La vittoria di Saied in Tunisia: rischi e prospettive
Medio Oriente e Nord Africa

La vittoria di Saied in Tunisia: rischi e prospettive

Di Emanuele Volpini
26.07.2022

Il 25 luglio in Tunisia si è tenuto il referendum per l’approvazione o il rifiuto della nuova Costituzione proposta dal Presidente Kais Saied. Il voto, a un anno esatto dalla sospensione dei lavori dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (ARP) – prima di venire definitivamente sciolta il 30 marzo 2022 – e dalla destituzione dell’allora Primo Ministro Hichem Mechichi, ha messo il Paese dinanzi ad una difficile scelta: percorrere una pericolosa strada verso l’autoritarismo con il conseguente rafforzamento dei poteri nelle mani del Presidente o boicottare il referendum con il rischio di tornare ad un pericoloso status quo ante luglio 2021. I primi risultati, arrivati nella nottata del 25 luglio, hanno mostrato chiaramente che i tunisini hanno scelto di appoggiare la proposta del Presidente Saied, con oltre il 90% dei consensi, a fronte di una partecipazione che si è tenuta bassa (intorno al 25%), con il conseguente ritorno a un presidenzialismo, di fatto, puro.

Tale processo è stato anche favorito dalle scelte assunte dall’inquilino del Palazzo Presidenziale di Cartagine, che nel corso dell’ultimo anno ha governato per decreti presidenziali, ha sciolto il Parlamento (e tolto l’immunità ai suoi membri) e ha lanciato una dura campagna contro la magistratura come fatto emblematicamente con la decisione di dissolvere il Consiglio Superiore di Magistratura il 6 febbraio 2022. Con questa operazione politica, Saied ha incanalato il Paese verso una preoccupante deriva accentratrice che rischia di compromettere l’assetto democratico raggiunto dal Paese nel post-2011.

Al di là del risultato referendario, è importante ora cercare di capire i contenuti della proposta di Saied. La Commissione Consultiva per una Nuova Repubblica è stata selezionata direttamente dal Capo di Stato e appositamente incaricata di redigere la Costituzione sulle indicazioni dello stesso Saied. Tuttavia, dopo che la bozza è stata anche pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica agli inizi di giugno, diversi membri della Commissione, tra cui il capo della medesima commissione, Sadok Belaid, e il decano degli avvocati tunisini, Ibrahim Bouderbala, hanno dichiarato che l’approvazione del nuovo testo rischia di favorire una deriva autoritaria, più precisamente di stampo presidenzialista. Con la vittoria del fronte del SI, il Presidente acquista poteri e privilegi ben definiti e che andranno a modellare il futuro del Paese sulla base delle scelte dello stesso Saied: esercizio del potere esecutivo, sostegno dal governo e dal Primo Ministro (art.87) che lui stesso nominerà e che, all’occorrenza, potrà anche rimuovere. La rimozione del Premier e lo scioglimento del Parlamento (art.101) sono accompagnate da indicazioni molto vaghe: il Capo dello Stato, in caso di emergenza, può rimuovere Primo Ministro e ARP senza dover fondamentalmente rispondere di tali azioni. Anche in caso di protesta, infatti, il Presidente non può essere accusato formalmente di impeachment. A queste prerogative, va aggiunto il fatto che Saied potrà ratificare leggi, sarà il Capo delle Forze Armate e potrà definire la politica generale dello Stato.

Al contempo, bisogna sottolineare l’aumento dei poteri giudiziari nelle mani del Presidente: se infatti durante gli ultimi mesi la magistratura aveva cercato di opporsi in maniera legale e tramite i mezzi a disposizione contro le decisioni del Capo dello Stato, ora con la nuova Costituzione i poteri dei giudici verranno limitati a favore di un accentramento nella mani di Saied stesso. In questo ambito, il Presidente avrà molta più libertà di manovra: potrà nominare i giudici su proposta del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) che, tuttavia, potrebbe nominare lui stesso (non vi è un articolo specifico, si ritiene che Saied possa attuare una legge ad hoc su questo tema o che modelli il nuovo CSM sul modello di quello da lui creato tramite decreto presidenziale lo scorso febbraio); potrà proporre modifiche o revisioni della Costituzione che dovranno essere approvate o meno tramite referendum.

L’accentramento dei poteri, tuttavia, non riguarda solamente la singola figura del Presidente. Infatti, nonostante i proclami fatti dallo stesso Saied quando era stato nominato Presidente della Repubblica nel 2019, l’accentramento riguarderà anche la struttura delle istituzioni sul territorio. Nel progetto della nuova Costituzione vi è, fondamentalmente, una forte riduzione del ruolo e dei poteri fattuali della autorità locali sui territori più marginali e periferici del Paese. Se la Costituzione del 2014, detta anche “Costituzione della Rivoluzione”, aveva al suo interno un intero capitolo (Titolo VII) composto da 11 articoli (art. 131-142), quella approvata ieri prevede un solo articolo (art.133). Rispetto a quella del 2014 che dotava la Tunisia dei cosiddetti “comuni”, i quali avevano autonomia in materia legislativa e potevano ricevere fondi statali per opere di miglioramento del territorio, l’articolo 133 della nuova Carta prevede un ritorno al passato: la formazione e la composizione dei consigli territoriali è materia di legge, non avranno voce in capitolo sulle decisioni prese dagli organi del potere centrale e non vi si potranno opporre.

