Bataclan, 10 anni dopo: l’evoluzione della minaccia jihadista e della risposta europea
Terrorismo e Radicalizzazione

Bataclan, 10 anni dopo: l’evoluzione della minaccia jihadista e della risposta europea

Di Martina Battaiotto
13.11.2025

Il 13 novembre 2015, un gruppo di miliziani dello Stato Islamico (Islamic State–IS) mise in atto una serie di attacchi coordinati in alcuni dei principali luoghi della vita notturna parigina, provocando la morte di 130 persone e il ferimento di altre 416, in quello che è considerato uno dei più gravi attentati terroristici di matrice jihadista in tutta la storia dell’Occidente. Tra i target colpiti dai terroristi figuravano i cittadini assembrati all’ingresso dello Stade de France, in diversi caffè e ristoranti, nonché il pubblico del teatro Bataclan, divenuto simbolo dell’accaduto poiché vi persero la vita la maggior parte delle vittime, nello specifico 90.

Tale tragedia, oltre ad aver profondamente segnato la società e la politica sia interna che estera dei Paesi europei, ha rappresentato un punto di svolta nella strategia di contrasto al terrorismo jihadista dell’Unione Europea (European Union-EU). In seguito a tale evento, infatti, i Paesi membri hanno ulteriormente intensificato gli sforzi utili alla costruzione di una strategia comunitaria utile alla prevenzione e al contrasto sia dell’attività terroristica matura sia del processo di radicalizzazione che conduce ad essa. Questo procedimento risulta particolarmente complesso perché si interseca con l’estrema fluidità che caratterizza il fenomeno terroristico e con le sue naturali tendenze adattive alle politiche di contrasto e prevenzione. Oggi, 10 anni dopo gli attacchi del Bataclan, il terrorismo jihadista ha modificato alcune delle sue tattiche operative e di reclutamento per meglio sfruttare le faglie di rottura di una società europea diversa e più polarizzata rispetto ad allora.

Tra il 2015 e il 2017, lo Stato Islamico ha attraversato la fase di massima espansione operativa e territoriale, controllando un’area stimata in circa 250.000 km² tra Iraq e Siria. Questo periodo ha coinciso con l’apice dell’attività del gruppo anche in Europa e delle partenze di cittadini comunitari decisi a perseguire la causa del sedicente Califfato, i cosiddetti Foreign Terrorists Fighters. Secondo le stime, in quel periodo, oltre 5.000 individui hanno lasciato il continente, principalmente partendo da Francia, Regno Unito, Belgio e Germania.

Successivamente, tra il 2018 e il 2019, gli effetti delle operazioni militari portate a termine dalla Global Coalition Against Daesh, formata nel 2014 e composta da 87 Paesi sotto guida statunitense, hanno generato una profonda inversione di tendenza. Le pesanti perdite territoriali e l’uccisione dei miliziani più capaci ed influenti subite dallo Stato Islamico ne hanno compromesso la capacità di governo, operativa e di finanziamento, ridimensionandone anche la forza propagandistica. Parallelamente, queste difficoltà hanno favorito il cosiddetto pivot to Africa: la riorientazione strategica verso contesti regionali più fragili, dove lo Stato Islamico ha trovato terreno fertile per la costituzione di nuove cellule e affiliate locali.

La traiettoria discendente delle attività jihadiste è risultata evidente anche nel triennio 2020–2022, periodo caratterizzato da una netta contrazione sia degli attacchi sia della diffusione dei processi di radicalizzazione. Tuttavia, a partire dal 2023, si è osservato un nuovo incremento delle attività, confermato anche dai dati del 2024. Tale riacutizzazione appare connessa al riaccendersi del conflitto tra Israele e Hamas: lo Stato Islamico, nel tentativo di rivitalizzare i propri canali di reclutamento, ha strumentalizzato il sentimento antioccidentale e antisraeliano, enfatizzando la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. Questa strategia comunicativa si è rivelata parzialmente efficace, come dimostrato dall’attentato avvenuto in Belgio il 16 ottobre 2023, quando un uomo armato ha aperto il fuoco contro dei tifosi di calcio svedesi all’incrocio tra Piazza Sainctelette, a Bruxelles.

