La climate smart agriculture come argine a conflitti e migrazioni forzate
Conflict Prevention

La climate smart agriculture come argine a conflitti e migrazioni forzate

Di Sara Nicoletti
12.08.2019

La Climate Smart Agriculture (CSA), secondo la definizione fornita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Food and Agriculture Organization - FAO), è un approccio volto a trasformare e riorganizzare le attività agricole al fine di garantire uno sviluppo e una sicurezza alimentare resilienti al cambiamento climatico, rispettando le peculiarità economiche e culturali dei mercati locali. La CSA fonda su tre pilastri: aumentare la produzione agricola e il profitto, sviluppare un adattamento produttivo al cambiamento climatico, e, dove possibile, ridurre o eliminare le emissioni di gas serra.

Per fare ciò, le organizzazioni internazionali si impegnano a espandere la base di prove per dimostrare gli effetti del cambiamento climatico in un determinato Paese, supportare politiche strategiche efficaci, migliorare le capacità finanziarie di progetti pubblici e privati, e sviluppare buone pratiche sul campo, tenendo conto delle conoscenze e delle priorità degli agricoltori locali.

Innanzitutto, bisogna chiarire in che misura l’agricoltura tradizionale danneggia l’ambiente. Si stima che essa sia responsabile di circa 3/4 della deforestazione tropicale e del 10-12% delle emissioni antropogeniche globali di gas serra. Bisogna poi distinguere tra due tipi di danno ambientale legati alle foreste: la deforestazione, che consiste nella progressiva riduzione della copertura arborea al di sotto del 10%, e la degradazione forestale, ovvero una graduale riduzione della biomassa di una foresta, che porta a una variazione nella composizione di essa e alla degradazione del suolo, ma non necessariamente a una riduzione dell’area forestale. Nonostante negli ultimi decenni le emissioni di CO2 dovute alla deforestazione siano diminuite, quelle dovute alla degradazione forestale sono aumentate da 0.4 a 1.0 Gt di CO2 l’anno tra il 1990 e il 2015 e la principale causa di questo aumento nelle emissioni è proprio l’agricoltura. Infatti, la degradazione del suolo dovuta alla conversione a lungo termine di praterie e foreste in campi coltivabili, riducendo il carbonio contenuto nel suolo, avvia un processo di desertificazione. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per Combattere la Desertificazione (United Nations Convention to Combat Desertification - UNCCD), essa mette a rischio la vita di 1 miliardo di persone in più di 100 Paesi, causando ogni anno una perdita di 12 milioni di ettari di terra coltivabile, corrispondenti a circa 490 miliardi di dollari di perdita per l’economia globale. Se questo fenomeno non viene arrestato, entro il 2045 si potrebbe avere una riduzione della produzione globale di cibo fino al 12%, con un aumento del prezzo dei generi alimentari fino al 30%.

A fronte di questa crisi globale, l’approccio della CSA comincia a essere utilizzato in maniera sempre più capillare, e la sua promozione avviene specialmente in Africa, dove il 55% del terreno fertile è a rischio desertificazione, e dove una bassa produzione agricola è associata a povertà, insicurezza alimentare e a un impoverimento degli elementi nutritivi. Una scarsa conoscenza e diffusione di tecniche agricole sostenibili porta a un utilizzo sconsiderato di fertilizzante e una scarsissima irrigazione del terreno (solo l’1% dei terreni arabili dell’intero continente è irrigato).

Oltre a diffondere nuove tecniche agroforestali, le organizzazioni internazionali che sostengono la CSA hanno avviato anche ambiziosi progetti a lungo termine. Il più rilevante tra questi è sicuramente la Grande Muraglia Verde dell’Iniziativa per il Sahara e il Sahel (Great Green Wall for the Sahara and Sahel Initiative - GGWSSI), approvato nel 2007 dall’Unione Africana. Questo progetto vede come partecipanti 20 Paesi africani (in un’area geografica che si estende dal Senegal al Djibouti), insieme a organizzazioni internazionali, istituti di ricerca e organizzazioni della società civile. L’obiettivo primario è quello di piantare una fascia di vegetazione di 8000 km che attraversi l’Africa da Ovest a Est, proprio a ridosso del Deserto del Sahara, in un tentativo di arginare il progressivo avanzare della fascia arida. L’ambizione è di recuperare 100 milioni di ettari di suolo degradato, catturando 250 milioni di tonnellate di carbonio e creando 10 milioni di posti di lavoro sostenibili. Al momento, a fronte di una spesa di 8 miliardi di dollari, l’opera è al 15% del completamento, ma sembra che i primi risultati siano già tangibili. In Etiopia sono stati recuperati 15 milioni di ettari, 2000 in Sudan, 25000 in Senegal e 5 milioni in Nigeria, dove sono stati anche creati 20000 posti di lavoro. In Burkina Faso, Mali e Niger sono state coinvolte 120 comunità nella creazione di una cintura verde di più di 2500 ettari. Tuttavia, il progetto si è evoluto dal semplice piantare alberi, che nella zona immediatamente sottostante il Sahara era già stato tentato più volte invano, ad applicare nuove tecniche agricole per proteggere la vegetazione che cresce naturalmente su quei terreni. Questa evoluzione ha permesso al progetto di cominciare a produrre dei risultati: in Niger la rigenerazione del suolo prodotta da questi nuovi sistemi ha permesso l’aumento della produzione di grano di mezzo milione di tonnellate l’anno, producendo un valore stimato di 56 dollari per ettaro, per un totale annuo di 280 milioni di dollari e un beneficio in termini di sicurezza alimentare per 2 milioni e mezzo di persone. In Senegal, l’area recuperata dal degradamento è in fase di conversione in uno spazio dedicato all’ecoturismo, con la speranza di attirare investimenti anche dall’estero.

