Sri Lanka: quali prospettive dopo la fuga di Rajapaksa
Asia e Pacifico

Sri Lanka: quali prospettive dopo la fuga di Rajapaksa

Di Tiziano Marino
13.07.2022

Sabato 9 luglio, al culmine delle numerose proteste che hanno attraversato negli ultimi 4 mesi lo Sri Lanka, una folla di manifestanti ha assaltato il palazzo presidenziale nella capitale Colombo costringendo il Presidente Gotabaya Rajapaksa alla fuga. A bordo di un aereo militare il Presidente si è rifugiato alle Maldive annunciando l’intenzione di dimettersi entro il 13 luglio. Poche ore dopo l’assalto al palazzo presidenziale, anche l’attuale Primo Ministro Ranil Wickremesinghe ha rassegnato le dimissioni nel tentativo di placare la rabbia popolare che non ha risparmiato Temple Trees, la sua residenza ufficiale. La fuga del Presidente potrebbe segnare la fine dell’era della potente famiglia Rajapaksa, che guida lo Sri Lanka dai primi anni Duemila. Infatti, già lo scorso maggio il fratello del Presidente, Mahinda Rajapaksa, si era dimesso dalla carica di Primo Ministro proprio mentre lo Stato ufficializzava il default sui $51 miliardi di debito estero detenuto principalmente da Cina, Giappone e India.

Di fatto, si apre così un vuoto di potere nel contesto di una delle più gravi crisi economiche della storia del Paese. La crisi istituzionale in Sri Lanka è stata innescata dal collasso del sistema economico. Totalmente dipendente dall’estero, l’isola nei primi mesi del 2022 si è ritrovata priva delle riserve valutarie necessarie a pagare le importazioni di beni essenziali come cibo, petrolio e medicinali. Il crollo delle riserve è legato principalmente alla diminuzione delle rimesse dall’estero, giunte ai minimi dal 2012, e alla crisi del settore turistico causata dalla pandemia e dal deterioramento delle condizioni di sicurezza seguito agli attentati della Pasqua 2019 rivendicati dal National Thowheeth Jama’ath - gruppo islamista locale affiliato all’ISIS - che provocarono circa 270 vittime e oltre 500 feriti.

Ad aggravare i problemi strutturali dell’economia srilankese hanno contribuito le controverse politiche promosse dai fratelli Rajapaksa caratterizzate da scarsa visione strategica. In particolare, la riduzione delle imposte e il taglio di circa 7 punti percentuali dell’Iva, passata dal 15 all’8%, approvati dal governo nel novembre 2019 per rilanciare i consumi interni, hanno concorso al deterioramento del quadro macroeconomico. Complici pandemia e lockdown, infatti, il taglio delle imposte ha prodotto una drastica riduzione del gettito complessivo che ha indebolito il Paese e spianato la strada al declassamento da parte delle agenzie di rating. Anche la recente decisione della Banca Centrale dello Sri Lanka di svalutare la rupia, finalizzata nelle intenzioni del governo ad attrarre rimesse e investimenti, è finita per favorire un’impennata dell’inflazione che si è attestata a giugno al 54.6% su base annua. Persino una misura innovativa come il divieto di utilizzare fertilizzanti chimici si è rivelata miope alla prova dei fatti, causando un crollo dei raccolti pari anche al 60% nei distretti centro-settentrionali del Paese.

L’attuale crisi in Sri Lanka potrebbe influire tanto sul futuro della politica interna dell’isola, quanto sul suo posizionamento regionale. Sul fronte interno, l’uscita di scena dei Rajapaksa sembrerebbe spianare la strada a un maggiore coinvolgimento dei partiti di opposizione nella vita politica del Paese. In questi giorni, si rincorrono le voci sulla possibile formazione di un governo di unità nazionale con la partecipazione di Sri Lanka Freedom Party e Sri Lanka Podujana Peramuna, guidato da Sajith Premadasa leader del primo partito di opposizione Samagi jana Balawegaya. Altri nomi papabili per la nomina da Presidente ad interim sono quelli dello speaker del Parlamento Mahinda Yapa Abeywardena e dell’ormai ex Primo Ministro Wickremesinghe. Tuttavia, quest’ultima opzione non sarebbe affatto gradita ai manifestanti che ancora occupano le strade dell’isola e che vedono in Wickremesinghe uno dei responsabili della crisi in corso. Sul fronte della politica estera, la fine dell’era Rajapaksa potrebbe tradursi in un graduale ridimensionamento della presenza cinese in Sri Lanka. I forti legami tra Colombo e Pechino risalgono agli anni della ricostruzione post-guerra civile e si sono evoluti proprio grazie all’azione diplomatica e alle scelte politiche dei Rajapaksa. Successivamente, l’inserimento dello Sri Lanka nella 21st Century Maritime Silk Road, il capitolo marittimo della Nuova via della seta, ha favorito la penetrazione cinese nel sistema economico dell’isola. L’attenzione di Pechino nel tempo si è rivolta alle infrastrutture strategiche con investimenti utili a realizzare il Colombo Port City Project, finanziato dalla China Harbour Engineering, o la costruzione del porto Magampura Mahinda Rajapaksa, comunemente noto con il nome di Hambatota, realizzato grazie ai fondi della EXIM Bank of China e poi ceduto in gestione a Pechino causa incapacità di Colombo di onorare i prestiti. Nel complesso, gli investimenti cinesi in infrastrutture nell’isola sono stati pari a circa 12,1 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2019 anni in cui, salvo la parentesi legata alla sconfitta elettorale del 2015, i Rajapaksa hanno dominato la vita politica dell’isola. L’impegno economico cinese in Sri Lanka ha scatenato un ampio dibattito sul reale impatto degli investimenti e sulla capacità dell’isola di far fronte ai debiti contratti rischiando di finire nella cosiddetta “trappola del debito”. Tuttavia, al netto delle critiche relative all’impatto ambientale e all’effettivo contributo offerto al mercato del lavoro e all’economia dello Sri Lanka dai progetti cinesi, le motivazioni del crack economico dell’isola vanno ricercate negli errori commessi dalla leadership nazionale.

