Le ripercussioni dei dazi USA sull'Asia: contromisure, crollo dei mercati e perdita di fiducia
L’annuncio del Presidente statunitense Donald Trump dell’introduzione di dazi su scala globale ha prodotto effetti negativi in tutto il continente asiatico. In particolare, tra il 4 e il 7 aprile, si sono registrati crolli vertiginosi in tutti i mercati finanziari della regione, con perdite nella singola giornata di lunedì superiori al 13% ad Hong Kong (record negativo dal 1997), prossime al 10% a Taiwan e superiori al 7% in Giappone, a Singapore e in Cina. Proprio la rapida decisione di Pechino di rispondere con tariffe del 34% su tutti i beni statunitensi a partire dal 10 aprile, le quali andranno ad aggiungersi a quelle già annunciate pari al 10%-15% su alcuni beni agricoli e macchinari, ha contribuito a scatenare la tempesta perfetta sui mercati della regione prima e di tutto il mondo poi. Parallelamente, la autorità di Pechino hanno annunciato ulteriori contromisure, tra cui l’immediata restrizione delle esportazioni di sette elementi della lista delle terre rare. Per provare a stabilizzare una situazione decisamente critica, il 7 aprile, il principale fondo statale cinese, Central Huijin Investment, ha reso pubblica la volontà di ampliare le proprie partecipazioni nei valori di borsa. Sempre in Cina si registrano discussioni in merito agli stimoli necessari per stabilizzare i mercati e supportare i consumi nell’immediato futuro. L’attuale crisi, infatti, giunge mentre la Repubblica Popolare è alle prese con la necessità di stimolare la domanda interna e rilanciare il mercato immobiliare in permanente difficoltà. Nuovi rilevanti interventi di sostegno all’economia erano già stati annunciati a seguito delle tradizionali “due sessioni”, dove la Cina ha presentato gli obiettivi macroeconomici per il 2025, tra cui un tasso di crescita al 5%, un rapporto deficit/PIL al 4% (in aumento di circa un punto percentuale rispetto al 2024) e un target per l’indice dei prezzi al consumo attorno al 2%. In questo quadro, Pechino aveva già previsto l’emissione di circa 4,4 trilioni di yuan in obbligazioni speciali degli enti locali per investimenti in infrastrutture, acquisto di terreni inutilizzati e abitazioni invendute e pagamento di arretrati agli appaltatori dello Stato, nonché circa 500 miliardi di yuan di obbligazioni sovrane speciali volte a ricapitalizzare le banche statali. Tuttavia, le recenti turbolenze sui mercati globali impongono nuovi e rapidi interventi, tra cui si evidenziano possibili tagli dei tassi e un nuovo incremento del deficit. Sul tema, si segnalano anche pressioni nei confronti di aziende cinesi affinché queste non investano nel mercato americano prima dell’avvio di negoziati. Dal canto loro, gli Stati Uniti premono da tempo sul tema degli investimenti diretti esteri in uscita dalla Cina, nel tentativo di reindirizzare gli investitori internazionali in altri mercati, su tutti quello indiano, strategia rivelatasi finora non particolarmente efficace e complicata ulteriormente dalle recenti misure. Nel quadro attuale, la Repubblica Popolare potrebbe soffrire anche a seguito del rallentamento delle economie regionali, poiché tutto il vicinato immediato, con cui l’economia cinese è sempre più interconnessa anche e soprattutto in termini di investimenti diretti esteri, è stato colpito in maniera rilevante dai dazi statunitensi.
Mentre crescono i rischi di recessione globale, l’annuncio dei dazi effettuato da Trump ha colpito duramente anche i Paesi partner degli Stati Uniti in Asia, con chiari effetti sulla fiducia di questi nei confronti della amministrazione repubblicana. In un messaggio al Paese, il Primo Ministro di Singapore, Lawrence Wong, ha affermato che la fine dell’era della globalizzazione basata sulle regole e sul libero scambio potrebbe avere impatti molto negativi per economie orientate all’export come quella del Paese del Sud-est asiatico. Con dazi al 10% imposti dagli USA, ora Singapore teme lo scontro commerciale si ampli, con contromisure e risposte che potrebbero marginalizzare il Paese nel medio e lungo termine. Tutti gli attori del Sud-est asiatico sono stati colpiti in maniera rilevante dai dazi, come Vietnam (46%), Thailandia (36%), Indonesia (32%), Malesia (24%), Cambogia (49%), Filippine (17%), Myanmar (44%) e Laos (48%). Per Hanoi, in particolare, la decisione dell’amministrazione Trump risulta ampiamente negativa, in quanto il Paese ha come primo partner per l’export proprio gli USA, con 136.6 miliardi di dollari di beni venduti nel 2024, dato in crescita del 19.3% rispetto all’anno precedente. Il Vietnam, che ha chiesto la sospensione dei dazi e l’apertura di un tavolo di trattative, aveva finora giovato dello scontro Cina-Stati Uniti e si era imposto come meta privilegiata per quanti miravano a diversificare la produzione per sottrarsi proprio ai regimi tariffari. Di conseguenza, il Paese ha ospitato ed ospita ancora oggi diversi colossi statunitensi in cerca, tra le altre cose, di manodopera a basso costo, come Intel, Cargill, Nike, Murphy Oil, First Solar, Boeing e Apple. Medesimo paradosso vive oggi l’India, emersa come partner economico fondamentale per gli USA in Asia, ma comunque colpita da tariffe al 26%. Il Paese guidato da Narendra Modi ha esportato beni negli Stati Uniti per oltre 80 miliardi di dollari nel 2024 e le nuove misure, dunque, potrebbero impattare sugli sforzi volti a potenziare il settore manifatturiero e rilanciare l’export ad esso legato. Tuttavia, la stessa India potrebbe limitare i danni in quanto i dazi finora annunciati non coinvolgono la farmaceutica, uno dei settori più sviluppati del Paese, ma soprattutto perché questi risultano inferiori rispetto a quelli imposti sui competitor regionali principali, come Cina, Vietnam, Thailandia, Bangladesh e Sri Lanka. Nuova Dehli, comunque, resta fiduciosa rispetto alla capacità di convincere Washington a ritirare i dazi annunciati dopo i negoziati, anche se finora l’ottimo rapporto tra le rispettive leadership non ha prodotto gli effetti sperati.
