Grano, energia e politica: l’impatto della crisi ucraina in Nord Africa
Medio Oriente e Nord Africa

Grano, energia e politica: l’impatto della crisi ucraina in Nord Africa

Di Emanuele Volpini
02.08.2022

Il conflitto in Ucraina, iniziato lo scorso 24 febbraio, ha avuto e sta avendo un impatto significativo in diversi contesti regionali. Tra questi, il Nord Africa è uno dei quadranti più colpiti e sensibili alle evoluzioni della guerra tra Russia e Ucraina. Infatti, l’area, già tormentata da antichi problemi strutturali, non è stata risparmiata da una nuova ondata di criticità che hanno afflitto diversi comparti delle varie società nazionali: settore agro-alimentare, flussi migratori, governance ed energia solo per citarne alcune. Non a caso, i legami tra gli eventi ucraini e i potenziali effetti nel quadrante sono decisamente più complessi e articolati e risentono, soprattutto, di più fattori multidimensionali tra loro collegati.

Anche in virtù di ciò, i Paesi dell’area hanno reagito e preso posizioni differenti nei confronti delle azioni condotte da Mosca nello scenario ucraino. Le motivazioni sono molteplici e per lo più riconducibili agli impatti diretti e indiretti che il conflitto sta producendo, a più livelli, nei singoli contesti territoriali. Il Marocco, ad esempio, non ha presenziato al voto di condanna tenutosi il 2 marzo presso le Nazioni Unite mantenendo una neutralità che è stata apprezzata dai vertici diplomatici russi. Uno degli elementi che ha influito su tale decisione è la posizione di non intervento che Mosca ha assunto nella disputa tra Rabat e Algeri nel Sahara Occidentale, dove tra l’altro il Marocco ha ottenuto anche il riconoscimento degli Stati Uniti all’interno della cornice degli Accordi di Abramo (dicembre 2020).

L’Algeria, invece, ha presenziato al voto ma si è astenuta dal votare contro l’invasione russa in Ucraina. Tra Mosca e Algeri infatti esiste una partnership di lunga data, legata soprattutto al comparto militare. Nonostante ciò, le relazioni bilaterali sembrerebbero non essere state intaccate per il momento. Tunisia ed Egitto, al contrario, hanno espresso un voto di condanna per le azioni russe durante la votazione all’Assemblea Generale della Nazioni Unite. Entrambi i Paesi hanno risentito – e risentono ancora – fortemente delle implicazioni del conflitto, tanto che sin da subito hanno sostenuto l’azione promossa da Washington di dura condanna nei confronti di Mosca, pur sposando nella realtà una posizione più neutrale rispetto alla contesa specifica e, tendenzialmente, favorevole ad una ricerca di dialogo tra le parti. Infine, in Libia il Governo di Unità Nazionale (GNU) guidato dal Primo Ministro Abdel Hamid Dbeibah ha anch’esso espresso voto di condanna per gli avvenimenti dello scorso 24 febbraio. Ciononostante, le autorità di Tripoli sono ben consapevoli del ruolo che i russi hanno giocato sin dalla seconda fase della guerra civile in supporto del Generale Khalifa Haftar, leader dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) e sostenitore (almeno a livello nominale) del Governo di Salvezza Nazionale (GNS) – a sua volta guidato da Fathi Bashagha. Una prospettiva oscura che si lega necessariamente agli sviluppi e ai rischi di un conflitto non congelato e che vive di improvvise accelerazioni.

Tutti questi casi, tuttavia, non sono un indicatore soddisfacente in grado di definire il processo di allineamento di un certo Stato rispetto ad una questione specifica, né tantomeno vogliono essere una difficoltosa ricerca di neutralità (come nel caso algerino) o di un’esplicita condanna (si veda la posizione egiziana) nei confronti della Russia. Infatti, nel corso degli ultimi dieci anni, le realtà dell’area hanno costruito un rapporto molto articolato con Mosca, che è un partner strategico di alto livello con il quale le relazioni vanno oltre la semplice sfera economica.

