progresso degli Stati rispetto agli obiettivi riguardo al cambiamento climatico assunti nella citata convenzione nonché l’implementarne di nuove misure. La riunione ha registrato la partecipazione di più di 45.000 persone, inclusi Capi di Stato e di governo e numerosi rappresentanti della società civile. Significativa è stata l’assenza del leader cinese Xi Jinping, del Primo Ministro indiano Narendra Modi e del Presidente russo Vladimir Putin, tre Paesi il cui ruolo è fondamentale per la riduzione delle emissioni di CO2.

Il vertice ha avuto luogo dopo un anno denso di eventi, che hanno ribadito la centralità e l’urgenza dell’agenda climatica, oltre a rendere il quadro internazionale più complesso e volatile. Da una parte, infatti, si è registrato nel 2022 un generale aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi metereologici estremi, con terribili conseguenze in termini economici e umani. Disastri come le devastanti inondazioni del Pakistan, che hanno sommerso un terzo del Paese provocando oltre 1700 morti e circa 10 milioni di sfollati, hanno infatti ribadito la portata dell’emergenza climatica. D’altra parte, a causa dello scoppio della guerra in Ucraina e delle crescenti tensioni su Taiwan, il contesto internazionale appare maggiormente complesso, il che rende più arduo promuovere una cooperazione efficace per l’assunzione di impegni in materia ambientale. Infatti, la questione climatica, essendo un problema globale, necessita di soluzioni concertate a livello globale, e al momento la polarizzazione della Comunità Internazionale rischia di compromettere tale approccio. Inoltre, la guerra in Ucraina, e in particolar modo la connessa crisi energetica, hanno comportato, nel breve periodo, un rallentamento negli impegni di mitigazione di diversi Paesi, con un aumentato del consumo di carbone per far fronte alla crisi. Questo trend è tuttavia in contrasto con le previsioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), che invece evidenzia come per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione si debbano azzerare fin da subito gli investimenti in nuova capacità fossile. Su questo fronte, è invece necessario capovolgere la prospettiva e cogliere come la guerra Ucraina abbia posto l’accento sulla necessità di accelerare la transizione verso fonti rinnovabili come strumento di rafforzamento della sicurezza energetica.

Per quanto riguarda specificatamente l’Egitto, la conferenza va contestualizzata in anni di crescente impegno del Paese rispetto agli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. È emblematico a riguardo il primato dell’Egitto tra i Paesi dell’area MENA nell’emissione di green bonds, iniziata già dal settembre 2020, o l’impegno nella produzione naturale di idrogeno verde, o ancora l’aumento degli investimenti nell’energie rinnovabili negli ultimi decenni, con la realizzazione di impianti come il Parco Solare di Benban o il parco eolico di Ras Ghareb. Rispettivamente il primo ha una capacità superiore a 1.6 GW, con 3.8 TWH annui e il secondo dispone 125 turbine da 2.1 MW. Infatti, come indicato nella “Strategia Integrata per l’Energia Sostenibile al 2035”, Il Cairo punta ad aumentare la produzione e il consumo di energia prodotta da fonti rinnovabili, fino a coprire il 42% del mix energetico nazionale entro il 2035. La centralità delle energie rinnovabili e dell’idrogeno verde nella strategia energetica egiziana mira, da una parte, a far fronte a una domanda energetica domestica che, dati i trend economici e demografici, appare in aumento; dall’altra, a consolidare il proprio ruolo come hub energetico nel Mediterraneo, sfruttando la propria posizione strategica e il controllo diretto al Canale di Suez.

