IL PIANO DI TRUMP PER LA PACE IN UCRAINA: UN’ANALISI PRELIMINARE
Ricalcando lo schema già utilizzato per il processo di pace di Medio Oriente, l’Amministrazione Trump, lo scorso 21 novembre, ha fatto trapelare la sua proposta per la risoluzione della guerra tra Russia ed Ucraina. Il piano, organizzato in 28 punti, cerca di toccare tutti i temi politici, securitari ed economici sollevati dal conflitto iniziato nel 2014, all’indomani della Rivoluzione della Dignità, dell’esautorazione del Presidente ucraino Yanukovich e della prima fase dell’invasione russa. Inoltre, la proposta statunitense valica i confini specifici della guerra e, sotto alcuni aspetti, getta le basi per una nuova stagione di relazioni con Mosca e per la ridefinizione degli equilibri politico-militari continentali. Tuttavia, vista l’eco e le implicazioni globali del conflitto russo-ucraino, la proposta di pace va ad influenzare anche altri teatri regionali, in maniera più o meno diretta a seconda dei casi, come l’Indo-Pacifico, il Caucaso e lo stesso Medio Oriente.
Partendo dal presupposto che il piano di Trump per l’Ucraina dovrà essere vagliato da Kiev, Mosca e dai Paesi europei e, di conseguenza, è passibile di emendamenti, modifiche e negoziazioni che potrebbero condizionarne l’accettazione e, dunque, l’applicazione o il naufragio, la sua analisi permette di comprendere sia le posizioni delle parti coinvolte sia i possibili impatti.
Innanzitutto, sotto il profilo temporale, la proposta statunitense giunge in uno dei peggiori momenti possibili per l’Ucraina, in difficoltà reale sul campo di battaglia, soprattutto nel saliente di Pokrovsk, e alle prese con l’onda lunga degli scandali sulla corruzione nel settore energetico. Oltre a questo, l’Amministrazione Zelensky ha dovuto confrontarsi con l’assertività di Washington che ha innalzato sensibilmente la pressione affinché Kiev accetti l’accordo, arrivando a minacciare latentemente, secondo alcune indiscrezioni, di diminuire ulteriormente il supporto militare e di intelligence in caso di rifiuto.
Andando nel dettaglio, per quanto riguarda le clausole favorevoli al Cremlino, il piano: 1) riconosce alla Russia la sovranità de facto sulla Crimea, sulla totalità degli oblast di Donetsk e Lugansk e sulle porzioni degli oblast di Kherson e Zaporizia sotto occupazione, congelando la linea del fronte; 2) blocca qualsiasi meccanismo di integrazione dell’Ucraina nella NATO, da stabilirsi attraverso mandato costituzionale; 3) vieta lo stazionamento di truppe della NATO sul territorio ucraino; 4) impone all’Ucraina pratiche non discriminatorie verso le minoranze e verso la lingua, i media, la cultura e la chiesa ortodossa russa; 5) riduce le Forze Armate ucraine ad un totale di 600.000 unità; 6) impedisce l’allargamento della NATO a nuovi membri (chiaro il riferimento a Moldova e Georgia); 7) introduce un meccanismo graduale di alleggerimento delle sanzioni internazionali e sancisce il reintegro della Russia nel G8; 8) stabilisce la proibizione delle ideologie naziste (con possibile riferimento ad aree grigie del nazionalismo ucraino); 9) l’Ucraina continuerà ad aderire al Trattato di Non Proliferazione Nucleare.
Parallelamente, per quanto riguarda le clausole favorevoli all’Ucraina, il piano: 1) offre a Kiev garanzie di sicurezza statunitensi, al momento in fase di discussione sul modello dell’art.5 del Trattato dell’Alleanza Atlantica, da ritenersi invalide in caso di invasione ucraina della Russia o di lancio di missili su Mosca e San Pietroburgo; 2) accelera il processo di integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea e, nel mentre, stabilisce misure di accesso privilegiato al mercato unico europeo.
Inoltre, il piano di Trump dedica un’attenzione specifica al dossier della ricostruzione. Nella fattispecie, dei circa 350 miliardi di assets russi attualmente congelati nei Paesi occidentali e in quelli alleati (come il Giappone), circa 100 saranno utilizzati per la ricostruzione ucraina attraverso strumenti di governance a guida statunitense, con un focus speciale dedicato ad infrastrutture, energia, materie prime critiche ed industria ad alta tecnologia. Il 50% dei profitti derivanti dalla ricostruzione andranno invece nelle casse di Washington. Allo stesso modo, altri 100 miliardi saranno impegnati dai Paesi europei. Per quanto attiene alla centrale nucleare di Zaporizia, essa sarà posta sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e la sua produzione elettrica sarà ripartita ugualmente tra Russia e Ucraina. Infine, la Russia non ostacolerà le attività di navigazione ucraina lungo il fiume Dnipro e sia Mosca che Kiev garantiranno i corridoi per l’esportazione del grano e dei cereali.
In questo contesto, nel piano di Trump appaiono abbastanza evidenti tre elementi, vale a dire le ampie concessioni fatte alla Russia, lo sbilanciamento tra sacrifici e garanzie date all’Ucraina e, infine, la drammatica posizione subalterna dell’Unione Europea. Nello specifico, la proposta statunitense accoglie tutte le principali rivendicazioni di Mosca a livello territoriale, securitario-militare, economico e politico e spalanca le porte alla ripresa della normalizzazione delle relazioni russo-americane. Questo conferma la volontà trumpiana di cercare di chiudere il dossier ucraino nella maniera più veloce possibile, massimizzando il ritorno economico e provando, contestualmente, ad inaugurare un asse con la Russia in funzione anticinese nell’ottica della partita strategica di Washington nell’Indo-Pacifico. Questo offrirebbe a Mosca la possibilità di ritagliarsi un ruolo di “equilibratore” nella partita sino-americana, diminuendo gli attuali livelli di dipendenza strategica da Pechino.
