Al Shabaab, Boko Haram, Aqmi. Radiografia dell'Islam nero che si sta estendendo sull'Africa

Al Shabaab, Boko Haram, Aqmi. Radiografia dell'Islam nero che si sta estendendo sull'Africa

04.01.2015

Al Shabaab, Boko Haram, Aqmi. Le innumerevoli stragi in Nigeria, ora il sanguinoso attacco all’Università di Garissa, in Kenya. Nero Islam. Nero come le bandiere dell’Isis e di al Qaeda che sventolano sulle città conquistate. Nero come il petrolio che arricchisce le casse dello Stato islamico e della nebulosa jihadista. Nero, come il Continente su cui i “combattenti di Allah” stanno estendendo il loro controllo: dalla Libia alla Nigeria, dalla Somalia al Mali, dal Chad al Sudan, dal Kenya alla Repubblica Centroafricana, dal Maghreb al Sahel all’immensa area sub sahariana.

Le forze in campo sono possenti, bene addestrate, meglio ancora armate, ferocemente indottrinate: Boko Haram, al-Shabaab, al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), Ansar Al Sharia, Isis. Attentati e rapimenti di occidentali sono all’ordine del giorno per procurarsi denaro e oliare gli ingranaggi della causa jihadista.

In Somalia, il terrore si chiama al-Shabaab (letteralmente: la Gioventù). È un gruppo insurrezionale islamista che si è sviluppato in seguito alla sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte del Governo Federale di Transizione (GFT) e dei suoi principali sostenitori, i militari dell’Etiopia durante la guerra in Somalia. Il gruppo opera con attentati e rapimenti anche in altri Paesi, come, per l’appunto, il Kenya e l’Uganda. Larga parte dei suoi finanziamenti provengono dai pirati somali.

Il leader degli al-Shabaab è Ahmed Omar Abu Ubeyda, dopo che il suo predecessore - Moktar Ali Zubeyr, anche noto come Ahmed Godane - è stato ucciso nel settembre dello scorso anno in un raid americano. Nel febbraio 2012 Godane aveva rilasciato un video nel quale “prometteva di obbedire” al leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri.

Oltre all’applicazione della sharia, un altro obiettivo chiave della missione degli al-Shabaab è l’espulsione dalla Somalia dei soldati stranieri, in primis quelli etiopi e kenioti.

“Al-Shabaab - rimarca Nicola Pedde, Direttore dell’Institute of Global Studies (IGS) di Roma e della rivista Geopolitics of the Middle East - ha dovuto necessariamente mutare strategia a fronte del consolidamento delle forze governative e del rinnovato attivismo della comunità internazionale. Tale mutamento è dovuto transitare attraverso una pluralità di differenti azioni. La prima, e più urgente, è stata quella di una ricollocazione territoriale che le consentisse di fare soldi e che è stata parzialmente conseguita concentrando le proprie forze nella riconquista di una fascia di terreno costiero, base indispensabile per avviare e gestire traffici di varia natura e dove poter esercitare qualche forma di controllo – sebbene limitata – sulla lucrosa distribuzione degli aiuti umanitari”.

L’obiettivo politico primario dell’al-Shabaab è quello di colpire le autorità centrali di governo e le Forze militari straniere di sostegno e assistenza, cercando di dimostrarne la debolezza e la vulnerabilità agli occhi della popolazione. Le operazioni sul terreno vengono pianificate e parzialmente condotte da Amnyat, la struttura di intelligence e operazioni occulte dei miliziani, delle cui capacità e organizzazione non si conosce granché. Le sono comunque attribuite straordinarie capacità d’infiltrazione nell’apparato governativo e nella sicurezza. La sua forza è stimata in settemila-novemila uomini, con un netto calo rispetto ai 14.426 guerriglieri stimati nel maggio del 2011.