Tale mutamento appare ancora più concreto guardando i dati degli arresti e degli attentati effettuati nel territorio degli Stati UE nell’ultimo decennio.

Nel momento di massima attività dello Stato islamico, le autorità degli Stati membri dell’UE hanno registrato un numero particolarmente elevato di arresti, frutto dell’elevata capacità attrattiva del gruppo e dal consolidarsi della sua rete propagandistica. Nello specifico, gli arresti per attività terroristica di matrice jihadista sono stati 687 nel 2015, 718 nel 2016 e 705 nel 2017, di cui la maggior parte in Francia, per un totale di 2110. Tra il 2018 e il 2019, in parallelo con le sconfitte territoriali e il ridimensionamento della struttura centrale del gruppo, si è osservata una flessione significativa: 511 arresti nel 2018 e 436 nel 2019. Tale decremento si riconferma nel triennio successivo, quando l’attività di contrasto e prevenzione europea ha registrato i valori più bassi del decennio, con 254 arresti nel 2020, 260 nel 2021 e 266 nel 2022.

A partire dal 2023, tuttavia, i dati confermano l’incremento di attività successivo agli attentati del 7 ottobre in Israele, esplicitato dai 334 arresti. Il 2024 conferma questa tendenza, con 289 arresti.

La dinamica evidenziata dai dati sugli arresti trova ulteriore conferma nell’andamento degli attentati di matrice jihadista verificatisi sul territorio dell’Unione Europea. Il triennio 2015–2017, coincidente con la fase di massima espansione dello Stato Islamico, rappresenta il periodo di più intensa attività terroristica. Secondo i dati dell’European Union Terrorism Situation and Trend Report, nel 2015 gli attentati sono stati 17, nel 2016 sono stati 13 (di cui 10 riusciti) mentre nel 2017, anno di picco assoluto, ben 33 (di cui 10 riusciti). A partire dal 2018, il numero di attentati e la loro efficacia operativa iniziano a ridursi. In quell’anno, infatti, sono stati documentati 24 attacchi, 7 dei quali portati a termine, seguiti nel 2019 da 21 attentati (3 riusciti). Il triennio 2020–2022 rappresenta la fase di minore intensità, ma non di totale esaurimento della minaccia jihadista. Nel 2020, nonostante un contesto generale di declino operativo, si registrano 14 attacchi (10 riusciti), mentre nel 2021 gli attentati scendono a 11(3 riusciti) e nel 2022 si sono svolti 6 attacchi (2 riusciti). Infine, dal 2023 si è osservata una parziale ripresa della minaccia, con 24 attentati (5 riusciti), mentre nel 2024 si è assistito a 24 attacchi (6 riusciti).

Dai dati relativi agli attentati emerge non solo un mutamento in termini di frequenza e intensità, ma anche nella loro modalità di esecuzione. Se nella fase iniziale la minaccia era incarnata principalmente da cellule organizzate con collegamenti diretti alla leadership centrale dello Stato Islamico, come quella responsabile degli attacchi del 13 novembre 2015 a Parigi o di Bruxelles il 16 marzo del 2016, negli anni successivi l’attenzione si è spostata verso figure di “lone actors” o “lone wolves” (i cosiddetti lupi solitari), vale a dire individui che si radicalizzano ed agiscono autonomamente, spesso attraverso i canali digitali, senza contatti diretti con l’organizzazione. Le azioni violente di tali soggetti vengono frequentemente rivendicate strumentalmente dallo Stato Islamico, che utilizza le loro azioni per alimentare la propria narrativa di persistenza e capillarità. In questo senso, Internet e i social media hanno svolto un ruolo cruciale, fungendo da moltiplicatori della propaganda jihadista e da spazi di auto-radicalizzazione. Attraverso strumenti comunicativi come la rivista Dabiq o la diffusione di video di matrice estremista, lo Stato Islamico ha continuato a mantenere viva la propria ideologia ed il proprio appeal anche dopo la perdita di controllo territoriale in Medio Oriente.