Così a poco più di cinque mesi di distanza dall’inizio delle ostilità proviamo a comprendere ragioni e motivazioni di interesse dietro le posizioni assunte dai governi nordafricani e quali possono essere gli impatti a più livelli.

Marocco La crisi ucraina si è ripercossa nel contesto marocchino principalmente su due comparti: agro-alimentare ed energetico. Nel primo caso, l’incidenza del conflitto in corso ha un peso relativamente minore rispetto alle altre realtà nordafricane, in quanto il Marocco importa solo il 20% del grano da Ucraina e Russia. Tuttavia, la grave siccità che ha colpito il Paese a inizio anno ha ridotto del 69% la produzione cerealicola interna. Questo dato, se unito all’inflazione in costante aumento – la Banca Centrale del Marocco stima un tasso pari al 4,7% annuo – e alla diminuzione del potere d’acquisto dei cittadini marocchini, mostra come il comparto agro-alimentare, che vale il 14% del PIL di Rabat e che rappresenta il motore dell’economia nazionale, potrebbe causare una serie di crisi sociali con ripercussioni sulla governance del Paese. A minacciare la stabilità della governance marocchina, infatti, incide, in generale, il rincaro dei prezzi dei generi alimentari e del carovita.

Sul fronte energetico, invece, Rabat deve gestire un complicato intreccio di scenari. Il Marocco importa il 90% del proprio fabbisogno energetico, di cui il 62% è rappresentato dal petrolio, il 22% dal carbone e il 5% dal gas naturale. Proprio quest’ultimo è dossier di profonda tensione tra Rabat e Algeri. Date le continue e reciproche accuse tra vicini per via della riaccesa disputa del Sahara Occidentale e dopo il caso diplomatico scoppiato in primavera con Madrid, che ha riconosciuto la sovranità marocchina sulla regione rompendo una neutralità ventennale, l’Algeria ha deciso di non rinnovare il contratto di sfruttamento del gasdotto Maghreb-Europa che portava in dote al governo marocchino il 7% dei guadagni sulle vendite del gas e che garantiva il funzionamento di alcune centrali elettriche.

L’impatto su questi due settori ha già portato a proteste in oltre 50 città nel Paese, con il governo che ha dovuto aumentare il numero di sussidi statali per salvaguardare i lavoratori del comparto alimentare, mentre, parallelamente, ha stanziato 936 milioni di euro per proteggere il settore agricolo. Nonostante le iniziative, però, sul lungo periodo si teme che la crisi russo-ucraina possa mettere ancora alla prova le politiche nazionali.

Tuttavia, proprio il settore energetico marocchino può rappresentare per Rabat anche un’occasione per continuare il processo di rinnovazione e di abbandono dei combustibili fossili, intrapreso già dal 1999 sin dall’ascesa al trono di Re Mohammed VI. Il Marocco, infatti, è il più grande produttore di energia green dell’intero continente africano, nonché il principale attore che investe nella ricerca e sviluppo delle rinnovabili. Negli ultimi 10 anni il Paese ha investito 5 miliardi di dollari nella creazione di enti di ricerca e progetti legati alle rinnovabili, investimenti che hanno portato Rabat a produrre il 32% della propria elettricità da fonti green. A questo va unito il fatto che il comparto ha generato migliaia di posti di lavoro, allentando le tensioni sociali e migliorando la percezione che la popolazione ha della monarchia stessa.

