Gli obiettivi statunitensi nell’accordo tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda
Africa

Gli obiettivi statunitensi nell’accordo tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda

Di Martina Battaiotto e Davide Maiello
06.07.2025

In seguito ad un processo di mediazione che ha visto l’impegno diplomatico statunitense, il 27 giugno la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Ruanda hanno firmato a Washington un accordo di pace, con il quale si impegnano a rispettare l’integrità territoriale e la sovranità reciproca, a risolvere pacificamente le controversie e a cessare ogni forma di sostegno ai gruppi armati insurrezionali che imperversano nella cosiddetta Regione dei Laghi. Nonostante il fine esplicitato sia quello di fermare le ostilità nella regione orientale congolese del Kivu, dove il gruppo armato tutsi Mouvement du 23 Mars (M23), da gennaio scorso ha conquistato terreno grazie al fondamentale sostegno militare e politico fornito da Kigali, la firma dell’accordo potrebbe presentare vantaggi strategici di lungo periodo per gli Stati Uniti. Nei mesi precedenti, infatti, su iniziativa del Presidente congolese Félix Antoine Tshilombo Tshisekedi era stato proposto all’Amministrazione statunitense un accesso privilegiato alle risorse minerarie e alle terre rare congolesi in cambio di sostegno militare nel contrasto all’insorgenza nel Kivu, quello che, a tutti gli effetti, ricorda il Memorandum sulle materie prime critiche ucraino-statunitense. Ciò consentirebbe agli Stati Uniti non solo di diversificare ulteriormente il proprio approvvigionamento minerario, affiancando nuove fonti a quelle ottenute grazie all’accordo stipulato con Kiev, ma anche di tentare di riequilibrare la competizione con la Cina, rafforzando la propria presenza in una regione chiave per le filiere strategiche globali. Le difficoltà riscontrate dalla RDC nel mantenere un controllo reale sulle proprie regioni più instabili sono emerse in maniera dirompente tra gennaio e febbraio scorso, quando l’M23, tornato in attività nel 2022 dopo una decennale stagione di dormienza, ha intensificato la propria attività militare riuscendo a conquistare aree dall’alto valore strategico sia nel Nord che nel Sud del Kivu. Tuttavia, rispetto alla prima fase della rivolta del Movimento 23 Marzo, questa volta i ribelli tutsi dispongono di una importante sponda politica, vale a dire l’Alliance Fleuve du Congo (AFC), organizzazione che riunisce tutte le realtà di opposizione al Presidente Tshisekedi.

Attraverso l’M23 e l’AFC e mediante la manipolazione delle fratture socio politiche del Congo, il Ruanda persegue l’obiettivo di mantenere un’influenza diretta sulle regioni orientali congolesi, caratterizzate da un’elevata concentrazione di risorse naturali di valore, tra cui oro, minerali e terre rare. Non è un caso, infatti, che tra le città conquistate nel febbraio scorso vi sia Bukavu, principale polo aurifero del Paese. Inoltre, il controllo che il gruppo armato esercita su numerose miniere del Kivu alimenta una fitta rete di contrabbando minerario, il cui beneficiario principale è il Ruanda, che provvede successivamente alla loro commercializzazione sul mercato internazionale. Per fornire un’idea dell’impatto di questi flussi sommersi, il Ministro delle Finanze congolese ha affermato che il Paese, nel 2023, ha perso quasi un miliardo di dollari a causa delle pratiche illegali ruandesi. Nonostante il ruolo di Kigali sia cruciale per le capacità di M23, possiamo affermare che vi è stata un’incapacità da parte delle forze regolari di contrastare l’offensiva. Le criticità incontrate dall’esercito regolare congolese (FARDC – Forces Armées de la République Démocratique du Congo), derivanti da una preparazione inadeguata e da un basso morale delle truppe, sono state ulteriormente aggravate dal ritiro dei contingenti della Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Congo (MONUSCO–Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la stabilisation en République démocratique du Congo), grazie ai quali M23 fu fermato nel 2013.

Un possibile impegno statunitense nella RDC potrebbe rappresentare per Kinshasa una concreta opportunità per ristabilire il controllo sul proprio territorio. Tuttavia, la narrativa dell’America First che caratterizza l’Amministrazione Trump, strettamente ancorata a un impegno domestico, non si allinea con una prospettiva di impiego dei propri militari in uno Stato estero. È lecito quindi presumere che, se gli Stati Uniti dovessero accettare l’accordo, potrebbero ricorrere all’utilizzo delle Private Military Companies (PMC), soluzione che permetterebbe di fornire supporto militare alle FARDC nel mantenimento dell’integrità territoriale congolese e, allo stesso tempo, di non impiegare direttamente soldati statunitensi, in modo tale da rimanere coerenti all’attuale dottrina presidenziale.