Il cosiddetto “lone wolf terrorism” è stata la risposta operativa più naturale all’incremento dell’attività di monitoraggio, prevenzione e contrasto al jihadismo internazionale. Infatti, le azioni dei lupi solitari si distinguono per la semplicità dei mezzi impiegati e per la loro imprevedibilità operativa. In luogo di fucili d’assalto o esplosivi, questi individui ricorrono frequentemente a strumenti di uso comune, come veicoli, coltelli o altre armi da taglio e, seppur più raramente, a armi di piccolo calibro. Tra gli esempi più emblematici si annoverano l’attacco del 14 luglio 2016 a Nizza, quando un camion noleggiato fu utilizzato per travolgere la folla durante le celebrazioni della festa nazionale, causando oltre 80 vittime; l’attacco del 19 dicembre 2016 al mercatino di Natale di Berlino, compiuto da Anis Amri, che, seppur radicalizzato probabilmente in carcere, agì in completa autonomia dopo aver giurato fedeltà al Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, travolgendo con un camion la folla e causando 12 vittime.

Bisogna menzionare inoltre l’omicidio del professore Samuel Paty, avvenuto il 16 ottobre 2020 in Francia, prima accoltellato e poi decapitato da un giovane radicalizzato online, e l’attentato del 18 ottobre 2023 a Bruxelles, perpetrato da un singolo individuo armato, anch’egli radicalizzato autonomamente. Questa tipologia di terrorismo individuale e decentralizzato si rivela particolarmente insidiosa per le autorità di sicurezza, poiché l’assenza di reti di supporto logistico, di transazioni o di comunicazioni intercettabili riduce drasticamente la possibilità di prevenzione. Ne deriva quindi una minaccia caratterizzata da elevata spontaneità e difficile prevedibilità, che sfida i tradizionali strumenti di intelligence e controterrorismo. Di contro, attacchi complessi come quelli del Bataclan e di Bruxelles sopracitati si distinguono per un grado di sofisticazione operativa significativamente superiore, essendo condotti da affiliati che hanno ricevuto addestramento, direttive precise e supporto logistico da parte della struttura centrale dello Stato Islamico. In ogni caso, sebbene la modalità di attacco basata sull’impiego di cellule e gruppi di fuoco strutturati risulti oggi meno frequente, essa continua a rappresentare una minaccia concreta, soprattutto se connessa alla figura dei returnees.

Questi ultimi costituiscono una delle principali sfide affrontate dalle istituzioni europee nell’ultimo decennio: si tratta di individui che, dopo aver raggiunto i territori controllati dallo Stato Islamico e avervi preso parte alle attività militari o di supporto, tentano di fare ritorno nei Paesi d’origine. Considerando le stime relative foreign terrorist fighters che hanno lasciato l’Europa tra il 2015 ed il 2017, si comprende facilmente come tale fenomeno abbia assunto una dimensione tutt’altro che marginale. La principale preoccupazione legata al ritorno di questi individui risiede nel cosiddetto “effetto blowback”, ovvero la possibilità che gli ex combattenti possano riutilizzare l’esperienza, le competenze operative e i contatti maturati durante la militanza per condurre attentati in Europa, sostenere reti di reclutamento e propaganda o, più in generale, alimentare una nuova ondata di terrorismo jihadista autoctono.

Gli Stati membri dell’Unione Europea non hanno adottato una risposta unitaria e condivisa alla gestione del fenomeno dei returnees, delegando la questione quasi esclusivamente alla competenza delle normative nazionali. Fatta eccezione per alcune indicazioni di carattere non vincolante, come quelle elaborate dal Radicalisation Awareness Network, la risposta europea ha mostrato una forte eterogeneità nei modelli di intervento. Un esempio emblematico riguarda la questione dei rimpatri: alcuni Paesi hanno favorito il rientro controllato dei propri cittadini, ritenendolo funzionale a un maggior monitoraggio e controllo giudiziario; altri, al contrario, hanno preferito non autorizzare il rimpatrio, lasciando che i cittadini europei restassero detenuti e processati nei territori di Iraq e Siria.

