Cina e Stati Uniti: una sfida in continua evoluzione
Geoeconomia

Cina e Stati Uniti: una sfida in continua evoluzione

Di Carlo Palleschi
01.08.2022

La sfida economica tra la Cina e gli Stati Uniti si pone come un’ulteriore incognita in un quadro globale già particolarmente complesso, caratterizzato dall’elevata inflazione, dai drammatici effetti della guerra in Ucraina e dagli strascichi della pandemia. Ma è proprio la congiuntura particolarmente critica ad aprire degli spiragli nella complessa partita tra Washington e Pechino, nel tentativo di allineare gli sforzi su quei dossier in cui gli interessi convergono: stabilizzazione economica, lotta all’inflazione e resilienza delle catene globali di produzione sono temi su cui entrambi le parti possono dialogare, nonostante le divergenze di fondo persistano e gli interessi strategici divergano sostanzialmente. In questo frangente, quindi, la relazione economica assume una nuova dimensione, più mutevole e meno schematica, in cui le prove di dialogo si alternano ad iniziative invece più proattive, come ad esempio la visita della Speaker della Camera Nancy Pelosi a Taiwan.

Al netto delle divergenze strutturali, entrambi i Paesi concordano infatti sul fatto che sia necessario rafforzare il coordinamento delle rispettive politiche macroeconomiche e commerciali per mitigare l’impatto della guerra e dell’inflazione sull’economia globale e arginare le pratiche economiche sleali. Questo nuovo approccio si è concretizzato nell’incontro di alto livello che si è tenuto a inizio luglio tra Janet Yellen, segretaria statunitense al Tesoro, e Liu He, numero tre del governo di Xi Jinping, e che segue l’altro importante incontro svoltosi a Roma a metà marzo tra il Consigliere statunitense per la Sicurezza Nazionale Jack Sullivan e la controparte cinese Yang Jiechi. Janet Yellen a Liu He avrebbero discusso delle conseguenze della guerra, le politiche per la stabilizzazione dele catene di approvvigionamento globali, e soprattutto avrebbero affrontato il problema dei dazi, nella prospettiva di una loro progressiva riduzione. Se infatti la politica commerciale restrittiva nei confronti di Pechino era vista come un elemento centrale della politica statunitense dell’amministrazione Trump, ad oggi, con il passaggio all’amministrazione democratica, la relazione si è fatta meno muscolare, con la creazione di nuovi spazi di confronto e dialogo. La guerra e l’inflazione statunitense ai massimi storici hanno contribuito a favorire un ammorbidimento della linea di Washington. La stessa segretaria Yellen ha infatti dichiarato che un allentamento dei dazi ed un flusso commerciale più regolare potrebbero favorire la lotta all’inflazione.

Queste prove di dialogo non sono tuttavia da interpretare come un cambio strutturale delle rispettive politiche in materia economica e di politica estera. Da parte statunitense, infatti, le posizioni meno concilianti all’interno del Congresso permangono e la visione della Cina come rivale nella leadership globale non ha subito sostanziali alterazioni nel passaggio dall’amministrazione Trump a quella Biden. Questo approccio risulta evidente nel settore tecnologico, dove Pechino e Washington si sfidano senza esclusione di colpi per dominare i mercati del 5G, dell’intelligenza artificiale e dei semiconduttori. Questa situazione è esacerbata dalla politica adottata da Washington che ha progressivamente rafforzato le misure restrittive sull’export di componentistica versa le aziende cinesi. Da questo punto di vista, si registra una sostanziale continuità tra l’amministrazione Trump e quella Biden, avendo entrambi identificato nel mantenimento dello status di primazia nel settore dei semiconduttori una leva fondamentale per la competizione con Pechino. Trump, ad esempio, aveva adottato restrizioni nei confronti di varie aziende cinese, tra cui il colosso Semiconductor Manufacturing International Corporation (SMIC). Biden ha deciso di ampliare la blacklist delle società verso cui è vietata l’esportazione di chip, inserendovi altre compagnie cinesi attive nell’ambito hi-tech.

D’altra parte, la Cina ha anche essa una postura strategica poco propensa ad un’apertura della propria economia. Anzi, l’autosufficienza economica è proprio uno dei cardini della visione cinese di lungo termine. Questo è chiaramente emerso nelle riunioni plenarie – note come “Due sessioni”-del Congresso Nazionale del Popolo (CNP) e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (CPCPC)- che si sono svolte dal quattro all’undici marzo 2022 e che hanno messo in luce come le decisioni di investimento debbano essere fortemente indirizzate ad aumentare la resilienza dei comparti dell’alimentare e del tecnologico, in particolare per quanto riguarda la produzione di chips.