Egitto La crisi ucraina continua ad avere un forte impatto nello scenario egiziano. Il comparto agro-alimentare ha sofferto maggiormente gli sviluppi legati al conflitto tra Russia e Ucraina, in quanto l’Egitto importa una quantità di grano e mais pari all’85% e il 73% di olio di girasole da ambo i Paesi. Con una popolazione di oltre 100 milioni di abitanti, che basa la propria alimentazione prevalentemente su prodotti cerealicoli (i cittadini egiziani consumano 150-180 kg di pane per capita, più del doppio della media globale di 70-80 kg), l’attuale crisi rappresenta una sfida estremamente importante e delicata per Il Cairo. Per far fronte alle necessità impellenti di approvvigionamenti alimentari, il governo si è rivolto dallo scorso aprile a più fornitori, tra cui, in particolar modo, l’India per cercare di soddisfare la propria domanda domestica di mais e grano. Il contratto stipulato con Nuova Delhi garantirà l’importazione di mezzo milione di tonnellate nel corso dell’anno, nonostante nel Paese asiatico sia stato posto un ban per l’export di tali materie in seguito a una forte ondata di siccità. Il quadro del comparto agro-alimentare, tuttavia, non è un problema di natura recente. Dalla caduta di Mubarak nel 2011, il Paese ha dovuto affrontare continui rincari e un aumento dell’inflazione sui prodotti del settore. Attualmente, le conseguenze per l’agro-alimentare sono state riscontrate in un incremento del prezzo del grano, salito del 44%, mentre quello dell’olio del 32%. La crisi in corso ha, quindi, accentuato un problema cronico de Il Cairo, uno dei più grandi importatori di grano al mondo. Si stima, inoltre, che la produzione di grano dell’Egitto nella campagna di commercializzazione (MY) 2021/22 raggiungerà i 9,0 milioni di tonnellate metriche (MMT), mentre il consumo sarà di 21,3 MMT, con un deficit di 12,3 MMT da colmare con le importazioni.

A preoccupare i vertici politici egiziani, ma anche i vicini regionali, sono le ripercussioni che potrebbero esserci legate all’insicurezza alimentare. Come già accennato, fin dagli anni Settanta del Novecento, la stabilità dei governi egiziani è dipesa fortemente dalla possibilità delle fasce più basse della popolazione di poter accedere in maniera agevolata ai beni alimentari di prima necessità. Se il governo deciderà di tagliare i sussidi statali che coinvolgono ⅔ della popolazione, il pericolo di nuovi disordini e instabilità potrebbe riaffacciarsi nello scenario domestico.

In aiuto al governo potrebbe giungere il fronte energetico, che ha visto l’Egitto sfruttare la crisi ucraina per poter svolgere un ruolo da protagonista nel quadrante del Mediterraneo Orientale e, in proiezione, nei rapporti con l’Unione Europea, alla costante ricerca di nuovi mercati da cui rifornirsi. L’Egitto, che storicamente è stato un importatore netto di idrocarburi, grazie alle riserve naturali di gas scoperte nei giacimenti di Zohr e Nour e all’attivazione degli impianti di liquefazione di Idku e Damietta, è riuscito negli ultimi tempi a pareggiare le importazioni. In ragione di tale successo, Il Cairo dovrebbe riuscire a mitigare l’impatto degli alti prezzi del petrolio che dovrebbe essere inferiore rispetto ad altri Paesi dell’area. Un contributo positivo per il presente e il futuro della sua economia che potrebbe essere decisamente utile anche in un’ottica di export ai diversi Paesi europei. Nel 2022, Il Cairo si è classificato al 14° posto tra i produttori mondiali di gas naturale, al quinto a livello regionale e al secondo in Africa, con una produzione di 58,5 miliardi di metri cubi. L’Egitto ha quindi il potenziale per diventare un centro energetico regionale e non solo. Sotto questo punto di vista, è rilevante l’accordo siglato con Tel Aviv e Bruxelles (giugno 2022) per l’esportazione di gas naturale verso l’Europa. Israele ha due bacini (Leviathan e Tamar) con riserve totali pari a 690 miliardi di metri cubi di gas da sfruttare, che in parte verrà estratto e inviato in Egitto, da dove poi partirà sotto forma di gas naturale liquefatto alla volta del Vecchio Continente. Altresì importanti sono gli accordi bilaterali firmati con l’Italia per la fornitura di 3 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto (14 aprile). Al contempo, il governo egiziano sarebbe in trattative per coperture di simili dimensioni anche con le autorità di Germania e Danimarca. In questa prospettiva, il riscoperto ruolo da protagonista nella fornitura di gas può, quindi, essere una carta spendibile dal governo per calmierare i costi dell’import e contenere gli aumenti dei prezzi rispetto all’inflazione.