Al di là della gestione dei returnees, nel corso dell’ultimo decennio l’Unione Europea ha progressivamente rafforzato il proprio quadro giuridico in materia di contrasto al terrorismo. Successivamente all’attacco del 13 novembre 2015, le istituzioni europee hanno avviato un processo di rafforzamento della cooperazione informativa e operativa tra gli Stati membri, con l’obiettivo di superare quello che l’allora direttore di Europol, Rob Wainwright, definì un vero e proprio “buco nero dell’intelligence”, ossia la mancanza di un coordinamento efficace nello scambio di informazioni tra le agenzie di sicurezza nazionali. In questa direzione si colloca l’istituzione, nel gennaio 2016, del Centro europeo antiterrorismo (European Counter Terrorism Centre – ECTC) presso Europol, concepito per migliorare la condivisione di dati e analisi sui fenomeni di radicalizzazione e terrorismo. A tale iniziativa si è affiancata, nel 2019, la creazione dell’Intelligence College in Europe (ICE), con lo scopo di promuovere una cultura comune dell’intelligence e favorire il dialogo strategico tra i servizi europei. Tuttavia, nonostante questi progressi, la cooperazione in materia di intelligence resta limitata da logiche di sovranità nazionale e dalla persistente assenza di un’identità di sicurezza condivisa tra i Paesi membri.

Un ulteriore passo per una struttura normativa comune di contrasto è sicuramente rappresentato dalla Direttiva (UE) 2017/541 ha costituito un intervento normativo significativo nel panorama post-2015: armonizzando il catalogo dei reati in materia di terrorismo, la direttiva ha esteso la punibilità ad atti preparatori, tra cui i viaggi a fini terroristici e l’auto-addestramento. Un ulteriore normativa utile al contrasto del terrorismo jihadista è il Regolamento (UE) 2021/784, che impone ai fornitori di servizi online l’obbligo di rimozione tempestiva dei contenuti a carattere terroristico (testi, immagini, audio e video) che incitano alla violenza. Tale disposizione intende ridurre la capacità dei gruppi estremisti di sfruttare lo spazio digitale per il reclutamento e l’indottrinamento, pur sollevando questioni complesse sul bilanciamento tra misure di prevenzione e garanzie civili, nonché sull’efficacia di interventi meramente repressivi se non accompagnati da politiche sociali e culturali di lungo periodo. Non è un caso soggetti reclutati nel corso dell’ultimo decennio presentano tratti ricorrenti: età giovane (per lo più tra i 20 e i 30 anni), basso livello d’istruzione, condizione lavorativa precaria o disoccupazione, e, spesso, precedenti legati alla microcriminalità. A tali elementi si aggiungono forme di isolamento sociale, crisi identitaria e scarsa condivisione dei valori democratici europei, fattori che rendono più vulnerabili ai processi di radicalizzazione. Tuttavia, come rilevato dal Radicalisation Awareness Network (RAN), non è da escludere la possibilità di radicalizzazioni anche in contesti socioeconomici agiati o tra individui con livello d’istruzione medio-alto.

Nel complesso, l’analisi dell’ultimo decennio mostra come, nonostante le perdite territoriali e strutturali, lo Stato Islamico continui a rappresentare una minaccia persistente, capace di adattarsi e rigenerarsi attraverso nuove forme organizzative e narrative. La sua vitalità non risiede più nel controllo territoriale, bensì nella capacità di sfruttare tensioni sociali, conflitti politici e dinamiche comunicative globali.

In questa prospettiva, la crescente polarizzazione del dibattito politico europeo, alimentata dal conflitto tra Israele e Hamas e dall’ascesa di movimenti estremisti di destra, islamofobici e xenofobi rischia di creare un terreno fertile per nuove ondate di radicalizzazione. La diffusione di retoriche anti-inclusive e la marginalizzazione delle minoranze potrebbero alimentare una percezione di ingiustizie sistemiche, le quali possono fungere da catalizzatori per un rinnovato sentimento di rivalsa, soprattutto tra le fasce più vulnerabili della popolazione.

Di conseguenza, la sfida per l’Unione Europea consiste nel rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto, ma anche nel preservare la coesione sociale e politica interna, contrastando ogni forma di radicalizzazione, religiosa e politica, che possa tradursi in violenza.

Articoli simili