Un elemento centrale di questa politica dell’autosufficienza è quello di rafforzare il cosiddetto “decoupling” nei settori critici, ovvero il processo di disaccoppiamento tra l’economia cinese e quella statunitense. La guerra in Ucraina ha inserito un nuovo grado di urgenza al processo di “decoupling”, dal momento che la Cina, non avendo assunto una posizione netta al riguardo, si ritrova nella complessa situazione di dover essere cauta davanti alle richieste di Putin per non compromettere la già travagliata relazione con Washington. Infatti, Pechino, nonostante risulti essere leader nel mercato della lavorazione delle terre rare fondamentali per tutti i prodotti elettronici, è invece importatore netto di semiconduttori per circa 350 miliardi di dollari nel 2020 e 304 miliardi di dollari nel 2019. In questo contesto, quindi, per Pechino è più che mai fondamentale aumentare le proprie capacità nell’ambito della progettazione e produzione dei componenti integrati, al fine di raggiungere l’autonomia scientifica e tecnologica, e sganciarsi dagli Stati Uniti. La debolezza strutturale cinese nell’ambito dei semiconduttori rischia di compromettere le ambizioni di potenza cinesi. È quindi in questo contesto che deve essere inserito ed interpretato il piano strategico “Made in China 2025” che, tra i vari obiettivi, si pone per l’appunto quello di arrivare a soddisfare in modo endogeno il 70% del fabbisogno domestico di microchip entro il 2025. Nonostante sia improbabile che la Cina arrivi effettivamente a raggiungere questo traguardo, la strada tracciata dalla pianificazione politica è chiara e punta in modo strategico al raggiungimento dell’autonomia scientifica e tecnologica come driver della crescita economica e della proiezione per la leadership globale. Davanti a questo scenario di competizione tecnologica, assume quindi maggior rilievo la questione di Taiwan che ingloba, oltre all’aspetto militare ed ideologico, anche un aspetto più pragmatico. Le aziende taiwanesi costituiscono infatti il 63% del mercato globale dei semiconduttori ed il colosso Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) ne rappresenta da solo il 54%. Il Partito Comunista Cinese, dunque, guarda a Taiwan come un tassello fondamentale per svincolarsi dagli Stati Uniti e cercare di ridurre le proprie vulnerabilità tecnologiche.

La conferma dell’approccio cinese e di come le recenti aperture vengano intese da Pechino come uno strumento e non come un obiettivo è rappresentata anche dalla strategia della cosiddetta “doppia circolazione”, formulata da Pechino nel 2020 come reazione all’incertezza e all’ostilità dell’economia globale. Attraverso questa strategia, la Cina mira infatti a rafforzare l’espansione del consumo domestico (circolazione interna), pur rimanendo aperta al commercio e agli investimenti internazionali (circolazione esterna). L’obiettivo è quello di rendere la domanda interna il primo pilastro economico della crescita cinese e mantenere l’apertura verso l’esterno senza però dipenderne in modo eccessivo, così da diminuire la vulnerabilità dell’economia cinese agli shock esogeni. Malgrado il rapporto delle “due sessioni” non faccia esplicito riferimento alla “doppia circolazione”, l’implementazione di politiche mirate a rafforzare la circolazione interna supportando la crescita del mercato e della domanda domestica rimane una priorità strategica per Pechino.

Risulta quindi evidente come le prove di dialogo siano emblematiche di una convergenza congiunturale di interessi su specifici dossier, mentre le linee di fondo delle rispettive politiche in ambito economico e di politica estera rimangono sostanzialmente contrapposte e poco propense a porre la normalizzazione come un obiettivo di lungo corso. È tuttavia fondamentale sottolineare come la sfida nei confronti degli Stati Uniti non possa essere letta solo come un dossier di politica economica internazionale: infatti, la corsa per la leadership globale passa, in primo luogo, attraverso una politica interna di rilancio economico e coesione sociale. È cruciale per Pechino assicurarsi, in una prospettiva di lungo periodo, che il rilancio della domanda interna sia adeguatamente sostenuto da un Paese economicamente, politicamente e soprattutto socialmente coeso. Il rischio maggiore, infatti, è che il Paese si “spacchi”, alimentando una contrapposizione tanto geografica –tra la costa e l’interno-, quanto sociale– tra ricchi e poveri. Ecco perché secondo Xi Jinping, alla Cina serve avere degli “imprenditori patriottici”, che aiutino il Paese a rilanciare la domanda interna e credano nelle possibilità del proprio Paese. In questo contesto deve essere quindi anche interpretata la stretta sulle grandi imprese adottata dal Governo cinese, cioè come una politica mirata alla redistribuzione della ricchezza accumulata negli anni dalle grandi imprese Fintech in un’ottica di “giustizia sociale”. Nella prospettiva cinese, il rilancio post-Covid e nel quadro macro delle difficoltà legate alla guerra passa anche e soprattutto attraverso il mantenimento della coesione sociale, ed in questo quadro di unità nazionale le aziende private non possono fungere da centri di potere alternativi, bensì, al contrario, devono allineare il proprio sviluppo con la prosperità della nazione e con le esigenze delle persone, dimostrando un forte senso di appartenenza e di solidarietà. In altri termini, agli occhi di Pechino, la forza per proiettarsi proattivamente verso l’esterno – verso gli USA- deriva dalla forza interna di cui il Paese gode.

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