Un difficile anniversario per il JCPOA
Asia e Pacifico

Un difficile anniversario per il JCPOA

Di Denise Morenghi
16.07.2020

Nelle ultime settimane diverse infrastrutture energetiche ed industriali iraniane sono state interessate da una serie di esplosioni e incendi, che ne hanno parzialmente compromesso la funzionalità. Tra la fine di giugno e la prima metà di luglio, infatti, simili eventi sono stati registrati nei pressi della base militare di Parchin (a est di Tehran), alla centrale elettrica di Ahvaz (nel sudest del Paese), nell’impianto petrolchimico di Karoon (nella capitale) e, non da ultimo,  all’impianto nucleare di Natanz, a 250 chilometri a sud di Tehran. Quest’ultimo è uno stabilimento cruciale per il programma nucleare iraniano: innanzitutto, è l’unico impianto rimasto attivo e che può portare avanti le attività di arricchimento dell’uranio, secondo quanto predisposto dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare stipulato il 14 luglio 2015 a Vienna tra Iran, Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, Russia, Cina e Unione Europea. Inoltre, è il sito di sperimentazione di centrifughe di ultima generazione, in grado di rendere più efficiente il processo di arricchimento dell’uranio.

La sensibilità del sito per l’attività nucleare e il rapido susseguirsi delle esplosioni hanno portato le autorità iraniane a non escludere la possibilità che gli eventi siano il frutto di un’operazione di sabotaggio in corso ai danni di Teheran, per cercare di mettere pressione e disincentivare le autorità iraniane a riattivare il proprio programma di ricerca.

Queste ultime, infatti, a partire dallo scorso novembre, hanno ripreso alcune attività legate alla sperimentazione nucleare. In particolare, il processo di arricchimento dell’uranio, arrivato ad una percentuale del 5% e il raddoppiamento del numero di centrifughe avanzate operative proprio a Natanz. Entrambe le operazioni hanno rappresentato un’aperta violazione del JCPOA, con il quale l’Iran si era impegnato a non superare il tetto massimo per la percentuale di arricchimento dell’uranio al 3.67%, e ad utilizzare solo un numero limitato di centrifughe di vecchia generazione, e meno performanti, fino al 2026.

Le attività di arricchimento dell’uranio riprese dall’Iran rientrano nel passo indietro dagli impegni presi in ambito JCPOA annunciato dal governo iraniano tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020. Tale scelta era stata motivate da parte iraniana come risposta al ritiro unilaterale americano dall’accordo, avvenuto nel novembre 2018, nonchè al conseguente ripristino delle sanzioni economiche contro la Repubblica Islamica. Queste ultime, infatti, hanno contribuito ad interrompere i rapporti commerciali non solo tra Stati Uniti e Iran, ma anche tra la Repubblica Islamica e gli altri partner internazionali, i quali, temendo gli effetti del regime sanzionatorio imposto da Washington, hanno progressivamente sospeso gli scambi con la controparte iraniana. Ciò ha alterato l’equilibrio sotteso al JCPOA, per il quale la normalizzazione dei rapporti commerciali era il contraltare richiesto da Teheran per la sospensione del proprio programma nucleare.

Nel quinto anniversario dalla sua firma, oggi il futuro del JCPOA sembra sempre più incerto e legato all’esito e alla polarizzazione dei rapporti di più ampio respiro tra Stati Uniti e Iran nel prossimo futuro.

Nonostante le violazioni del JCPOA, la condotta dell’Iran è rimasta in questi mesi piuttosto  ambivalente: infatti, se da un lato, le autorità iraniane hanno ripreso a tutti gli effetti le attività di arricchimento dell’uranio, dall’altra Teheran ha continuato a mantenere gran parte degli impegni presi, in primis con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA). In questo senso, la ripresa delle attività è parsa rispondere più alla volontà di lanciare un segnale ai partner stranieri, in primis ai firmatari dell’accordo, più che ad un effettivo interesse di chiudere definitivamente il capitolo JCPOA. Non è da trascurare, infatti, il fatto che, benchè le sanzioni abbiano cancellato la maggior parte dei possibili benefici, per Tehran tenere vivo l’accordo potrebbe comunque voler dire raccogliere qualche frutto. Per esempio, secondo quanto pattuito, otto anni dopo l’adozione dello stesso, nel cosiddetto “Transition Day”, dovrebbero essere sollevate le restrizioni ONU ancora vigenti sulla compravendita di arsenale balistico e tutte le sanzioni relative al nucleare ancora imposte dall’UE. Questo dovrebbe avvenire nel 2023 e rappresenterebbe un primo passo verso la chiusura definitiva del dossier sul nucleare iraniano, prevista per il 2025.