Tra i partner USA colpiti dai dazi vi sono anche le Filippine, il cui Governo appare tuttavia non particolarmente preoccupato in quanto alcuni prodotti chiave esportati nel mercato americano, come rame e circuiti integrati, non sono inclusi nelle politiche protezionistiche finora annunciate. Inoltre, per le Filippine l’export pesa in maniera relativa sul PIL nazionale e il Paese potrebbe avvantaggiarsi rispetto ai competitors regionali per una soglia tariffaria relativamente bassa, pari “solo” al 17%. Taiwan, intanto, colpita da dazi al 32%, ha annunciato che non adotterà contromisure e il Presidente Lai Ching-te si è detto disposto anche ad eliminare le limitazioni non tariffarie alle importazioni dagli USA. Le autorità taiwanesi hanno poi annunciato un’ampia strategia volta a mitigare gli impatti delle politiche commerciali americane, negoziando la cancellazione delle stesse e importando quantità maggiori di prodotti made in USA, nonché proteggendo le industrie più colpite. Lai, inoltre, ha segnalato la necessità di far comprendere all’amministrazione americana la rilevanza del partenariato esistente, ampliando la quota di investimenti negli Stati Uniti già oggi superiori ai 100 miliardi di dollari. Malgrado il richiamo all’unità, il Partito Progressista Democratico al potere è stato oggetto di duri attacchi da parte dell’opposizione che potrebbe provare a sfruttare le tensioni con l’alleato americano per conquistare consensi tra la popolazione.
Il 7 aprile, intanto, il Primo Ministro giapponese Shigeru Ishiba ha programmato uno scambio telefonico con il Presidente Trump, dopo che l’indice Nikkei è sceso del 7,44%, mentre il Topix ha perso l’8,14%. L’approccio del Giappone, in questa fase, appare mirato ad evitare lo scontro, anche se Ishiba ha sottolineato come gli investimenti negli Stati Uniti restino legati alla cancellazione delle tariffe al 24% imposte lo scorso 3 aprile. Anche la Corea del Sud, colpita con dazi al 25%, poi alzati al 26%, si appresta ad avviare negoziati al fine di evitare l’entrata in vigore delle misure prevista per il 9 aprile, con atteggiamento apparentemente non conflittuale. Il Paese, fortemente polarizzato ed emerso a fatica dalla lunga crisi istituzionale con la recente destituzione del Presidente Yoon Suk Yeol, si trova a dover negoziare in una fase critica sul fronte politico interno. Inoltre, come emerso anche dalle parole dei vertici politici di Singapore, anche Seoul fatica per ora a comprendere pienamente quali siano le richieste americane, poiché nemmeno l’annuncio di investimenti diretti negli USA, come quello effettuato da Hyundai Motor del valore di circa 21 miliardi di dollari, sono serviti per essere esclusi dalla lista dei Paesi soggetti ai dazi.
In questo contesto, dunque, gli attori asiatici appaiono condividere la visione di un mutamento epocale delle relazioni economiche con gli Stati Uniti e temono un aggravamento dello scontro commerciale a livello globale, con conseguenze enormi sui tessuti produttivi nazionali. Allo stesso tempo, le risposte alle misure introdotte da Washington arrivano in ordine sparso e cresce la perplessità in relazione alle reali motivazioni per le quali Trump abbia scelto di annunciare dazi su larga scala secondo criteri economicamente poco comprensibili. Anche l’impegno ad aumentare la presenza economica nel mercato USA, finora promesso o concretizzato da parte di attori come Taiwan, Corea del Sud, India e Giappone, non ha prodotto i risultati sperati e il rischio è quello di una crescente competizione regionale che potrebbe aprire spazi di manovra enormi agli attori economicamente più solidi, come la Cina. Quest’ultima, tuttavia, teme a sua volta che una recessione globale impatti negativamente sui tassi di crescita previsti, eventualità da scongiurare anche per l’India. Nel complesso, dunque, in assenza di cambi di marcia, la politica commerciale protezionistica USA rischia di mettere a rischio la tenuta politica ed economica delle alleanze tradizionali americane in Asia, il cui futuro appare ora legato all’andamento di negoziati dagli esiti non scontati.