Una simile strategia, basata sull’impiego di compagnie militari private in sostituzione delle Forze armate regolari, è comunque già ampiamente adottata da diversi attori globali nel continente africano, tra cui Pechino, uno dei principali partner economici della RDC. Tuttavia, ci sono due ragioni per cui la RDC ha preferito rivolgersi all’alleato statunitense, nonostante la presenza cinese sia ben radicata nel tessuto minerario congolese.

La Cina, guidata da aspirazioni globali, adotta una politica estremamente pragmatica, stabilendo accordi utili alla soddisfazione dei propri interessi indipendentemente dalla tipologia di leadership con cui si interfaccia. Nel contesto del conflitto con M23, Pechino non fornisce alcun tipo di supporto di sicurezza diretto alle Forze Armate congolesi, né si impegna in programmi di assistenza militare strutturata.

Questo ha presumibilmente condotto il Presidente congolese Tshisekedi a cercare un alleato disposto a prendere posizioni più assertive contro il Ruanda, garantendo allo stesso tempo, un impegno securitario maggiore e più pervasivo, offrendo in cambio accessi privilegiati sui minerali. Tuttavia, non è da escludere che Kinshasa abbia aperto agli Stati Uniti anche nell’ottica di “stimolare” maggiormente Pechino, spingendola ad offrire migliori condizioni per gli accordi minerari o addirittura cercando di innescare una riflessione sull’opportunità di modificare la postura securitaria e militare nel Congo Orientale.

Dal canto loro, gli USA sono verosimilmente mossi dagli interessi economici e tecnologici derivanti dall’abbondanza di materie prime presenti nel Paese centro-africano, risorse necessarie per la transizione energetica e per lo sviluppo di tecnologie dual-use (civili e militari). Con una delle più grandi riserve mondiali di cobalto, litio, uranio, tantalio, tungsteno e stagno, infatti, la RDC occupa un posto centrale nella competizione globale per il controllo delle materie prime critiche, in una fase storica in cui gli Washington cerca di ridurre drasticamente la propria dipendenza dalla Cina lungo l’intera catena di approvvigionamento. L’iniziativa statunitense si inserisce inoltre nel più ampio tentativo di controbilanciare le tattiche cinesi di saturazione del mercato, adottate da Pechino soprattutto per il litio e il nichel. Tali pratiche, basate su una sovrapproduzione sussidiata dallo Stato centrale e sul conseguente abbattimento dei prezzi, hanno avuto l’effetto di far uscire dal mercato numerosi attori concorrenti, rafforzando il dominio cinese sul settore e indebolendo la capacità del blocco euro-atlantico di diversificare le proprie fonti. La RDC, da questo punto di vista, rappresenterebbe una potenziale alternativa, ancora poco integrata nelle catene di valore occidentali, ma ricca di risorse pronte per essere sviluppate.

Tuttavia, tradurre questa visione strategica in realtà operativa non sarà affatto semplice. Pechino, infatti, gode di una presenza profondamente radicata nella RDC, consolidata da anni di investimenti massicci, joint venture con imprese statali locali e contratti minerari spesso siglati in cambio di infrastrutture. Solo nel mercato del cobalto, ad esempio, le imprese cinesi controllano praticamente tutte le principali miniere operative del Paese, in maniera diretta o tramite partecipazioni significative. Pertanto, è lecito credere che simili rapporti di dipendenza economica costruiti da Pechino nell’arco di decenni siano particolarmente difficili da scardinare, soprattutto se si considera la mancanza, da parte statunitense, di un apparato industriale pubblico comparabile a quello cinese. In questo contesto, però, l’apertura di Kinshasa verso una maggiore collaborazione con Washington indicherebbe l’intenzione congolese di diversificare i partner internazionali attivi nel proprio settore estrattivo e, di conseguenza, testimonierebbe un malcontento crescente verso la dipendenza pressoché esclusiva dalla Cina. Non è da escludere che tale orientamento derivi dalla maturata consapevolezza che l’attuale squilibrio nel rapporto con Pechino non ha garantito ricadute strutturali significative in termini di sviluppo industriale, occupazione qualificata o infrastrutture sostenibili ma che, al contrario, ha perpetrato un modello di tipo estrattivista, secondo cui a beneficiare dei profitti derivanti dalle risorse sono state quasi esclusivamente le società estere e non le comunità locali. Da qui la convinzione (o la speranza) che una maggiore pluralità di attori possa tradursi in condizioni contrattuali più favorevoli e in standard operativi più trasparenti. Tuttavia, anche la presenza di compagnie statunitensi nel settore estrattivo africano non è esente da criticità: in passato, diverse imprese americane sono state accusate di eludere le normative ambientali, esercitare pressioni indebite sui Governi locali e perpetuare dinamiche di sfruttamento analoghe a quelle contestate agli attori cinesi. Il rischio, quindi, è che un semplice cambio di partner non modifichi sostanzialmente la struttura diseguale del settore, a meno che non sia accompagnato da un serio impegno per la governance trasparente.