La faida tra Forze Armate e RSF getta il Sudan nel caos
Africa

La faida tra Forze Armate e RSF getta il Sudan nel caos

Di Marco Di Liddo
18.04.2023

A partire dal 15 aprile scorso, le Rapid Support Forces (RSF), unità paramilitare erede delle milizie Janjaweed, hanno lanciato una serie di attacchi coordinati contro obbiettivi istituzionali in numerose città del Sudan, inclusa la capitale Khartum, nel tentativo di prendere il potere attraverso un colpo di Stato. L’obbiettivo principale degli attacchi sono le Forze Armate ed il loro Comandante in Capo, il Generale Abdel Fattah al-Burhan, che contestualmente ricopre la carica di Capo di Stato e di Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, l’organo esecutivo che governa il Paese dal novembre 2019, dopo il colpo di Stato che ha esautorato il Presidente Omar al-Bashir.

Al momento, l’esito dello scontro tra RSF e Forze Armate appare incerto, poiché nessuna delle due è ancora riuscita a stabilire un controllo effettivo e stabile sulle infrastrutture critiche nazionali, sulle sedi istituzionali, sulle principali basi militari e sulle emittenti radiofoniche e televisive. Anche il bilancio delle vittime è difficile da stimare, anche se, ad oggi, alcune fonti sudanesi parlano di oltre 100 morti e centinaia di feriti.

La ribellione delle RSF ed il conflitto con le Forze Armate rischiano di compromettere ulteriormente il già fragile percorso di transizione alla democrazia che il Sudan ha tentato faticosamente di avviare nel 2019, con la destituzione di al-Bashir, ma che non aveva ancora prodotto risultati tangibili. Infatti, da allora, le Forze Armate e le RSF hanno guidato il Paese attraverso una giunta, il Consiglio Sovrano di Transizione, ed hanno hanno puntualmente disatteso gli accordi con le opposizioni civili, guidate dalle Forze per la Libertà ed il Cambiamento (FLC), circa il trasferimento dei poteri ad un governo civile. Nel 2021 un golpe delle Forze Armate, guidate da al-Burhan, ha soffocato la ribellione popolare, mentre nel dicembre 2022, dopo un anno di proteste quasi quotidiane, i militari avevano apparentemente deciso di farsi da parte entro il 6 aprile di quest’anno.

Le difficoltà della transizione sudanese sono molteplici ma orbitano attorno a due problematiche dominanti: il rifiuto dell’apparato militare di abbandonare il proprio ruolo politico a favore del FLC e la conflittualità tra Forze Armate e RSF. A loro volta, entrambe queste dinamiche nascondono la lotta per il controllo delle risorse e del sistema economico sudanese. Infatti, mentre le Forze Armate, attraverso l’articolato conglomerato delle industrie della Difesa e delle loro controllate gestiscono quasi tutto il sistema produttivo e commerciale nazionale (dall’agricoltura all’energia, dall’importazione di beni di consumo alle comunicazioni), le RSF hanno interessi sedimentati nel settore minerario, soprattutto per quanto concerne l’estrazione e la vendita di oro. Di conseguenza, sia le RSF che le Forze Armate, ogni qual volta hanno dovuto negoziare la cessione del potere politico alle opposizioni civili hanno chiesto precise garanzie circa il mantenimento del controllo sui propri assetti economici. Ovviamente, il FLC non ha mai voluto cedere a tali condizioni, perfettamente conscio che non poteva esistere una reale transizione democratiche finché non si fosse instaurato il controllo civile sulla macchina economica nazionale.

Parallelamente, anche i rapporti tra Forze Armate e RSF sono stati conflittuali, poiché i militari, sin dai tempi della caduta di al-Bashir, hanno avuto l’ambizione di assumere il controllo delle miniere d’oro detenute dai miliziani. Tale conflittualità si è tradotta nello scontro diretto tra il Generale al-Burhan e il Generale Mohamed Hamdan Dagalo “Hemeti”, il potente leader delle RSF e vicepresidente del Consiglio Sovrano di Transizione. Hemeti, figlio di commercianti Rizeigat di cammelli, è stato il braccio destro di al-Bashir nonché uno dei maggiori responsabili del genocidio del Darfur e del massacro di Khartoum del 2019. Si tratta di una delle figure egemoni del panorama militare, politico ed economico sudanese, temuto in patria e considerato interlocutore affidabile anche all’estero, soprattutto in Russia e Emirati Arabi Uniti.

In questo contesto, la ribellione delle RSF è stata innescata dalla proposta delle Forze Armate di cedere il potere ai civili, compreso il controllo del conglomerato industriale militare, a condizione di incorporare le milizie e le società da esse controllate. In sintesi, le Forze Armate avrebbero compensato la perdita del controllo sulle industrie con l’acquisizione del controllo delle miniere e con lo scioglimento delle RSF. Mentre Hemeti, pur dichiarandosi favorevole, aveva chiesto un periodo di 10 anni per la realizzazione del progetto, da lui ritenuto sufficiente a sovvertire i rapporti di forza e, di conseguenza, a prendere il controllo della Difesa, al-Burhan aveva proposto una agenda di durata biennale. L’assenza di un compromesso ha inevitabilmente condotto alla ribellione delle RSF che, nonostante il loro status di unità paramilitare, sono una organizzazione di oltre 100.000 uomini, ben radicata sul territorio e ben armata ed equipaggiata.

