Le monarchie arabe del Golfo di fronte all’attacco israeliano in Qatar
Medio Oriente e Nord Africa

Le monarchie arabe del Golfo di fronte all’attacco israeliano in Qatar

Di Alessio Stilo
17.09.2025

L’attacco israeliano a Doha del 9 settembre 2025, indirizzato verso una residenza nella capitale del Qatar per colpire alcuni leader di Hamas, ha segnato una svolta per l’intera regione del Golfo. Per la prima volta uno Stato membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) è stato oggetto diretto di un’operazione militare israeliana, a pochi chilometri dalla più grande base statunitense in Medio Oriente (Al-Udeid). L’episodio ha suscitato una condanna unanime da parte dei Paesi del GCC, evidenziando al contempo i limiti strutturali della loro capacità di risposta individuale e collettiva, oltre a far emergere le tensioni latenti sul piano regionale e internazionale.

Il vertice straordinario convocato a Doha il 15 settembre, con la partecipazione di una cinquantina di leader arabi e musulmani, ha ribadito la condanna dell’attacco israeliano, definito dal principe ereditario qatarino Tamim bin Hamad Al Thani come “un’aggressione codarda e palese” e una prova della volontà di Israele di sabotare ogni negoziato in merito al conflitto a Gaza. L’incontro si è concluso con un comunicato congiunto che riafferma la solidarietà a Doha e l’impegno generico a rafforzare la cooperazione tra Stati arabi e islamici. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni politiche, non sono state annunciate contromisure concrete di natura diplomatica, economica o militare, al netto della dichiarazione del GCC riguardo all’intendimento di attivare il meccanismo di difesa collettiva previsto dal patto di sicurezza, secondo il quale un attacco a uno Stato membro equivale a un attacco a tutti. Si tratta di un passo simbolicamente rilevante, ma privo di contenuti operativi espliciti: le consultazioni tra i vertici militari del GCC stabiliranno l’eventuale possibilità e le modalità per irrobustire la deterrenza regionale. La memoria del limitato impiego della clausola difensiva durante le rivolte del 2011 in Bahrein rende plausibile ipotizzare che, anche in questo caso, l’attivazione del meccanismo di difesa collettiva funga più da messaggio politico che da impegno operativo.

Dietro la facciata della solidarietà emergono differenze significative tra i membri del GCC. Per Arabia Saudita e Qatar, l’attacco rappresenta una minaccia diretta alla sovranità e un precedente destabilizzante, tale da mettere in discussione la possibilità di dialogo con Israele e a rischio l’espansione degli Accordi di Abramo. Riad ha ribadito che non intende procedere sulla strada della normalizzazione con Tel Aviv, già bloccata dopo l’avvio della guerra di Gaza e dei raid israeliani in Libano e Siria, sino al formale riconoscimento di uno Stato palestinese.

Diversa la posizione di Emirati Arabi Uniti e Bahrein, firmatari degli Accordi di Abramo nel 2020 e tradizionalmente più inclini a mantenere rapporti pragmatici con Israele. Nonostante la condanna ufficiale, entrambi si trovano sotto pressione riguardo al possibile ripensamento del grado di cooperazione con Tel Aviv. La stampa iraniana ha sottolineato come l’attacco a Doha possa spingere Manama e Abu Dhabi a ridimensionare i legami con Israele, pena un costo politico troppo alto sul piano interno e regionale. Kuwait e Oman hanno mantenuto una linea di condanna netta, seppur coerente con la loro tradizionale cautela diplomatica.

L’episodio ha incrinato un presupposto cardine delle dottrine di sicurezza del Golfo: la convinzione che la presenza militare statunitense costituisca una garanzia ultima di protezione. L’attacco israeliano è avvenuto ad alcune decine di chilometri da una delle principali basi americane nella regione, senza che Washington lo impedisse. La diatriba sull’eventualità che la Casa Bianca sia stata avvisata poco prima dell’attacco o comunque sulla circostanza che non abbia impedito l’operazione, interpretata da osservatori locali come complicità verso l’azione israeliana, potrebbe alimentare un senso di tradimento in seno alle élite del Golfo, già sotto pressione delle opinioni pubbliche domestiche solidali verso la causa palestinese.

