Ciad e Sudan: due tappe importanti nella proiezione africana di Israele
Medio Oriente e Nord Africa

Ciad e Sudan: due tappe importanti nella proiezione africana di Israele

Di Federica Sandy Curcio
21.02.2023

La recente decisione di siglare un accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Tel Aviv e Khartoum e l’apertura dell’Ambasciata del Ciad in Israele definiscono un importante salto di qualità nella definizione di una proiezione politica africana di Tel Aviv.

Il 2 febbraio, il Ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, ha incontrato nella capitale sudanese il Presidente del Sovrano Consiglio di Transizione (SCT), il Generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan. L’incontro ha offerto l’occasione per discutere di numerose questioni, tra cui la cooperazione in materia di sicurezza e difesa, agricoltura, energia e acqua, ma soprattutto per ufficializzare l’intesa sulla normalizzazione delle relazioni bilaterali rientranti nell’alveo dei noti Accordi di Abramo. Un passaggio a lungo ritardato e a tratti osteggiato – soprattutto sul versante sudanese – a causa della significativa presenza e ruolo giocato da Khartoum al fianco della causa palestinese contro Israele. Tuttavia, la fine del regime ultra-trentennale di Omar al-Bashir (avvenuto nell’aprile 2019) e le innumerevoli pressioni statunitensi sul SCT hanno permesso un cambio di passo nel rapporto tra Sudan e Israele che, nel 2021, ha condotto anche alla firma di una sezione dichiarativa degli Accordi di Abramo. Per il Paese africano, infatti, la normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv porterebbe benefici sostanziali in più settori dove il know-how e le competenze israeliane potrebbero aiutare il governo locale nella gestione dei processi di sostenibilità e sviluppo socio-economico. Inoltre, la cancellazione dalla black list del terrorismo internazionale potrebbe garantirgli nuovi investimenti esteri necessari a sollevare le esanimi casse nazionali sudanesi.

Sempre il 2 febbraio, il Premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ricevuto a Gerusalemme il Presidente ad interim del Ciad, Mahamat Idriss Deby Itno. L’occasione è stata l’inaugurazione dell’Ambasciata del suo Paese in Israele. La restaurazione delle relazioni diplomatiche con il Ciad segue un percorso differente rispetto al Sudan. Tel Aviv e N’Djamena hanno ristabilito i rapporti diplomatici nel 2019, dopo che nel 1972 il Ciad aveva interrotto i legami con Israele a seguito delle forti pressioni della Libia di Muammar Gheddafi volte a rafforzare l’isolamento internazionale dell’epoca del Paese mediorientale dopo la catastrofe araba riportata durante la Guerra dei Sei Giorni (1967). Il riavvicinamento era avvenuto grazie all’apertura verso Israele del vecchio Presidente Idriss Deby Itno con una visita storica a Gerusalemme, nella quale, insieme al Premier israeliano Netanyahu, aveva inaugurato una nuova era di cooperazione. Tuttavia, con la scomparsa dell’ex Presidente ciadiano nel 2021 erano venute a mancare anche le opportunità che si erano create, prima di giungere alla piena svolta arrivata grazie all’intenso lavoro della diplomazia e dell’intelligence dei due Paesi che hanno favorito una definitiva conciliazione.

La costruzione di un piano relazionale israeliano con Ciad e Sudan dimostra, quindi, quanto sia mutato l’interesse di Tel Aviv verso il continente africano. Un approccio fortemente sponsorizzato dallo stesso Netanyahu nel 2016 con un importante viaggio di sistema in Africa Orientale. Oggi come allora, il fulcro nevralgico di quell’azione rimane imperniato sulla sicurezza, declinabile in più aspetti e dimensioni operative.