Proprio il possibile sollevamento dell’embargo sulle armi, previsto dalla risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il prossimo ottobre, ha contribuito ad inasprire ulteriormente le relazioni tra Iran e Stati Uniti. Nel corso degli ultimi mesi, infatti, questi ultimi hanno richiesto un’estensione dell’embargo sugli armamenti imposto all’Iran, cercando il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Tuttavia, a fronte delle difficoltà nel superare il possibile veto da parte di membri permanenti come Russia o Cina, Washington ha iniziato ad avanzare con sempre maggior convinzione l’ipotesi di attivare il meccanismo interno al JCPOA, in virtù del quale  il passo indietro fatto dall’Iran rispetto ai patti stabiliti e la ripresa delle attività di arricchimento dell’uranio potrebbero portare ad un ripristino completo delle sanzioni previste dall’ONU. La questione ha contribuito ad irrigidire ulteriormente il clima intorno al futuro dell’accordo. Infatti, secondo le altre parti coinvolte nell’accordo, la decisione di Washington di ritirarsi ha fatto decadere il diritto di attivare la re-imposizione delle sanzioni, una possibilità limitata alle sole parti vincolate dalle disposizioni legali del patto. L’amministrazione Trump, al contrario, sostiene che il testo dell’accordo si riferisca ai partecipanti originari e di avere dunque la possibilità di innescare il meccanismo. Contestualmente, Tehran cerca di invalidare la tesi americana minacciando il ritiro non solo dal JCPOA, ma anche dal trattato per la non-proliferazione (NPT) del 1970.

L’apparente impossibilità attuale di trovare un punto di convergenza tra Washington e Teheran, dunque, sta inevitabilmente complicando le possibilità di dialogo ancora esistenti nel quadro del JCPOA e potrebbe avere delle conseguenze la cui portata andrebbe inevitabilmente a complicare le già controverse condizioni di sicurezza nella regione. In questo contesto, anche il ruolo dell’Europa è stato notevolmente problematizzato nel corso degli ultimi anni e irrigidito dalla scelta di mantenere un approccio cauto che non le ha permesso di sfruttare il fatto di essere un interlocutore terzo, ma comune, rispetto a Iran e Stati Uniti per cercare di sostenere l’accordo firmato. In particolare, l’Iran reclama ai Paesi europei un’effettiva implementazione del JCPOA nonostante la presenza delle sanzioni statunitensi, capaci di scoraggiare qualsiasi attore globale ad intrattenere legami commerciali con Tehran. Se formalmente l’Unione Europea ha promosso la creazione di INSTEX (Instrument in Support of Trade Exchanges), un meccanismo finanziario volto a facilitare gli scambi in valuta diversa dal dollaro con l’Iran (per aggirare le sanzioni statunitensi), in realtà il suo utilizzo non è ancora riuscito ad entrare veramente a regime. Dopo la prima transazione effettuata a fine marzo, il meccanismo non sembra ancora essere entrato a regime. La scarsa efficacia delle misure adottate in ambito europeo come scudo dalle sanzioni imposte da Washington, di fatto, ha scoraggiato molte  aziende europee che, hanno tagliato i propri legami con l’Iran, contribuendo così ad annullare, di fatto, i benefici commerciali che quest’ultimo poteva trarre dal JCPOA.

Le difficoltà per l’UE nel trovare un bilanciamento tra le due parti in causa è emerso anche proprio in merito alla questione relativa al prolungamento dell’embargo sugli armamenti. Infatti, se, da un lato,  Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha sottolineato come gli Stati Uniti non possano più considerarsi parte in causa nell’attivazione dei meccanismi previsti dal JCPOA, dall’altro, i Paesi europei hanno espresso la preoccupazione riguardo il sollevamento dell’embargo, che potrebbe creare enormi instabilità all’interno di una regione così sensibile per la stessa stabilità europea. L’indecisione del Vecchio continente sembra figlia della difficoltà con cui l’Unione Europea sta cercando di trovare un equilibrio tra la volontà di mantenerne una terzietà credibile tra le due parti in causa e la possibilità di ritagliarsi un ruolo di mediatore sul lungo termine, indispensabile per cercare di salvaguardare gli interessi dell’Europa a scongiurare una pericolosa escalation di tensioni a ridosso dei propri confini. In questo contesto, un’ulteriore fattore di criticità per la gestione delgli equilibri tra le parti potrebbe derivare dalla forte incertezza e precarietà politica che sia l’Iran sia gli Sttai Uniti si trovano ad affrontare in un momento in cui entrambi si avvicinano alle elezioni presidenziali. Questo dato non è da sottovalutare, perché il tornaconto elettorale potrebbe essere un vettore importante nelle prossime dinamiche interne al dossier sul nucleare su vari livelli.