Sotto il profilo interno, l’incertezza degli sviluppi della ribellione delle RSF deriva sia dal sostanziale equilibrio militare con le Forze Armate sia dal fatto che le opposizioni civili, dai sindacati ai movimenti islamisti, non hanno ancora assunto una posizione netta a favore di uno dei due contendenti. Infatti, dal loro punto di vista, né le Forze Armate né le RSF sono interlocutori legittimi e credibili ed entrambi rappresentano un ostacolo alla transizione democratica. Allo stesso modo, le tante milizie antigovernative su base etnica, riunite sotto l’ombrello del Fronte Rivoluzionario Sudanese (FRS) e attive nelle regioni volatili del Darfur, del Kordofan e del Blue Nile potrebbero indirizzare il corso dello scontro a favore delle Forze Armate qualora decidessero di supportarle contro le RSF. Tuttavia, tale supporto arriverebbe a condizione di importanti concessioni politiche ed economiche, a cominciare dall’autonomia regionale e dalla rinegoziazione della distribuzione degli introiti deviranti dallo sfruttamento delle risorse naturali.

Parallelamente, sotto il profilo internazionale, la lotta di potere sudanese vede il confronto diretto tra Arabia Saudita e Turchia, sostenitori del Generale al-Burhan, e Russia ed Emirati Arabi Uniti, legati al Generale Dagalo per ragioni di interesse economico. Infatti, Dagalo è uno dei maggiori fruitori del cosiddetto “pacchetto Wagner”, vale a dire del sistema di servizi che l’omonima compagnia militare privata russa offre ai leader africani. Nello specifico, il comandante delle RSF ha venduto diritti di sfruttamento di alcune miniere aurifere nel Darfur a società vicine all’oligarca Prigozhin, proprietario del Wagner, ha facilitato l’afflusso di mercenari russi per la protezione dei siti sensibili e il supporto contro le bande armate più pericolose nel Darfur ed ha sottoscritto accordi aggiuntivi per l’acquisto di materiale militare russo. In cambio, il Wagner Group, grazie ai propri contatti con le reti criminali internazionali russe, ha agevolato il contrabbando dell’oro estratto dalle miniere controllate dalle RSF, il cui maggiore acquirente è Abu Dhabi. Come se non bastasse, Dagalo è uno dei principali sostenitori della costruzione della base navale russa a Port Sudan, progetto inizialmente discusso con Mosca ai tempi di al-Bashir ma rallentato da al-Burhan a causa, probabilmente, di forti pressioni statunitensi.

A livello regionale, il confronto tra le Forze Armate e le RSF vede la contrapposizione tra Etiopia e Ciad, vicini a Dagalo, e l’Egitto, sponsor di al-Burhan. Le faglie di polarizzazione degli schieramenti corrono attorno al dossier della Grande Diga del Rinascimento Etiope e ai rispettivi interessi nel dossier della sicurezza idrica lungo il corso del Nilo. Infatti, mentre il Cairo, negli ultimi anni, è riuscito ad ottenere il supporto di Khartoum nel tentativo di rallentare e ridurre i volumi di riempimento della diga, Addis Abeba vanta un rapporto privilegiato con le RSF e spera, in caso di vittoria di Dagalo, in un cambio di postura sudanese. Il Ciad, da parte sua, sostiene il leader delle milizie paramilitari per ragioni di opportunità nel settore minerario: infatti, le tribù nativa di Dagalo è originaria del Ciad e il governo di N’Djamena, che ha già inviato irregolari Rizeigat in territorio sudanese, spera di ottenere in cambio lo sfruttamento di qualche miniera aurifera.

Al momento, nonostante le tante proposte di mediazione internazionale, non si intravedono spiragli di negoziato tra le parti in conflitto. Esiste la concreta possibilità che, almeno in questa prima fase dei combattimenti, le Forze Armate e le RSF cercheranno di prevalere in maniera netta le une sulle altre. Tuttavia, proprio a causa del grande equilibrio tra i contendenti, uno scenario di stallo nel medio periodo non è escludibile a priori. Qualora il campo di battaglia non producesse un vincitore, Forze Armate e RSF potrebbero decidere di percorrere la strada di un compromesso momentaneo, funzionale a mantenere lo status quo e a non favorire il rafforzamento delle opposizioni civili o delle milizie su base etnica del Fronte Rivoluzionario Sudanese.

Un elemento che potrebbe far pendere l’ago della bilancia in una direzione o nell’altra è l’ipotetica crescita del coinvolgimento degli attori esterni. La Russia, il partner più interessato a supportare la vittoria di Degalo, si trova nella difficile situazione di non poter impegnare un volume considerevole di risorse militari a causa del peso del conflitto in Ucraina. Maggiori margini di manovra sembrano essere nelle corde dell’Egitto che, tuttavia, deve considerare i possibili impatti sociali ed economici interni di un coinvolgimento militare in Sudan, soprattutto in un momento di grande vulnerabilità e fragilità come quello attuale.

Il rischio di destabilizzazione profonda di Khartoum riguarda direttamente anche l’Italia e l’Europa. Infatti, il Sudan rappresenta il principale Paese di transito per il flusso migratorio ed il traffico di esseri umani proveniente dall’Africa Orientale e diretto in Europa attraverso la Libia. Inoltre, le RSF sono direttamente immischiate nel controllo dei flussi illegali, cooperando attivamente con i trafficanti locali e con quelli libici. In tale scenario, tanto le Forze Armate quanto le RSF potrebbero utilizzare il “ricatto migratorio” nei confronti dell’Europa, minacciando una intensificazione dei flussi in caso di attività politica europea sfavorevole a uno dei due schieramenti. L’utilizzo del traffico di esseri umani come strumento di “guerra ibrida” non è nuovo nello scenario africano (a riguardo basti pensare alla Libia gheddafiana e post-gheddafiana) e potrebbe condizionare direttamente le scelte dei governi europei nei confronti della crisi sudanese.

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