Questa serie di misure implementate da Saied hanno scatenato diverse reazioni nella società civile tunisina. Le proteste sono state molto diffuse da inizio anno e hanno rappresentato un’altra parte fondamentale del processo che ha accompagnato la nuova Costituzione al voto. Da un punto di vista legale, la nuova Carta mantiene il diritto allo sciopero per la maggior parte delle categorie. Tuttavia, la magistratura, la polizia e l’esercito non possono attuare tale misura. In ottica presidenziale, si può interpretare questa decisione come una forma di assicurazione del Presidente stesso che nessuno degli attori più influenti della società tunisina si opponga alla sua figura. La magistratura, tra le altre cose, si trova proprio in sciopero da inizio giugno quando la bozza della Costituzione è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e vi sono state riscontrate modifiche attuate da Saied stesso, senza previa consultazione con la Commissione che lui stesso aveva selezionato. In risposta, il Presidente aveva destituito 57 giudici, accusandoli di corruzione. In generale, l’opposizione che si è manifestata in tutto il Paese da inizio anno contro la nuova Costituzione è stata repressa in maniera piuttosto dura: oltre allo scontro con la magistratura, Saied non ha risparmiato né gli oppositori all’interno del Parlamento né al di fuori di esso. Nell’ARP, diversi esponenti del partito islamista Ennahda sono stati accusati e arrestati per riciclaggio di denaro: si tratta di Hamadi Jebali, ex Primo Ministro e Segretario del partito, e Rachid Ghannouchi, ex Presidente del Parlamento e anch’esso Segretario del partito.

Ora, mai come in questo caso, il destino della Tunisia è stato nelle mani del suo popolo. Eppure, senza un quorum da raggiungere per l’approvazione della Costituzione (gli exit poll parlano del 25% dei cittadini aventi diritti al voto che si sono recati alle urne), in molti ritengono che il referendum sia stato solo una prova per il sostegno o l’opposizione alla figura del Presidente Saied. In questi termini, il voto del 25 luglio sarà un atto preparatorio per quello che si terrà il 17 dicembre di quest’anno, quando si voteranno i membri del Parlamento. La vittoria del fronte del SI e il ritorno al presidenzialismo puro, quasi di stampo benalista, non deve essere analizzata solo in prospettiva nazionale, ma anche in ottica regionale: il voto tunisino è osservato attentamente dagli attori del panorama nordafricano. Il caso tunisino potrebbe rappresentare un precedente per le realtà confinanti, provate dalla crisi ucraina e che stanno cercando di trovare risposte concrete alle continue proteste diffuse a più livelli nelle società.

Se osservata invece da una prospettiva europea (e occidentale), l’esito del referendum nasconde molteplici incognite. La stabilità del quadrante nordafricano, che potrebbe essere simbolicamente scosso dai risultati delle urne, è ritenuta fondamentale per il fianco meridionale dell’Unione Europea. Lo spettro di una crisi regionale, che richiama gli anni post-Primavere Arabe e, di conseguenza, tutte le implicazioni del caso, preoccupano soprattutto gli attori mediterranei: crisi migratorie, alimentari, energetiche e di sicurezza potrebbero riportare il Mediterraneo a una situazione simile a quella post 2011. In questo contesto di possibile instabilità, il Presidente Saied, nonostante la conferma di un ritorno al sistema presidenziale criticato dalla comunità internazionale, può trovare sostegno proprio da attori come Unione Europea e Stati Uniti che hanno forti interessi nella regione. Diventa cruciale, quindi, l’ottenimento del prestito di 4 miliardi di dollari che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha promesso a Tunisi solo in cambio dell’attuazione di politiche di austerity e di sviluppo del sistema economico tunisino. Saied potrebbe cercare il sostegno di Washington e Bruxelles come garanzia per ottenere questa cifra, in cambio di un mantenimento della stabilità nazionale e, di riflesso, di quella regionale.

Non a caso, non si deve mai dimenticare che il percorso intrapreso da Saied è nato ed evoluto all’interno di un contesto sociale ed economico tunisino già profondamente complesso e vulnerabile, profondamente colpito dalla pandemia da Covid-19 e dagli impatti asimmetrici della guerra in Ucraina. I fondamentali macro-economici del Paese, infatti, mostrano un quadro a dir poco preoccupante: il debito pubblico rispetto al PIL si attesta intorno all’82%; l’inflazione a dicembre 2021 aveva raggiunto il 6,6%; la stagnazione del sistema economico ha portato la disoccupazione al 18% (con il dato relativo a quella giovanile superiore al 40%) e il debito pubblico è ai confini dell’insostenibilità (oltre l’80% del PIL).

I risultati del voto in Tunisia, dunque, potrebbero aver definito il sorgere di una vecchia idea di politica e Stato, nella quale la ricerca di potere da parte dell’élite potrebbe essere in parte camuffata da un’esigenza reale di maggiore stabilità del piano domestico tunisino. Un modello che potrebbe divenire una sorta di esperienza utile da replicare, sotto forme più peculiari al singolo contesto, anche in altre realtà dell’area nordafricana afflitta da condizioni simili di instabilità. In altre parole, il rischio concreto è di aver dato vita – almeno in Tunisia – ad un nuovo percorso rispetto al 2011.

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