Innanzitutto, non è da escludere che il Presidente Trump, avvicinandosi alle elezioni presidenziali in un clima a lui non favorevole a causa della situazione interna, cerchi di temporeggiare nella gestione del rapporto con Teheran e di allentare al politica di massima pressione fino ad ora adottata dalla Casa Bianca. In effetti, agli inizi di giugno, Trump ha dato segni di disponibilità a una nuova negoziazione con Tehran, verosimilmente cercando un avvicinamento diplomatico che potesse portare un risultato spendibile in campagna elettorale. Ad esempio, nel mese di giugno gli Stati Uniti e l’Iran hanno negoziato uno scambio di prigionieri, e l’arrivo di petroliere iraniane in Venezuela, verificatosi varie volte dallo scorso aprile, non ha suscitato reazioni conclamate da parte di Washington.  Da parte sua Teheran, guarda con grande cautela le evoluzioni dello scenario elettorale e ha negato la possibilità di riaprire il dialogo con nuove condizioni che non partano dal presupposto di un completo sollevamento delle sanzioni e di un ripristino di tutte le disposizioni del JCPOA. In questo senso, Tehran potrebbe vedere nell’elezione del candidato democratico, Joseph R. Biden Jr., un’opportunità per ottenere maggiori aperture verso un ritorno al tavolo negoziale. Quest’ultimo, infatti, ha partecipato alle negoziazioni per il JCPOA nel 2015 all’interno dell’amministrazione Obama e negli ultimi mesi ha richiesto il sollevamento delle sanzioni all’Iran per aiutare quest’ultimo a gestire la crisi da covid-19, dimostrando un buon grado di apertura nei confronti di Tehran. Dunque, una sua elezione, agli occhi dell’Iran, potrebbe rappresentare la possibilità di ritornare all’accordo, ma anche una prospettiva di sostenibilità dell’accordo stesso sul medio e lungo termine. D’altra parte, Anthony Blinken, uno dei consiglieri di Biden, ha dichiarato che un’eventuale amministrazione democratica potrebbe tornare nel JCPOA e, eventualmente, negoziare un nuovo accordo in seguito. Il ritorno al patto precedente gli garantirebbe, verosimilmente, il supporto europeo, ora alienato dalla condotta di Trump e dall’uscita dall’accordo originale.

Dal punto di vista della politica domestica iraniana, un’aumentata disponibilità statunitense permetterebbe ad Hassan Rouhani, Presidente fino al 2021, di motivare meglio la scelta di rimanere all’interno del JCPOA, che secondo quest’ultimo darà i suoi frutti nel lungo termine, aiutando l’Iran a raggiungere i suoi obiettivi strategici. Questo soprattutto a fronte dell’indurimento della posizione ultraconservatrice, che dopo le elezioni di maggio gode di una forte rappresentanza in parlamento, e che è totalmente opposta a qualsiasi ammorbidimento verso gli Stati Uniti, reclamando anche il ritiro completo dal JCPOA e propugnando, anche all’interno dell’Iran, una retorica di resistenza tipica della Repubblica Islamica: Tehran non rimarrà passiva di fronte alle sanzioni e al ritiro degli Stati Uniti dall’accordo, ma anzi resisterà senza fare passi indietro. Una simile narrazione è stata usata molte volte da Tehran per legittimare le proprie scelte in momenti difficili per la popolazione iraniana, ad esempio con le sanzioni statunitensi del 2012, quando la Guida Suprema Ali Khamenei ha coniato l’espressione “economia della resistenza”, poi riproposta dopo il ritiro americano dall’accordo sul nucleare del 2018. Proprio l’opposizione degli ultraconservatori, inasprita dal ritorno delle sanzioni statunitensi, ha precluso la visita degli ispettori dall’IAEA a due siti coinvolti in passato nel programma nucleare. Se le autorità iraniane sembravano vicine a permettere la visita, caldeggiata dall’IAEA da decenni e sempre negata, il rifiuto netto degli ultraconservatori ha frenato la decisione di Rouhani. In questo contesto, l’evoluzione della posizione statunitense potrebbe avere importanti effetti sulle sensibilità interne sia allo spettro politico sia all’opinione pubblica iraniana, in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. In un momento in cui le disastrose condizioni economiche e l’emergenza sanitaria stanno pesando in primis sulla popolazione, la chiusura di ogni prospettiva di dialogo e un’accelerata della retorica del confronto potrebbe portare ad un’esasperazione del risentimento nei confronti della Comunità Internazionale e spianare la strada ad eventuali candidati ultraconservatori in grado di raccogliere questo risentimento e incanalarlo in una narrativa nazionalista. Ciò non solo limiterebbe le possibilità future di aperture di nuovi tavoli, ma potrebbe ulteriormente incrementare le tensioni della Repubblica Islamica con Washington e con quegli attori regionali che da sempre considerano un Iran più assertivo nella ricerca dei propri interessi nazionali come una minaccia per la sicurezza dell’area.

Per quanto ridimensionato nella sua portata, il futuro del JCPOA rappresenta dunque ancora una variabile importante non solo per definire i rapporti tra le parti, ma soprattutto per determinare gli equilibri di più ampio respiro in una regione così strategica per la stabilità internazionale.

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