Istruzioni per un genocidio: come riconoscere il “crimine dei crimini”
Russia e Caucaso

Istruzioni per un genocidio: come riconoscere il “crimine dei crimini”

Di Marco Bocchese
05.09.2022

Il termine “genocidio” è stato spesso invocato da politici, giornalisti ed opinionisti, complici le innumerevoli e gravissime atrocità commesse in Ucraina. Il motivo di tale (ab)uso è presto detto: il governo russo ha inizialmente (ed invano) tentato di giustificare il proprio intervento militare in Ucraina quale necessaria risposta all’asserito genocidio della minoranza russofona da parte delle forze regolari e paramilitari di Kyiv. Il governo di Zelensky, ha accusato a sua volta la Russia di condurre un genocidio contro la nazione ucraina dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, riportando un iniziale (ma importante) successo in tribunale a metà marzo u.s. Da ultimo, il 28 aprile u.s. il senato canadese ha approvato all’unanimità una risoluzione in cui si riconosce che la Russia ha compiuto atti di genocidio contro il popolo ucraino.

Lo spettro del genocidio è stato recentemente agitato anche in riferimento ad altri episodi di atrocità di massa tra cui, a titolo esemplificativo, quelli commessi ai danni del popolo yazida nella porzione di Iraq e Siria allora occupato dall’ISIS, del gruppo etnico Tigray nell’omonima regione dell’Etiopia settentrionale e del gruppo etnico dei rohingya nel Rakhine, stato del Myanmar occidentale. Si è altresì caratterizzato quanto perpetrato dal governo di Pechino contro gli uiguri nello Xinjiang come genocidio culturale, termine evocativo che tuttavia non appartiene al vocabolario legale. Tanto premesso, il presente contributo si propone di fugare alcuni dubbi che l’(ab)uso del termine genocidio sembra aver generato e rispondere ad alcune domande di fondamentale importanza: Cosa significa il termine “genocidio”? Quali sono i limiti di un approccio esclusivamente legale alla comprensione del fenomeno? Come si riconosce un genocidio in via di svolgimento e, soprattutto, come si ferma prima che sia troppo tardi?

Il punto di partenza della presente analisi non può che essere la definizione sancita dalla Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio del 1948 e riprodotta testualmente mezzo secolo dopo nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI) del 1998. Per quanto concerne la condotta criminale, è importante notare come la violenza debba essere impiegata in maniera selettiva contro i membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Ancora, la distruzione di un gruppo può avvenire in diversi modi ed è dunque un concetto più ampio rispetto alla “mera” uccisione dei suoi membri. In particolare, la definizione di cui sopra riflette diverse esperienze storiche, della Shoah al genocidio armeno, dal genocidio cambogiano a quello ruandese. Il tratto distintivo del crimine di genocidio rimane tuttavia il suo elemento soggettivo (o mens rea). Perché si configuri detto crimine, infatti, è necessario che la condotta criminale sia compiuta con dolo specifico, cioè con l’intento di distruggere, in tutto od in parte, un gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso. Laddove tale intento non sia successivamente provato, la condotta rimarrà comunque punibile come crimine contro l’umanità od altro crimine ricadente sotto la giurisdizione penale nazionale, ma non potrà essere considerata come genocidio.

I limiti di un approccio esclusivamente legale al fenomeno in esame sono molteplici. In primo luogo, la differenza tra genocidio ed altri crimini internazionali che, pur gravissimi, sono puniti meno severamente concerne esclusivamente nell’elemento soggettivo e non è dunque osservabile ad occhio nudo. In aggiunta, provare in aula di tribunale il dolo specifico di cui sopra è estremamente difficile e spesso richiede un’approfondita conoscenza del contesto storico, sociale e culturale in cui la violenza di massa si consuma. Da ultimo, l’accertamento della verità giudiziale permette di usare il termine “genocidio” solo al termine di un annoso procedimento e solo laddove sia debitamente provato. Tale e tanta prudenza, giustificata nell’esperienza di giudici e avvocati, mal si concilia con una logica preventiva che tende invece ad utilizzare il termine “genocidio” ben prima che si arrivi a sentenza. Infatti, l’impiego strategico della parola “genocidio” si è dimostrato un formidabile strumento comunicativo, capace di attirare l’attenzione della comunità internazionale su situazioni altrimenti tenute in poco conto o totalmente ignorate.

Ma il genocidio non è un concetto esclusivamente giuridico. A pensarci bene, il genocidio è innanzitutto un fenomeno di violenza politica e come tale andrebbe studiato. Il cambio di prospettiva ivi suggerito presenta un vantaggio fondamentale: il genocidio diviene un processo, un processo che dev’essere dunque ideato, adottato e supportato dalla leadership politica, propagandato alla cittadinanza, organizzato in dettaglio e preparato nei suoi aspetti pratici prima che lo sterminio sistematico cominci. Non è dunque un caso che nel dibattito accademico si parli piuttosto di politica genocidaria in adempimento della quale i singoli episodi (o atti) di genocidio sono posti in essere. Questa nuova comprensione del fenomeno, se da un lato rinuncia alla precisione giuridica del termine, dall’altro consente di intervenire prima che detta politica sia portata a compimento.

Il merito di aver proposto questa concezione alternativa e multifase del genocidio va al prof. Gregory Stanton, fondatore di Genocide Watch. Nel 1996, quand’era ancora impiegato presso il Dipartimento di Stato americano, Stanton fu incaricato di scrivere un saggio sulle varie fasi del genocidio (ruandese, nel caso di specie) e sui segnali che sia l’amministrazione Clinton che la comunità internazionale non erano state in grado cogliere prima che l’eccidio dei Tutsi cominciasse nell’aprile 1994 ed a cui non erano state in grado di rispondere nei quasi cento giorni durante i quali detto eccidio si consumò. In altre parole, poteva il governo americano, da solo od in concerto con le Nazioni Unite, prevenire, o perlomeno fermare, il genocidio ruandese?