Simili concessioni non solo rappresentano un “premio” per un Paese aggressore ma, contestualmente contribuiscono a sdoganare la profittabilità di una postura internazionale basata sull’abuso della forza e sulla totale delegittimazione del diritto internazionale e dei canali pacifici di risoluzione delle controversie. In assenza di garanzie concrete e massicce per la difesa ucraina, una simile postura non solo legittima e favorisce possibili aggressioni future da parte della Russia, tanto a Kiev quanto ad altri Paesi europei, ma può spingere altri Stati in altri quadranti del globo ad imitare il Cremlino. Appare ovvio come il riferimento sia tanto alla Cina sulla questione di Taiwan e dell’intero Mar Cinese Meridionale quanto a tutte quelle potenze ormai emerse che potrebbero essere tentate nell’aumentare il livello di utilizzo dello strumento militare per il perseguimento dei propri interessi.
Qualora i russi accettassero il piano di Trump, potrebbero aver ottenuto molto di più di quello che il campo di battaglia ha consegnato loro, aprendo una nuova stagione di crescita di influenza sia regionale che globale a detrimento dell’Occidente. In sintesi, la vittoria politica, propagandistica e d’immagine sarebbe decisamente superiore alla scarna vittoria militare. Al Cremlino, in caso di firma, i leader politici russi si sentirebbero in dovere di continuare la strategia di destabilizzazione dell’Europa iniziata prima del 2014, pur dovendo guardare con attenzione al proprio fronte interno per la gestione dei dossier economici (ritorno parziale ad una economia di pace) e sociali (reintegro dei combattenti). In ogni caso, il potere di Putin e della classe dirigente affine ai suoi orientamenti potrebbe uscirne rafforzato.
Viceversa, per l’Ucraina il piano di Trump é qualcosa che si avvicina molto ad una resa senza condizioni. Infatti, al di là della tipologia di garanzie che offriranno gli Stati Uniti, Kiev si troverebbe senza il 20% del suo territorio, senza l’ingresso nella NATO, con un processo di integrazione nell’UE tutto da verificare, con il dossier della ricostruzione nelle mani di Washington e con la difficile gestione delle criticità sociali e politiche del dopoguerra. Infatti, la carriera politica di Zelensky andrebbe incontro ad un possibile declino, vista l’iniquità del piano di Trump, il che aprirebbe una stagione di feroce competizione interna e di instabilità politica. L’Ucraina potrebbe affrontare i rischi del revanchismo e dei rigurgiti ultranazionalisti, il reintegro dei combattenti e dei rifugiati nel tessuto economico e sociale nazionale, gli effetti psicologici di massa scaturiti dalla sconfitta.
Infine, qualora gli statunitensi dovessero davvero obbligare gli ucraini a firmare l’accordo, i grandi sconfitti sarebbero anche gli europei. Sin dal 2022, con l’inizio della seconda fase dell’invasione russa, tanto a Bruxelles quanto nelle altre Cancellerie del continente il ruolo ed il peso specifico nei confronti dell’ecosistema del conflitto sono andati erodendosi. Le tante risorse finanziarie allocate per supportare la resistenza di Kiev non si sono tradotte nell’accettazione dei Paesi europei e dell’Unione quale interlocutore paritario di Mosca e Washington. In tal senso, il piano americano, formulato senza consultazioni con gli europei e contenente, viceversa, clausole di impegno continentale, mostra la scarsissima considerazione che alla Casa Bianca nutrono nei confronti della sponda orientale dell’Atlantico. Il dato più allarmante che, al netto delle spigolosità delle modalità di azione di Trump, tale percezione è un tratto caratterizzante della postura strategica statunitense e potrebbe rimanere tale anche in futuro. Gli americani ci considerano partner di secondo livello o, al peggio, subalterni. In questo senso, gli sforzi di trovare una via preferenziale bilaterale tra singoli Paesi europei e Casa Bianca potrebbero non essere sufficienti a sanare questa situazione, soprattutto se attuati al di fuori o in contraddizione con lo sforzo continentale comune. Qualora gli ucraini fossero costretti ad accettare il piano e l’Europa non vi si opponesse, con una contro proposta o con una strategia alternativa che consideri anche la possibilità di sostenere Kiev senza gli Stati Uniti, il futuro politico dell’Unione potrebbe essere caratterizzato da una fase di instabilità e crisi interna e da un ulteriore ridimensionamento del peso e del ruolo internazionali. In poche parole, una realtà che non riesce autonomamente a tutelare i propri interessi, anche considerando le necessità ed i rischi che prevedono l’utilizzo della forza, si trova ad affrontare lo spettro dell’irrilevanza e del declino. L’aspetto più allarmante è che, in questo momento, sia i singoli Paesi europei che l’Unione nel suo insieme dimostrano di avere pochi e spuntati strumenti per opporsi all’unilateralismo del duopolio russo-americano. Se l’accordo dovesse essere ratificato, l’Europa si troverebbe costretta ad una profonda riflessione critica sulla necessità di riformarsi profondamente oppure restare impantanata nei limiti emersi drammaticamente negli anni del conflitto russo-ucraino.
In ogni caso, il negoziato è appena all’inizio ed è impossibile stabilire con certezza i tempi e l’esito delle trattative punto per punto. L’unico dato certo è che siamo di fronte al primo momento di svolta dopo il settembre 2022 ed i negoziati di Istanbul. La posta in gioco non sono solo i territori ucraini, ma il futuro della nazione Ucraina, degli equilibri di potenza globali e del progetto politico europeo.