Tunisia Lo scenario tunisino presenta molteplici criticità. La dipendenza agricola ed energetica rappresenta una sfida di primaria importanza per la Presidenza di Kais Saied e la stabilità nazionale. Tuttavia, la crisi che ha colpito questi due comparti si aggiunge a una difficile fase di transizione politica che vede tra luglio e dicembre la popolazione tunisina andare al voto in quelli che sono considerati due degli appuntamenti elettorali più importanti dalle Primavere Arabe del 2011. Dal momento in cui Saied è salito al potere (eletto nel 2019), si è aperta una crisi istituzionale che ha visto la Magistratura opporsi al Presidente, accusato di voler mettere in atto una deriva autoritaria e di accentramento dei poteri nella sua persona. Contestualmente, però, il Paese sta attraversando una grave crisi socio-economica, accentuata dalla guerra in Ucraina: il debito pubblico rispetto al PIL si attesta intorno all’82%, l’inflazione a dicembre 2021 aveva raggiunto il 6,6%, la stagnazione del sistema economico ha portato la disoccupazione al 18% (con il dato relativo a quella giovanile superiore al 40%). E ancora: il deficit sfiora il 10% del PIL e il debito pubblico è ai confini dell’insostenibilità (oltre l’80% del PIL). Per rispondere a tali criticità, il Presidente Saied ha chiesto l’intervento del Fondo Monetario Internazionale che, tuttavia, ha chiesto di attuare importanti politiche di austerità per poter dare seguito al prestito da 4 miliardi di dollari richiesto da Tunisi. A questa situazione già estremamente precaria si aggiunge la crisi del comparto alimentare ed energetico, che rappresentano un acceleratore di instabilità decisamente notevole. La Tunisia importa l’84% di grano tenero e il 50% di grano duro e orzo dall’Ucraina, mentre la Russia rappresenta solamente il 4% dell’import di grano. Tuttavia, ad aggravare la situazione, vi è il fatto che la compagnia statale tunisina Cereal Board ha un debito nei confronti degli esportatori ucraini pari a 300 milioni. Il mancato pagamento degli arretrati ha di fatto reso impossibile l’invio dei carichi di grano ucraino verso il Paese nordafricano. Questo elemento ha provocato forti tensioni nella società civile tunisina, che vede diffondersi la cosiddetta “sindrome dell’accaparramento” dei beni alimentari di prima necessità.

Non meno preoccupante è la condizione che vive il comparto energetico. Tunisi produce il 50% del gas e il 30% del petrolio dai propri pozzi, acquistando le restanti percentuali da Paesi stranieri a prezzi di mercato. Tuttavia, l’aumento dei prezzi relativi proprio a gas e petrolio sta impattando fortemente il sistema economico. Il Ministero dell’Energia tunisino ha stimato infatti che i costi relativi all’import energetico raggiungeranno i 4 miliardi di dollari nel 2022 e che gli aumenti del carburante, voluti e centellinati giornalmente dal Presidente Saied, non faranno altro che favorire l’aumento dell’inflazione e il malcontento della popolazione. Nello scenario tunisino, quindi, possiamo affermare che la già pregressa instabilità interna (approfondita da circa un biennio dalla pandemia da Covid-19) è stata incrementata anche dall’impatto della guerra in Ucraina su settori di primaria importanza come appunto quello alimentare ed energetico.

Algeria Lo scenario algerino può essere considerato, sotto un certo punto di vista, relativamente simile a quello tunisino, ma con dimensioni e impatti decisamente più imprevedibili anche in relazione alle dimensioni geo-economiche e strategiche del Paese. La crisi ucraina ha colpito in maniera indiretta il comparto alimentare ed energetico. Algeri importa una quantità di prodotti alimentari molto bassa dai Paesi coinvolti nel conflitto in corso: basti pensare che il principale fornitore è la Francia e solamente lo scorso giugno l’Algeria ha ricevuto un primo carico di grano dalla Russia.