Guardando all’Africa Orientale, ad esempio, l’area si presenta come quella di maggior interesse nella proiezione continentale di Tel Aviv in virtù della sua grande importanza strategica: infatti la costa africana lungo il Mar Rosso è una zona di fondamentale rilevanza per la salvaguardia delle rotte commerciali. Proteggere il porto di Eilat e l’accesso israeliano alla rotta marittima (e commerciale) del Mar Rosso è un elemento di vitale importanza nella strategia di Tel Aviv in quanto mira a garantire una fascia operativa di sicurezza in chiara funzione di contenimento e deterrenza nei confronti dell’Iran e, più o meno direttamente, anche dei suoi proxy operanti nell’area (come le milizie yemenite di confessione sciita-zaydita houthi e i traffici di armi e droga via mare gestiti da Hamas e Hezbollah). Un’azione, quella israeliana, in parte favorita e sostenuta anche dal supporto diretto di altri attori rivieraschi (tipo Egitto e Arabia Saudita) o da player transregionali con notevoli interessi nell’area (si pensi agli Emirati Arabi Uniti) che condividono convergenti interessi e priorità nell’agenda politica afro-asiatica con Tel Aviv.

Se la sicurezza rimane quindi il driver principale per comprendere l’interesse israeliano verso l’area, tale modello è in parte riscontrabile anche nel Sahel, dove il Paese mediorientale ha mostrato una esigenza strategica nell’impedire l’ampliamento dell’influenza iraniana nella regione. Secondo quanto riferito dal Ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, l’Iran avrebbe guadagnato posizioni tra le milizie d’area grazie al ruolo di Hezbollah nella formazione e nel training dei gruppi jihadisti locali. Tel Aviv, infatti, guarda a N’Djamena con un interesse di carattere innanzitutto securitario: ex partner della Francia nelle missioni anti-terrorismo, il Ciad è un attore centrale nella lotta contro l’insorgenza dei gruppi armati islamisti nella regione e potrebbe essere di grande aiuto a Israele in questo specifico campo di azione. Una dinamica nella quale anche il Sudan può essere importante in virtù della sua peculiare posizione geografica a cavallo tra Sahel e Corno d’Africa.

In questa prospettiva, inoltre, assumono una grande rilevanza le voci di export relative al know-how militare, agli equipaggiamenti ed ai sistemi d’arma. La crescita delle esportazioni nel settore della sicurezza e della difesa, che tra il 2021 e il 2022 ha raggiunto la quota di 728 milioni di dollari, rappresenta anche una reazione dei governi del continente alla crescita del terrorismo islamico nel Corno d’Africa e in Africa Occidentale. Le esportazioni militari includono, tra gli altri, pistole e mortai semoventi, UAV, lanciarazzi multipli, veicoli corazzati, mezzi di pattugliamento e radar. Non a caso, questo tema si lega agli interessi militari: negli ultimi 15 anni, grazie ai contatti in Africa Orientale, Israele ha potuto tracciare i movimenti dei gruppi islamisti nell’area e raccogliere informazioni sulle attività dell’Iran nel contrabbando di armi dirette a gruppi ostili ad Israele, come, appunto, Hamas e Hezbollah.

Tuttavia, gli aspetti di sicurezza israeliana investono anche altre dimensioni (come la sicurezza umana) e trovano applicazioni concrete in altri campi (come la tecnologia). Infatti, grande attenzione viene posta alle attività di cooperazione africane nel campo agricolo, nella misura in cui Israele può rappresentare, non solo per Ciad e Sudan, un partner importante per lo sviluppo di dispositivi volti allo sfruttamento delle risorse idriche, alle modalità di coltivazione e per la costruzione di infrastrutture. Da questo punto di vista, gli interessi dei Paesi del continente sono mossi dai benefici che potrebbero trarre dalla cooperazione con Tel Aviv. Anche da una prospettiva economica e commerciale, l’interesse israeliano è molto marcato. Nell’ultimo decennio, le esportazioni israeliane verso l’Africa hanno subito un rallentamento a causa della pandemia da Covid-19 e di crisi economiche globali, ma tra il 2021 ed il 2022 hanno raggiunto quasi il 5% delle esportazioni totali e sono destinate a crescere.

In questo scenario è chiaro che Israele non può fare a meno di perseguire attivamente i suoi interessi in Africa, ma nel farlo deve considerare i diversi ostacoli cui il Paese deve poter far fronte nella gestione delle relazioni con i governi africani.