Se da un lato la crisi in corso pone delle sfide alle relazioni tra Cina e Sri Lanka, dall’altro essa sembra presentare un’opportunità per l’India di Narendra Modi. In una riproposizione di quanto avvenuto al termine della guerra civile nel 2009, infatti, lo Sri Lanka necessita dell’aiuto dei principali attori regionali, ossia India e Cina, e delle istituzioni finanziarie internazionali. In questo contesto, a fronte alla tiepida reazione di Pechino, Delhi si è mostrata particolarmente reattiva nel voler supportare l’isola. In poco tempo, l’India ha impegnato circa $4 miliardi in prestiti, linee di credito e swap di valuta, al fine di garantire allo Sri Lanka l’acquisto di beni di prima necessità. Nel complesso, Delhi ha mostrato di voler approfittare dello spazio lasciato momentaneamente da Pechino per trasformare la crisi in un’opportunità. L’obiettivo è quello di riconquistare il terreno perduto in un Paese che rientra pienamente tra le priorità della strategia indiana per il vicinato denominata “Neighbourhood First”.

Nonostante il prezioso sostegno indiano, il futuro dello Sri Lanka resta legato al supporto delle istituzioni finanziare internazionali come Banca Mondiale (BM) e Fondo Monetario Internazionale (FMI). Mentre la prima sta fornendo all’isola la liquidità utile per acquistare gas e fertilizzanti, il FMI può offrire a Colombo una soluzione di carattere strutturale per uscire dalla crisi. Per questo da mesi sono in corso trattative tra l’istituzione con base a Washington e l’isola che dovrebbero concludersi con l’attivazione dell’Extended Fund Facility, lo strumento del FMI utile a risolvere gli squilibri di medio-lungo termine della bilancia dei pagamenti. Tuttavia, i negoziati avanzano a rilento anche a causa dell’incapacità della classe politica srilankese di implementare le riforme concordate.

Benché il sostegno del FMI all’isola non rappresenti una novità, il negoziato di queste settimane potrebbe assumere una valenza politica più ampia. Di recente, infatti, lo Sri Lanka, sulla scorta di quanto fatto da altri attori regionali come l’India, ha contattato la Russia nel tentativo di ottenere petrolio a prezzo scontato. Questa mossa, oltre a inserire pienamente l’isola nella più ampia partita diplomatica in corso tra l’Occidente e Mosca, potrebbe incentivare il FMI ad accelerare la chiusura della trattativa. Dal canto suo, però, lo Sri Lanka deve trovare una soluzione rapida alla crisi istituzionale così da poter risultare un interlocutore credibile agli occhi del Fondo.

La crisi in corso, dunque, potrebbe impattare sul posizionamento internazionale e regionale dello Sri Lanka. Al momento, la Cina non sembra interessata a giocare un ruolo centrale nelle vicende del Paese e questo lascia aperto uno spazio che l’India potrebbe provare a sfruttare. In questo contesto, anche la fuga del Presidente Rajapaksa alle Maldive, Paese storicamente vicino a Delhi, segnala il ruolo centrale giocato dal subcontinente in questa fase. Alla competizione tra India e Cina, si aggiunge il ruolo sempre più rilevante delle istituzioni finanziarie internazionali che rappresentano l’unica ancora di salvezza per un Paese che affonda. Tuttavia, nel breve termine lo Sri Lanka non sembra in grado di risolvere la grave crisi economica. La momentanea mancanza di una leadership politica riconosciuta internazionalmente, infatti, priva il FMI di interlocutori e impedisce il raggiungimento di un accordo che appare per il momento solo rimandato. In assenza di un cambio repentino di politica da parte di Pechino, nei prossimi mesi è possibile prevedere un’espansione dell’influenza indiana in Sri Lanka che riscriverebbe parzialmente gli equilibri nell’Indo-Pacifico. L’eventuale riposizionamento dell’isola, però, sarebbe fragile poiché essenzialmente legato alla necessità più che a una chiara scelta strategica. Inoltre, nel lungo periodo, è improbabile che la Cina abbandoni del tutto i suoi asset nel Paese dopo anni di investimenti politici ed economici. Alla luce di quanto descritto, è possibile immaginare che lo Sri Lanka si trasformi in uno dei teatri principali dello scontro tra Delhi e Pechino in cui si misureranno efficacia e prospettive delle rispettive strategie regionali.

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