Tuttavia, il sistema economico algerino risente dell’inflazione globale dei prezzi del settore. Anche a causa di una forte siccità che ha colpito il Paese nel 2021 e che ha comportato il crollo della produzione cerealicola nazionale del 38%, il comparto alimentare ha subìto un innalzamento dei prezzi legati alla produzione di beni alimentari come il pane. Proprio quest’ultimo era stato al centro della protesta indetta dalla Fédération Nationale des Boulangers nella seconda metà dello scorso anno. I rincari relativi ai prodotti necessari alla produzione del pane e il ridotto margine di guadagno avevano portato la categoria a innalzare il prezzo dei propri prodotti per far fronte a una situazione insostenibile e che rischiava di lasciare la popolazione algerina senza cibo. Nonostante le proteste, il 6 febbraio Youcef Kalafat, Presidente della Fédération Nationale des Boulangers, aveva rassicurato la stampa algerina affermando che la questione sarebbe stata presa in carico a breve dal governo. Al netto di queste criticità, il governo algerino ha garantito di avere riserve di grano fino alla fine del 2022, grazie all’import di grano francese pari a una cifra tra le 600-700.000 tonnellate (come riportato dall’Office Algérien Interprofessionnel des Céréales), e ha preventivato di aumentare la produzione interna in modo da colmare le perdite dovute alla siccità dello scorso anno.

Il comparto energetico invece risente più sul fronte dell’import: le esportazioni del Paese rappresentano il 94% di quelle totali, ma al tempo stesso Algeri deve importare grandi quantità per far fronte alla crescente domanda interna di elettricità. Ad aggravare il quadro del settore, vi è il fatto che il governo algerino non abbia investito negli anni in infrastrutture, sviluppo ed esplorazione dei propri territori e delle proprie acque territoriali. Ciò si è ripercosso sull’export, che ha visto il volume di affari ridursi continuamente: nel 2007 Algeri esportava 65 miliardi di metri cubi di gas, mentre nel 2020 si è scesi a quota 42 miliardi. Nonostante il Paese sia tornato a essere un hub estremamente appetibile per tutte quelle realtà (in particolare l’Italia) in cerca di diversificazione delle importazioni energetiche, le difficoltà strutturali che l’accompagnano da oltre un decennio rendono l’Algeria un attore esposto all’instabilità. Infatti, va considerato che i ricavi del settore energetico sono stati utilizzati dal governo per poter fronteggiare gli aumenti delle tasse, conseguenti alla pandemia da Covid-19, e mantenere i sussidi statali, in particolare quelli legati alla disoccupazione. Nel momento, quindi, in cui il comparto non riuscirà più a garantire le entrate necessarie per mantenere stabile il contratto sociale algerino, il rischio di escalation potrebbe essere inevitabile. Questi due elementi possono, quindi, essere considerati un driver di tensioni sociali insite da diversi anni nella società algerina, la quale è già stata attraversata nel 2019 dalle proteste guidate dal movimento Hirak che hanno meso fine alla ventennale esperienza dell’ex Presidente Abdelaziz Bouteflika.