In primo luogo, bisogna tener conto del ruolo delle opinioni pubbliche del continente: in particolare in Sudan, le intese con Israele hanno scatenato violente proteste contro le élite accusate di aver tradito i propri principi e valori di fratellanza con il popolo palestinese. Ciò riflette anche una persistente divergenza di opinioni in seno all’Unione Africana (UA) nei confronti di Israele. Infatti, nel febbraio 2022, diversi membri del consesso africano ha proposto e ottenuto la sospensione dello status di osservatore del Paese mediorientale in seno all’UA. Le critiche maggiori sono arrivate principalmente dai Paesi musulmani sostenitori della causa palestinese nel continente o da quelle realtà che mantengono ancora un forte substrato ideologico basato sull’anti-colonialismo. Così, dall’estate del 2022 la partecipazione di Israele nell’organizzazione è oggetto di studio di un comitato che avrebbe dovuto presentare i suoi risultati al vertice dell’UA del 17 febbraio 2023 ad Addis Abeba. Nessuna decisione in tal senso è stata presa, ma in una mossa inaspettata il Vice Direttore per l’Africa del Ministero degli Esteri Sharon Bar-li ed altri membri della delegazione israeliana sono stati espulsi dalla sala conferenze durante la cerimonia di apertura del summit. Si tratta di un incidente diplomatico molto grave che potrebbe mettere in discussione alcuni dei rapporti in essere tra Tel Aviv e il blocco africano.

Altro nodo di particolare interesse riguarda gli aspetti migratori. Tale focus ha assunto i contorni di una vera e propria questione di sicurezza nazionale per Israele: oggi nel Paese vivono più di 30.000 immigrati e richiedenti asilo africani, provenienti in gran parte dal Corno d’Africa, contro cui il governo ha adottato una retorica assertiva favorita da pratiche di esclusione. L’approccio securitario israeliano sembra volto a ridurre gli spazi di ingresso per ragioni demografiche ai migranti e rifugiati provenienti dall’Africa, a partire dalla costruzione (nel 2012) di un muro al confine con l’Egitto volto ad impedire l’ingresso illegale in Israele fino alla più recente politica di rimpatrio incentivata da un compenso economico di 1.000 euro per la scelta volontaria di ritornare nel proprio Paese d’origine, pena la reclusione.

Non per ultimo, la presenza israeliana si potrebbe scontrare con quella di altri attori globali che hanno posizioni più solide nel continente, come quella della Cina che è ormai radicata da decenni, ma anche di attori regionali quali Turchia ed EAU. Ankara, ad esempio, negli ultimi anni è divenuto un player influente nel continente africano dove conta ben 43 Ambasciate ed ha solide relazioni economiche e commerciali. In particolare – in un parallelismo con il caso israeliano – la Turchia mira a rafforzare il suo ruolo nell’area saheliana nel tentativo di colmare il vuoto di potere lasciato dalla Francia dopo la riduzione delle truppe dispiegate nella regione. Anche per Abu Dhabi il quadrante africano rappresenta un interesse strategico centrale, in cui ha esteso la sua influenza principalmente nell’area lungo la costa del Mar Rosso grazie a solide alleanze politiche, accordi militari e marittimi e, naturalmente, cospicui investimenti. Il Corno d’Africa è infatti funzionale a contrastare la crescente influenza dell’Iran nella zona, alla vicinanza al teatro yemenita, ma soprattutto alla garanzia della posizione emiratina come hub logistico regionale vista la interdipendenza dei chokepoint di Bab al-Mandab e dello Stretto di Hormuz.

Pertanto, la gestione dei dossier Sudan e Ciad ha dimostrato una spiccata flessibilità di Tel Aviv nella gestione della propria politica estera in Africa. L’apertura dell’Ambasciata ciadiana in Israele e la definitiva normalizzazione delle relazioni con il Sudan sono due tappe importanti e, per certi versi, inaspettate. Sicuramente manifestano la volontà del neoeletto esecutivo israeliano di voler operare sulla scia degli ultimi anni, ma rappresentano al contempo solo un nuovo inizio di un processo destinato a continuare nel lungo periodo. Sarà curioso, dunque, osservare come nel corso del 2023 Tel Aviv deciderà di recuperare i rapporti israelo-africani per tratteggiare definitivamente gli ambiti e i limiti della sua presenza nel continente.

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