L’attacco di Nairobi e la resilienza del jihadismo keniota
Africa

L’attacco di Nairobi e la resilienza del jihadismo keniota

Di Marco Di Liddo
14.01.2019

A poco più di 5 anni dall’attacco al centro commerciale Westgate (settembre 2013, 75 morti e 140 feriti), Nairobi è tornata ad essere il bersaglio del terrorismo jihadista. Infatti, il 15 gennaio, l’Hotel Dusit del distretto settentrionale di Westlands è stato assaltato da un commando formato da circa 5 miliziani muniti di fucili d’assalto che, prima di penetrare all’interno dell’edificio, hanno fatto esplodere un’autobomba nei pressi del suo ingresso. Tale complessa modalità di attacco, già osservata in altre occasioni sia nella regione del Corno d’Africa che nel Sahel (Radisson Hotel di Bamako, Hotel Splendid e Hotel Bravia di Ouagadougou), denota una elevata capacità tecnica, propria di gruppi terroristici maturi e strutturati, e rappresenta una prima ed evidente certificazione di paternità che rende attendibile la rivendicazione compiuta da al-Shabaab.

Diverse potrebbero essere le ragioni all’origine dell’attentato. In primo luogo, la volontà di colpire un Paese, quale il Kenya, impegnato da oltre cinque anni nella stabilizzazione in Somalia e nel contrasto al terrorismo jihadista. In secondo luogo, colpire i cittadini occidentali ed i loro governi, con un’attenzione particolare riservata agli Stati Uniti d’America. Infatti, il distretto di Westlands (lo stesso del centro commerciale Westgate) è noto per la sua alta concentrazione di stranieri, molti dei quali impiegati nelle ambasciate, nelle multinazionali e nelle organizzazioni internazionali. Dunque, colpendo un hotel in questo distretto, al-Shabaab ha provato a colpire presumibilmente cittadini occidentali con la volontà di vendicare l’impegno dei loro governi nella lotta al terrorismo jihadista. L’enfasi verso gli Stati Uniti, oltre che per ragioni storiche e simboliche, potrebbe costituire una rappresaglia per il significativo aumento di attacchi aerei effettuati dalla US Air Force contro obbiettivi in territorio somalo (ben 47 solo nel 2018). Infine, un attacco così spettacolare e dall’alto richiamo mediatico come quello dell’Hotel Dusit potrebbe rientrare nella logica di competizione tra al-Shabaab, ufficialmente affiliato ad al-Qaeda dal 2012, e lo Stato Islamico in Somalia (Abnaa ul-Calipha). Quest’ultimo, infatti, nell’ultimo anno ha decisamente aumentato il numero dei propri attentati (66 sui 106 occorsi in Somalia), espandendo il proprio raggio d’azione anche al di fuori del Somaliland e del Puntland e accogliendo al proprio interno sempre più comandanti disertori di al-Shabaab. Inoltre, in diverse occasioni, i due gruppi si sono affrontati per il controllo di alcuni distretti e villaggi rurali. Dunque, per scongiurare il rischio del declino e mantenere inalterata la propria egemonia nel panorama jihadista regionale, al-Shabaab potrebbe aver organizzato un attentato dalla grande eco propagandistica per riaffermare la propria primazia in Somalia e Kenya.

Il movimento jihadista dell’Africa Orientale, proprio in occasione dell’attentato del 2013, aveva dimostrato di aver completato la trasformazione da realtà locale somala a completo network regionale con diramazioni diffuse da Gibuti fino alla Tanzania e all’Uganda. In questo senso, l’attentato all’Hotel Dusit conferma la piena regionalizzazione del gruppo nonché l’accrescimento delle capacità e dell’influenza di al-Hijra (ex Centro della Gioventù Islamica), la costola keniota di al-Shabaab. Quest’ultima, nata nel 2008 come nucleo per il proselitismo radicale e per il reclutamento di miliziani tra la diaspora somala nel quartiere Eastleigh di Nairobi (conosciuto come “Piccola Mogadiscio”), nel tempo ha consolidato la propria autonomia e la propria rete in tutto il Paese fino a costituire un polo parallelo rispetto alla Shura e all’Amniyat (polizia segreta) di al-Shabaab. Il leader di al-Haijra, il keniota Shaykh Ahmad Iman Ali, ha avuto l’intuizione di espandere il reclutamento anche ai non-somali e di radicalizzare alcuni gruppi del Mombasa Republican Council, il movimento indipendentista della città costiera. Tale incremento nel network di facilitatori potrebbe essere alla base del rapimento della cooperante italiana Silvia Romano, avvenuto il 20 novembre scorso nei pressi del villaggio di Chakama, nel sud del Paese, dove al-Shabaab non dispone di una presenza strutturata ma può contare su milizie e bande tribali alleate. Tali gruppi potrebbero aver rapito la nostra concittadina su ordine diretto di al-Hijra o nell’intento di “venderla” successivamente e speculare sul sequestro. Uno scenario, quest’ultimo, non nuovo nel Corno d’Africa.

Il rafforzamento di al-Haijra a Eastleigh ha trasformato il quartiere in una roccaforte jihadista quasi impenetrabile da parte delle autorità keniote, dove il movimento terroristico, grazie ad alleanze tattiche con la criminalità organizzata, ha imposto la propria autorità sul territorio. In questo senso, appare particolarmente indicativo il fatto che, nell’area in questione, al-Haijra utilizza metodi e strumenti malavitosi per scopi politici. Su tutti, l’esempio più evidente riguarda le prostitute tanzaniane, adoperate come spie in quanto solite intrattenersi con clienti particolarmente facoltosi e appartenenti al mondo imprenditoriale e istituzionale keniota.

L’attacco all’Hotel Dusit dimostra come al-Shabaab e, più in generale il jihadismo keniota, siano lungi dall’essere neutralizzati e sconfitti. Nonostante i progressi compiuti dalla African Union Mission in Somalia (AMISOM) e dalle diverse autorità locali nelle attività di contrasto, i fattori di vulnerabilità politica, sociale, economica e securitaria nel Corno d’Africa restano talmente profondi da offrire un ampio bacino di opportunità per la radicalizzazione e il successivo arruolamento nei network terroristici. Inoltre, le affiliazioni etnico-claniche e le dinamiche settarie che dominano le organizzazioni jihadiste locali rendono complicate le operazioni di infiltrazione e il reperimento di informazioni. Infine, le affinate capacità organizzative e logistiche, l’abilità nel cooptare il consenso delle fasce più vulnerabili della popolazione attraverso un amalgama di terrore e assistenza sociale e le carenze delle Forze Armate e di polizia rendono al-Shabaab un’organizzazione molto resiliente e, ad oggi, destinata a durare ancora a lungo.

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