Il calo di miliziani è dovuto sia a scontri interni tra leader somali e la leadership centrale di al-Qaeda, sia all’azione del governo di transizione che dal 2012, grazie al sostegno della comunità internazionale, è riuscito ad agire con forza contro gli estremisti islamici. Al-Shabaab già in passato ha lanciato attacchi a Garissa e in altre parti del Kenya per rappresaglia contro la partecipazione delle truppe keniote al contingente dell’Unione Africana che combatte i miliziani islamici in Somalia. Il principale e più sanguinoso attacco è stato quello nel centro commerciale di Nairobi del settembre del 2013 in cui rimasero uccise 67 persone.

Nonostante le forti perdite, umane, territoriali ed economiche, al-Shabaab è ben lungi dall’essere neutralizzato. I comandanti hanno avuto l’abilità di ripensare la loro strategia, tornando ad essere una forza asimmetrica. I miliziani hanno infatti abbandonato l’utilizzo di brigate numericamente consistenti (circa 200 unità ciascuna) e si sono riorganizzati in piccole squadre (10-15 componenti ciascuna) facenti capo a un comandante con vasta esperienza di guerriglia. Nelle fila di al-Shabaab militano anche miliziani stranieri, provenienti soprattutto da Yemen, Sudan, Costa Swahili, Afghanistan, Arabia Saudita, Pakistan e Bangladesh.

Stando agli analisti, l’obiettivo di arruolare militanti esteri si rintraccerebbe in un bisogno di estendere la propria propaganda integralista su scala internazionale: si spiega così anche il lancio dell’emittente televisiva “Al Kataib” e la realizzazione di un profilo Twitter nel 2011.

“L’avvicinamento di al- Shabaab ad al- Qaeda - sottolinea un documentato report del Centro Studi Internazionali - è stato causato dalla progressiva perdita di sostegno popolare da parte del movimento e dalla scissione del gruppo “pan-somalista” di Hassan Dahir Aweys, personalità più “moderata” e maggiormente sensibile al richiamo dell’affiliazione clanica. Il reclutamento di combattenti non somali o di somali residenti all’estero, dunque estranei alle tradizionali vicende claniche, nonché più vulnerabili alla propaganda e alla narrativa jihadista, è funzionale a sopperire a tale perdita di appeal locale e a superare gli ostacoli imposti dai legami clanici, più influenti in Somalia che all’estero. La progressiva trasformazione di al- Shabaab in un “franchising” di al-Qaeda potrebbe avere un impatto sensibile sugli scenari somalo, africano orientale e globale, in particolare su quei Paesi con una forte presenza di immigrati somali. Dunque, nel prossimo futuro è lecito aspettarsi un aumento delle azioni ostili non solo verso Somalia e Kenya, ma anche contro Uganda, Etiopia e Tanzania, tutti Paesi che collaborano attivamente nella lotta al terrorismo e dove sono forti le partnership e gli interessi occidentali”.

Al Shabaab - spiega Shukri Said , scrittrice e giornalista somala, fondatrice dell’associazione Migrare - articola in varie brigate specializzate. Una si occupa del terrorismo e in molti ritengono che lo sganciamento delle milizie dalle battaglie di Mogadiscio ne svilupperà ancora di più l’attività con un forte incremento degli attentati “mordi e fuggi” per mantenere la promessa dei danni indimenticabili proferita dal portavoce Ali Mohamud Rage. Un’altra si occupa delle infiltrazioni per raccogliere informazioni. Alcuni suoi membri si tagliano i capelli come ragazzi giovani e moderni e vestono Baggy seguendo la moda. Altri allungano le barbe e recano pesanti rosari. Ogni gruppo di camuffati è composto di 40 o 50 membri agli ordini di un solo capo, ma nelle città operano sempre una pluralità di gruppi con lo stesso compito in ossequio al principio che, se uno fallisce, l’altro può raggiungere lo scopo e, comunque, la convergenza di più gruppi permette di incrociare i risultati dello spionaggio provenienti da diverse fonti di informazione.