I risultati più significativi conseguiti dalla COP 27 riguardano indubbiamente le aree della finanza e dell’adattamento agli effetti del riscaldamento globale. In particolare, i Paesi si sono accordati, anche grazie alla mediazione dell’UE, sull’istituzione di un fondo “Loss and Damage” per compensare i Paesi in via di sviluppo per i danni derivanti dal cambiamento climatico. Di fatti, questi Paesi, da una parte, contribuiscono in scala ridotta alle emissioni globali, ma dall’altra, sono anche quelli più vulnerabili agli shock climatici. Si stima infatti che i Paesi sviluppati siano responsabili del 79 % delle emissioni storiche, con gli Stati Uniti da soli responsabili del 25%. Rimangono in larga parte da definire i dettagli del fondo, come la lista dei Paesi contribuenti e la ripartizione delle quote, così come la lista dei destinatari delle compensazioni e la loro entità. Tra le questioni più delicate da definire vi è sicuramente il ruolo della Cina. Nello specifico, la Cina, secondo i criteri della Banca Mondiale, rimane un Paese in via di sviluppo, non avrebbe, dunque, l’obbligo di contribuire al fondo. Tuttavia, più Paesi, in primis USA e UE, guardando ai dati sulle emissioni della Cina, ne vorrebbero l’inserimento nel pool di donatori. Infatti, la Cina è lo Stato con i livelli di emissioni più elevati, con 11,47 miliardi di tonnellate di CO2 emesse nel 2021 (contro i 5,01 miliardi degli Stati Uniti), più di un quarto dell’attuale totale annuale. Pechino, d’altro canto, sottolinea che le emissioni pro-capite nel Paese sono ben al di sotto (circa la metà) rispetto ai livelli dei Sati Uniti e dell’Europa. Su questo dossier, i governi hanno concordato la formazione di un “comitato di transizione”, composto da 24 membri, di cui 14 provieniti dalle Nazioni del sud del mondo, adibito per l’appunto a dirimere tali questioni e definire i dettagli del fondo, la cui prima riunione è prevista nel mese di marzo.

Il fondo rappresenta un risultato storico, che si inserisce in un annoso dibattitto sul tema della responsabilità ambientale e sulla giustizia climatica. Da anni i Paesi in via di sviluppo chiedevano l’introduzione di simili misure compensatorie per i disastri ambientali, tanto che nella COP 19 del 2013 era stato istituito il Meccanismo internazionale di Varsavia per perdite e danni (WIM), a seguito del quale, tuttavia, erano mancate azioni più concrete. L’inerzia dei Paesi sulla questione riflette non solo ragioni economiche, bensì anche e soprattutto timori di natura legale: misure di compensazione si prestano infatti facilmente a essere interpretate come un’implicita ammissione di colpa da parte dei Paesi del nord del mondo, aprendo, di conseguenze, le strade a futuri contenziosi legali internazionali. Tale evenienza sembra invece essere stata scongiurata nei nuovi accordi presi nella conferenza, attraverso l’utilizzo di termini generici quali “accordi di finanziamento”, anziché “risarcimenti” o “compensazioni”. Per la stessa ragione, anche il termine “responsabilità” è stato volutamente evitato. Oltre al fondo “Loss and Damage”, sono stati raggiunti risultati positivi anche in materia di cooperazione, con un generale potenziamento del sostegno tecnologico e di capacità ai Paesi in via di sviluppo e con il lancio di un nuovo programma quinquennale per promuovere soluzioni tecnologiche per il clima. Inoltre, è stato accolto con successo l’ampio spazio riservato all’energia rinnovabile all’interno sia delle discussioni sia del testo finale della conferenza, che per la prima volta vengono inserite in una dichiarazione della COP.

Per contro, i risultati nell’area della mitigazione delle emissioni appaiono ben più modesti. I leader globali si sono limitati a ribadire il loro impegno per rispettare il target stabiliti nell’Accordo di Parigi del 2015, ovvero di limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, senza assumere nuovi impegni rispetto alla COP 26 per frenare l’aumento delle temperature. Ad esempio, è mancato l’inserimento dell’obiettivo di picco delle emissioni entro il 2025, considerato dagli esperti il termine massimo per il raggiungimento del target di Parigi. Sebbene ai governi sia stato chiesto rafforzare gli obiettivi del 2030 nei loro nei loro piani climatici nazionali (NDC), è mancato un accordo di phase out o almeno di limitazione dei combustibili fossili. Le difficoltà legate all’attuale contesto geopolitico, insieme alla crisi energetica e al generale rallentamento economico, sono tra i fattori che hanno contribuito a ostacolare l’implementazione di misure più incisive. Diversi Paesi, tra cui Russia e Arabia Saudita, si sono opposti fermamente a tale accordo, e la stessa posizione egiziana sulla questione è stata piuttosto debole, senza poter raggiungere obiettivi vincolanti più ambiziosi.