Per Stanton, il fenomeno in esame generalmente consta di otto fasi. Si comincia con la classificazione di diversi gruppi sociali secondo la logica del “noi contro loro.” Nella fase successiva, alla classificazione astratta si affianca la creazione di simboli che distinguano i diversi gruppi sociali agli occhi della gente comune. In questa fase rientra, ad esempio, la decisione di imporre agli ebrei, prima nella sola Germania nazista e poi in tutti i territori da essa occupati, di cucire sui propri abiti la Stella di Davide, spesso in colore giallo; l’intento era infatti quello di rendere visibili e immediatamente identificabili gli ebrei dal resto della popolazione. Nella terza fase, si procede a de-umanizzare (e contestualmente demonizzare)i membri del gruppo contro cui si perpetrerà il genocidio. Agli insulti e stereotipi si aggiungono calunnie e accuse inventate ad arte; invidie personali e di classe contribuiscono ad aumentare ulteriormente l’intolleranza tra gruppi sociali.

La quarta fase concerne l’organizzazione. Questo è un aspetto chiave, ma spesso trascurato: tutti i genocidi richiedono una lunga e complessa organizzazione. È in questa fase che si organizzano i cosiddetti gruppi d’odio, si addestrano ed armano le milizie, mentre le forze armate sono epurate dai membri del gruppo preso di mira, nonché dagli ufficiali ed altri elementi che potrebbero opporsi al genocidio. Contestualmente, sempre maggiori risorse vengono destinate agli strumenti della propaganda, tra cui giornali, stazioni radio e televisive, social media, ecc. Con il completamento della quarta fase sono state poste in essere le condizioni per l’attuazione del genocidio, ma spesso questi preparativi sono ignorati o comunque sottovalutati dalla comunità internazionale a causa dei bassi livelli di violenza ad essi associati.

L’escalation della violenza comincia già con la quinta fase, quella della polarizzazione. È in questa fase che i moderati vengono presi di mira ed assassinati. La macchina della propaganda a questo punto insiste affinché tutti si schierino apertamente a favore o contro la politica genocidaria, secondo la logica del “se non sei con noi, sei contro di noi”; chi cerca di negoziare una soluzione politica è denunciato come un traditore della nazione. I livelli di violenza aumentano ulteriormente nella sesta fase, quella della preparazione. Si elaborano i piani per il genocidio e si compilano le liste di proscrizione. È a questo punto che la leadership politica cerca (e spesso ottiene) la complicità della gente comune e delle milizie irregolari. In questa fase si conducono altresì le “prove generali” del genocidio, il cui scopo è testare la risposta dei principali attori regionali ed internazionali. In mancanza di una dura presa di posizione, magari accompagnata da sanzioni politiche o economiche, la leadership politica si convincerà di poterla fare franca e darà il via libera al genocidio vero e proprio. Nella settima e penultima fase, si procede allo sterminio dei membri del gruppo preso di mira. È dunque in questa fase che si perfeziona il crimine di genocidio come previsto dal diritto internazionale.

L’ottava ed ultima fase è quella del diniego. La storia insegna che, sia durante che dopo ogni genocidio, gli autori solitamente negano di aver commesso un crimine così orribile. Si dipingono le vittime dello sterminio come caduti di guerra o come membri di gruppi sovversivi che minacciavano il regime. In alternativa, si incolpano direttamente le vittime, spesso affermando che il loro comportamento ne ha determinato l’uccisione. Da ultimo, si ricorre al sistematico occultamento (o distruzione) dei cadaveri al fine di ridurre al minimo il numero delle vittime accertate, gonfiando artificiosamente il numero dei dispersi. Tanto detto, è bene notare come questa fase possa durare decenni, se non addirittura secoli. Ad esempio, solo nel maggio scorso la Germania ha riconosciuto il genocidio dei popoli Herero e Nama perpetrato dalle sue truppe coloniali nell’odierna Namibia tra il 1094 ed il 1908. Peggio ancora, il governo turco persiste a negare il genocidio del popolo armeno commesso dalle truppe ottomane tra il 1915 e 1916.

Esaurita l’analisi del genocidio come processo e non come mera fattispecie criminale, quali conclusioni possiamo trarne? Innanzitutto, il pieno controllo del territorio è condizione necessaria affinché il genocidio si perfezioni. Non c’è un singolo episodio di genocidio che abbia avuto luogo in un’area contesa da due o più forze nemiche. In secondo luogo, anche in situazioni di pieno controllo territoriale, attuare le otto fasi del genocidio è qualcosa di estremamente complesso. Fortunatamente, il genocidio non è cosa da tutti. Anche le sole fasi preparatorie richiedono tempo, dedizione e risorse di cui nessun singolo individuo dispone. In prospettiva storica, non c’è mai stato un genocidio senza che lo stato, inteso come ente dotato di potestà territoriale in un dato momento e luogo, abbia attivamente partecipato alla sua ideazione, preparazione od esecuzione. Nella maggioranza dei casi lo stato è il principale (se non unico) responsabile del genocidio; nei casi rimanenti, lo stato è comunque complice di gruppi armati non statali che procederanno poi allo sterminio del gruppo preso di mira. In terzo ed ultimo luogo, non è detto che, una volta messo in moto, il processo che infine condurrà al genocidio non possa essere abbandonato od interrotto. A tal proposito, il saggio di Stanton offre istruzioni dettagliate su come distinguere le diverse fasi del genocidio, permettendo così ad attori nazionali ed internazionali di buona volontà di intervenire prima che la violenza genocidaria raggiunga il suo apice.

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