"Secondo gli analisti occidentali – annota Matteo Guglielmo, analista di Limes e autore del saggio “Il conflitto in Somalia. Al-Shabaab tra radici locali e jihadismo globale” - il movimento avrebbe due anime: quella più legata alla rete di al Qaeda, che ha quindi interessi più internazionali o transnazionali (mujhiruun, gli esiliati), e quella più legata al territorio (al Ansar). Questa divisione, secondo alcuni, sarebbe una sorta di spaccatura insanabile. In realtà, credo che pur esistendo due anime, dobbiamo riferirci a esse non come a due componenti in lotta, ma come a due correnti che convivono all’interno dello stesso movimento con una loro dialettica. Dire che ci sarà una spaccatura all’interno di al -Shabaab, mi sembra esagerato”.

È stato inoltre accertato – osserva Matteo Guglielmo, analista dell’Istituto Affari Internazionali - che le risorse militari del movimento, più che dalla rete qaedista (che al pari degli americani continua a considerare il teatro somalo come strategicamente secondario), sono state fornite dall’Eritrea, un paese fortemente secolarizzato che ha appoggiato le Corti islamiche e alcuni membri di al-Shabaab in funzione meramente anti-etiopica. Il grosso degli aiuti economici al movimento non sembra infatti derivare da un attore statale in particolare, né tantomeno da importanti finanziatori del jihad globale, ma più che altro dalla diaspora somala, e spesso proprio dalle comunità residenti nei Paesi occidentali.

Un report pubblicato da Human Rights Watch ha descritto come rigidissima l’amministrazione della società da parte di al-Shabaab nei territori occupati. Il gruppo islamico proibisce ogni sorta di assembramento di persone (perfino in occasione dei matrimoni), l’utilizzo delle suonerie dei cellulari, la musica e i film occidentali, e l’uso del reggiseno, ritenuto una sconsiderata pratica occidentale. Le punizioni sono molto dure, e vanno dalla confisca dei beni alle amputazioni, passando per il taglio dei capelli e le frustate. Le donne sono obbligate a indossare l’abaya, un velo che copre l’intero corpo, e non possono viaggiare senza un accompagnatore di sesso maschile. Non possono prendere parte a nessuna attività legata al commercio.

Quanto ai nigeriani di Boko Haram, la loro espansione minaccia anche il Chad, il Niger e, soprattutto, il vicino governo del Camerun, dove la setta è presente nel Nord e dove da tempo sono in corso scontri con l’esercito. Oggi i miliziani di Boko Haram governano su un’enclave di circa 30 mila chilometri quadrati, equivalente più o meno al Belgio, che comprende territori degli Stati settentrionali di Adamawa, Yobe e Borno.

D’altro canto, l’appoggio del numero uno di al-Qaeda, Ayman al Zawahiri, non ha cambiato la strategia terroristica della setta nigeriana. Con oltre 10mila miliziani che nel tempo sono diventati più potenti e organizzati dell’esercito federale, che con poche munizioni, negli scontri diretti, è spesso costretto alla ritirata, l’obiettivo è e resta quello di una guerra intestina per trasformare il Nord in un Califfato trapiantato nel cuore dell’Africa.

Il rischio che il Califfato si consolidi nell’Africa settentrionale, è un’ipotesi inquietante quanto realistica, cosa che del resto è avvenuta già nel Kurdistan iracheno. Dietro a Boko Haram c’è anche la voglia di mettere le mani sul petrolio. Perché la Nigeria è il primo produttore di greggio al mondo, che fornisce il 20% del Pil, il 95% delle esportazioni e il 65% delle entrate governative. Una ricchezza naturale immensa che ha trasformato il paese nella prima economia africana. Oggi il Califfato di Abubakar Shekau, il leader di Boko Haram, si estende dai monti Mandara, al confine col Camerun, fino al Lago Ciad, a Nord, e al fiume Yedseram, a Ovest., un’area dove vivono oltre 2milioni di persone.

Fonte: L’Huffington Post