La COP 27 si conclude, dunque, con un bilancio tra luce e ombre. Se la presidenza egiziana è riuscita a dare delle risposte soddisfacenti sull’agenda dell’adattamento e a realizzare l’istituzione del fondo “Loss and Damage”, questo traguardo rischia di essere poco risolutivo a causa del mancato accordo sui combustibili fossili. Infatti, è opportuno ricordare come mitigazione e adattamento siano da intendere come due facce della stessa medaglia: minori saranno gli impegni sul lato della mitigazione, maggiori saranno gli effetti del cambiamento climatico, e di conseguenza più ingenti dovranno essere i fondi destinati all’adattamento. Le misure prese sono finora ancora insufficienti per il raggiungimento dell’obiettivo di 1,5 gradi: si stima infatti che con gli impegni di decarbonizzazione attuali, nel 2030 le emissioni saranno ridotte appena del 0,3% rispetto al 2019, a fronte della riduzione del 43% ritenuta necessaria dalla COP per raggiungere gli obiettivi fissati. Il mancato raggiungimento di un accordo sulla limitazione dei combustibili fossili rischia di intrappolare Paesi in via di sviluppo, quali Angola, Algeria o Mozambico, in un modello di crescita basato sull’esplorazione e sull’esportazione dei combustibili fossili, soprattutto a seguito dell’aumento della domanda di gas da parte dell’Europa come conseguenza del decoupling energetico dalla Russia. Inoltre, al margine del vertice sono stati conclusi diversi accordi bilaterali tra i Paesi partecipanti. Per quanto riguarda l’UE, sono stati firmati due importanti partenariati con il Kazakhstan con la Namibia su materie prime, batterie e idrogeno rinnovabile, fondamentali per le transizioni verdi e digitali. Inoltre, è stato siglato il memorandum d’intesa bilaterale con l’Egitto per dare vita a un partenariato energetico sull’idrogeno rinnovabile, a cui è seguita, il 16 dicembre, l’istituzione di un partenariato strategico.

Da un punto di vista politico, si registra come il forum abbia rappresentato un’opportunità per Stati africani e insulari per assumere un ruolo di leadership sulla questione climatica, soprattutto in merito all’agenda di adattamento e di Loss&Damage. È da registrare inoltre come le ambizioni di leadership dell’Unione Europea non si siano tradotte in azione concrete, con un giudizio particolarmente critico da parte di Bruxelles circa l’accordo finale per la mancanza di un impegno più esplicito sui combustibili fossili. La Cina, al contempo, ha continuato ad evitare di fare i conti con la propria quota di responsabilità in merito all’agenda di mitigazione. Significativo è invece il rilancio delle leadership indiane e brasiliane, con l’India che ha sostenuto per la prima volta l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, e con il Brasile che, con la recente vittoria del Presidente Lula, ha nuovamente posto l’accento sulla priorità dell’agenda climatica, dopo gli anni della presidenza Bolsonaro in cui la gravità della crisi climatica aveva invece subito un sistematico e costante processo di sminuimento.

La COP 28, prevista dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 a Dubai, rappresenta un momento fondamentale per capitalizzare i risultati ottenuti dalla COP a presidenza egiziana, e al contempo per ottenere un accordo più ambizioso sulla questione dei combustibili fossili. I Paesi del Medio Oriente sono estremamente vulnerabili all’impatto del cambiamento climatico, ma al contempo dipendono fortemente dalle enormi riserve di greggio a fini di esportazione. La presidenza emiratina dovrà quindi misurarsi con la necessità, da una parte, di dare concretezza agli impegni sul Loss&Damage, dall’altra di rafforzare gli impegni dell’agenda di mitigazione nel quadro di un’economia fortemente incentrata sull’export di greggio. La sfida non sarà semplice, ma la complessità del dossier climatico non può essere un alibi davanti alla crescente urgenza di azioni concrete ed efficaci.

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