La postura statunitense, tanto a livello di comunicazione pubblica quanto di prassi operativa, suggerisce che l’amministrazione Trump non intenda ostacolare la proiezione militare israeliana, anche se diretta contro un alleato chiave come il Qatar. Il rischio è che ne derivi un sostanziale ripensamento nel GCC: l’ombrello di sicurezza statunitense, già indebolito dagli eventi del 2019 in Arabia Saudita (attacchi degli Houthi a impianti energetici) e dall’attacco iraniano a Doha del giugno 2025, potrebbe risentirne in termini di credibilità.

Per le monarchie arabe del Golfo, Israele non è più soltanto un partner tacitamente accettato in funzione anti-iraniana, ma un attore capace di colpire con relativa impunità anche Stati tradizionalmente non ostili. Questa evoluzione mina le strategie di avvicinamento adottate negli ultimi anni da alcuni membri del GCC e potrebbe spingere a riconsiderare il bilanciamento delle minacce. In questo senso, se in precedenza l’Iran era percepito come la principale fonte di instabilità regionale, dopo l’attacco a Doha Israele potrebbe essere inquadrato dagli attori arabi (non solo quelli del Golfo) come un pericolo altrettanto marcato poiché percepito come libero di agire con il sostegno, o la tolleranza, della Casa Bianca.

Per decenni, il Qatar ha perseguito una dottrina di neutralità proattiva, ospitando basi americane e mantenendo al contempo il dialogo con l’Iran, mediando tra Israele e Hamas e impegnandosi al contempo come mediatore per conto di Washington (ad esempio coi talebani afgani). Questa strategia è stata messa alla prova: la neutralità da sola non garantisce protezione, senza contare che Doha potrebbe essere indotta a ripensare il suo ruolo di mediazione politica per conto statunitense. L’operazione israeliana a Doha ha palesato per le monarchie del GCC la necessità di sviluppare capacità autonome di deterrenza, al punto che le dichiarazioni emerse dal vertice indicano una volontà crescente di rafforzare le strutture comuni di difesa e di esplorare partnership alternative.

Il summit di Doha ha visto anche la partecipazione di leader arabi e musulmani non appartenenti al GCC, come Turchia, Egitto, Iran, Pakistan e Malesia, che hanno chiesto misure più incisive: dalle sanzioni alla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele, fino alla creazione di una task force araba e islamica. L’Iran ha colto l’occasione per presentare l’episodio come prova della necessità di un fronte islamico unitario, mentre la Turchia ha insistito sull’uso di leve economiche per colpire Israele. Le monarchie del Golfo, tuttavia, hanno mostrato un approccio cauto: timorose di una escalation incontrollabile, preferiscono limitarsi a un rafforzamento simbolico delle proprie capacità difensive e a un incremento del peso diplomatico internazionale.

L’attacco israeliano in Qatar potrebbe rappresentare un punto di svolta per la sicurezza del Golfo, nella misura in cui potrebbe essere suscettibile di incrinare la fiducia nell’ombrello di sicurezza statunitense, ridimensionare le prospettive di normalizzazione con Israele e rilanciare il tema dell’autonomia strategica del GCC. Ciò nonostante, il responso rimane segnato da ambiguità: solidarietà verbale e annuncio di meccanismi difensivi comuni, ma nessuna azione concreta immediata. In questa cornice, il Golfo rischia di spaccarsi tra le diverse sensibilità delle sue componenti, che potrebbero accodarsi alla retorica filo-iraniana, a quella filo-turca o al mantenimento di relazioni formali con Israele, laddove lo stesso Golfo non riuscisse a emergere come nuovo polo di stabilità regionale che vada oltre il ruolo di hub energetico e potenzialmente tecnologico.

Photo credits: Jasem Mohame al-Budaiwi, right, the secretary general of the Gulf Cooperation Council, led the summit in Doha. Photograph: Eissa Al Hammadi/UAE Presidential Court/Reuters

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