Libia Tra gli scenari non esplorati rimane, infine, quello libico, il più imprevedibile e duramente impattato dalla crisi russo-ucraina. Secondo un recente report pubblicato dalla Banca Mondiale, il Paese importa il 90% del suo fabbisogno alimentare in cereali, di cui il 54% del grano, il 62% dell’orzo e il 69% del mais dal bacino del Mar Nero. Questi dati certificano ancora una volta quanto la Libia sia esposta strutturalmente all’insicurezza alimentare, con tassi tra i più alti del panorama regionale (il 37,4% della popolazione). Le fasce più povere faticano ad acquistare beni di prima necessità, complice l’aumento dei prezzi del settore e l’impossibilità di vendere il pane al prezzo calmierato dallo Stato a 0,05 dollari a pagnotta. Una condizione di debolezza che potrebbe approfondire le criticità strutturali causate dalla guerra nel Paese e favorire un nuovo aumento dei flussi migratori verso i Paesi meridionali dell’Europa – e in particolare in direzione Italia. La questione migranti è da tempo un terreno di scontro tra il governo libico, i vari soggetti non statuali sul terreno e le istituzioni italiane ed europee incapaci di cooperare e irreggimentare la gestione del fenomeno. I dati di quest’anno – relativi al periodo 1° gennaio/25 maggio – mostrano come rispetto agli anni precedenti vi sia stato un incremento degli sbarchi sulle coste italiane di oltre 4.000 persone (17.973 nel 2022 contro i 13.765 del 2021), mentre a livello europeo i Paesi dell’area mediterranea hanno visto un incremento degli sbarchi pari a circa 7.000 persone (27.424 nel 2022 contro i 20.532 del 2021).

A gravare su questa tendenza, oltre al peso dell’insicurezza politica e alimentare, incide indubbiamente anche il blocco della produzione petrolifera e gasifera nazionale. Negli ultimi mesi sono stati ordinati blackout controllati fino a 18 ore al giorno per l’impossibilità delle aziende di provvedere al fabbisogno energetico nazionale. Il petrolio, risorsa fondamentale nell’economia libica, non ha svolto nessun ruolo decisivo nell’arginare l’impatto economico della crisi: si stima, infatti, che la Libia abbia perso circa 70 milioni di dollari al giorno a causa delle mancate esportazioni e oltre 400.000 barili di produzione giornaliera. Una condizione, questa, favorita anche dalle lotte intestine che oramai dissanguano il Paese. Benché, il fattore energetico libico possa rappresentare un’alternativa anche immediata e non troppo onerosa in termini di investimenti per sostituire la dipendenza italiana ed europea dal gas russo (nel 2020 circa il 63% del petrolio libico finiva in Europa), in maniera quasi paradossale il Paese non riesce a far fronte neanche alla propria domanda interna di energia, causando molti limiti anche a livello di governance. Il mancato raggiungimento di un accordo sulla redazione di una nuova Costituzione nei round dei colloqui che si sono svolti prima al Cairo a metà maggio e poi a Ginevra a fine giugno non hanno sicuramente favorito alcun passo in avanti verso una transizione pacifica. Inoltre, il recente cambio ai vertici della National Oil Company (NOC), che sembra aver avvicinato tatticamente parte dei due schieramenti rivali (Dbeibah e Haftar), potrebbe trasformarsi in un nuovo terreno di scontro ancor più pericoloso, data l’importanza del comparto energetico all’interno del sistema socio-economico nazionale.

A complicare il tutto, non va dimenticata la presenza russa sul territorio. A partire dal 2019, la compagnia privata paramilitare Wagner, supportata da un altro soggetto operante nel medesimo settore – Rossiskie System Bezopasnosti (RSB) – ha operato apertamente a sostegno dell’LNA guidato da Haftar. La strategia russa di guerra ibrida ha implementato l’uso delle Private Military and Security Companies (PMSC) per aumentare l’influenza del Cremlino in determinate aree geografiche di interesse, senza che il governo sia tuttavia direttamente coinvolto e/o responsabile delle iniziative provocate da suddette compagnie di mercenari. L’ingerenza di Mosca negli affari interni libici (così come quella di altri attori esterni presenti in loco) rappresenta un elemento di criticità che va a complicare il processo di unità nazionale. Il sostegno russo ad Haftar si ripercuote, infatti, sul settore petrolifero, potenzialmente il motore dell’economia libica. Il blocco dei porti e delle infrastrutture per l’estrazione nelle zone orientali, controllate dalle forze del Generale, ha portato a una paralisi economica che affligge l’intero sistema libico. Senza stabilità e continui afflussi di denaro proveniente dal comparto energetico, utili per aiutare la popolazione e dare impulso al settore economico, trovare un accordo tra le parti coinvolte nella lotta per il potere sembra davvero complesso.

Quali prospettive per il Nord Africa? Dall’analisi dei singoli contesti si è evinto che il panorama nordafricano presenta diversità ma anche analogie tra diversi attori. L’impatto della crisi ucraina ha colpito inizialmente il comparto energetico, affliggendo quei Paesi che dipendono in buona parte o totalmente dalle importazioni, come il Marocco, la Tunisia o la Libia – anche se l’ultimo caso è più critico degli altri per via di un conflitto quasi decennale che impedisce lo sfruttamento delle risorse da parte dello Stato. Tuttavia, la questione energetica ha fornito ai Paesi dell’area un’opportunità, in taluni casi, per ribaltare, costruire o ridefinire su nuove basi rapporti diplomatici tattici con realtà più o meno esposte a medesimi problemi. Da questo punto di vista, va sottolineato l’attivismo della politica estera egiziana che ha puntato a sfruttare il fattore gas per elevarsi ad hub di riferimento nelle forniture europee o l’avvicinamento algerino agli interessi italiani – anche a discapito della Spagna nella contesa sul Sahara Occidentale con il Marocco.

Sul fronte alimentare, invece, lo scenario sub-regionale ha mostrato una serie di realtà analoghe e fortemente condizionate dalla crisi ucraina. I Paesi nordafricani dipendono dalle importazioni nel comparto agro-alimentare e, allo stesso tempo, risentono in maniera acuta dell’inflazione dei prezzi del cibo. Va considerato, infatti, che il patto di stabilità sociale di questi Stati è basato anche sulla possibilità del governo di offrire sussidi utili per l’acquisto di beni primari. L’impossibilità di garantire tali sussidi rappresenta una minaccia non solo per il singolo Paese, ma per la sub-regione nella sua interezza: le Primavere Arabe erano scoppiate anche a causa della crisi del pane e dei rincari nel comparto alimentare. Le eventuali proteste che ne potrebbero derivare e la conseguente crisi di governance in tutto il Nord Africa rappresenterebbero uno scenario potenzialmente peggiore di quello attualmente in corso, con impatti più immediati in termini di sicurezza e instabilità – in particolare per quel che riguarda i fenomeni asimmetrici e transnazionali come le migrazioni clandestine verso l’Europa, i traffici illegali (armi, droga e beni di prima necessità) e l’estremismo violento di stampo islamista.

Alla luce di ciò, appare evidente che la crisi ucraina abbia prodotto, seppur in maniera indiretta, una serie di contraccolpi sulla tenuta di un quadrante già fragile al suo interno, con aree differenti e non in grado di assorbire allo stesso modo gli output potenziali del conflitto tra Mosca e Kiev. Altresì si è palesata una condizione latente di debolezza degli attori nordafricani, che sono molto più esposti alle criticità del momento rispetto ad altri Paesi dell’intera area MENA, in quanto attraversati da condizioni di instabilità diffusa e strutturale. Ecco, quindi, che il Nord Africa deve valutare attentamente rischi e prospettive anche sulla base dei legami costruiti con la Russia nell’ultimo decennio, che grazie all’espansione delle sue relazioni (energetiche e militari) ha aumentato peso e leve in tutta l’area. Tutto questo suggerisce l’ipotesi che Mosca stia lavorando per non essere un attore di passaggio nel quadrante e punti invece a preservare e rafforzare la sua presenza nella sub-regione. Di converso, da una prospettiva propriamente nordafricana, sembrerebbe emergere una ricerca importante di asimmetria nelle relazioni diplomatiche rispetto sia alle alleanze o alle partnership tradizionali (specie con USA e UE), sia nei confronti di nuove convergenze di interessi (soprattutto di carattere strategico, energetico e militare) con attori globali come Russia, Cina o India utili a rafforzare lo status di questi Paesi nello scenario internazionale. Pertanto sarà importante che gli attori nordafricani siano in grado di giocare una straordinaria azione di bilanciamento, mediazione e “neutralità” nel tentativo di non venire assorbiti all’interno delle dinamiche del conflitto ucraino.

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