La Grande Muraglia Verde è diventata anche un simbolo di cooperazione tra i Paesi africani e tra essi e i loro partner occidentali, nonché un elemento importante in un’area fortemente afflitta da conflitti etnico-settari. Il quesito da porsi è come la desertificazione e la siccità possano peggiorare una situazione politicamente già instabile.

Ci si pone questa domanda in particolare per la regione del Sahel, la zona semi-arida tra il deserto del Sahara e la savana sub-Sahariana, fortemente interessata dal cambiamento climatico. Nell’area vivono 309 milioni di persone, di cui circa il 70% in zone rurali e sopravvive grazie all’agricoltura. La degradazione del suolo e la conseguente perdita di terreno coltivabile mette gran parte di queste persone nelle condizioni di dover migrare altrove, entrando in quella categoria che l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) definisce “migranti ambientali”, ovvero coloro che sono costretti a spostarsi a causa di un cambiamento ambientale che ha conseguenze negative sulla loro qualità della vita. Nell’area del Sahel in particolare, un’assenza di vegetazione causa meno pioggia, che è necessaria per le principali colture del luogo, ovvero sorgo, miglio e cotone. La desertificazione potrebbe costringere a una migrazione forzata 135 milioni di persone entro il 2045.

Questi movimenti migratori avvengono solitamente all’interno del continente africano e turbano molti dei delicati equilibri tribali e sociali che caratterizzano l’area. Nello specifico, la competizione per appropriarsi dei terreni coltivabili in costante riduzione diventerebbe ancora più serrata, causando conflitti ed esacerbando ulteriormente le differenze sociali e le difficoltà di accesso alle risorse all’interno della popolazione. In particolare, le tribù di pastori nomadi del Sahel come i Fulani, che per generazioni hanno intrattenuto rapporti virtuosi e pacifici con le comunità agricole sedentarie, sono oggi costrette dalle nuove condizioni climatiche e dei terreni a cambiare le loro rotte di transumanza.

Per secoli, durante la lunga stagione arida, i pastori semi-nomadi del Sahel hanno praticato la transumanza, dirigendosi dalle aree settentrionali a quelle meridionali alla ricerca di nuovi pascoli per i propri armenti. Gli agricoltori locali li accoglievano con riconoscenza, poiché il bestiame fecondava la terra impoverita dopo il raccolto. Anche se pastori ed agricoltori si contendevano le terre fertili, la forza del loro rapporto simbiotico riusciva a contenere lo scoppio di conflitti violenti, anche grazie all’opera di mediazione dei rispettivi leader tribali che, sulla base di accordi consuetudinari, risolvevano le controversie.

Tuttavia, il cambiamento climatico ed il suo impatto sulla disponibilità di risorse naturali e sulla sicurezza alimentare ha inasprito la competizione tra pastori e agricoltori, in un contesto in cui l’aumento demografico ha aumentato la domanda di cibo e contributo ad inasprire la volatilità sociale. La crescita delle tensioni tra classi sociali, spesso segmentate lungo linee di caratterizzazione etnico-religiosa, e la progressiva perdita di efficacia e autorevolezza da parte dei meccanismi tradizionali di risoluzione delle controversie ha inasprito i livelli di violenza, trasformando la competizione in conflitto aperto.

La conflittualità tra pastori e agricoltori è andata progressivamente aumentando nell’ultimo decennio e, ad oggi, causa la morte di decine di migliaia di persone ogni anno. Inoltre, a causa delle difficoltà degli Stati saheliani e delle organizzazioni internazionali nell’offrire o attuare valide soluzioni al problema, la polarizzazione sociale tra pastori e agricoltori va ad ingrandire il bacino potenziale di reclutamento delle organizzazioni jihadiste e di insorgenza. Infatti, in condizioni così estreme, l’estremismo violento si trasforma nell’unica modalità di azione sociale e politica legittima per le categorie più vulnerabili, mentre gli attori armati non-statali vengono percepiti come gli unici attori in grado di tutelare i diritti e soddisfare i bisogni delle classi più deboli e marginalizzate.

Nello scenario saheliano, il conflitto tra pastori semi-nomadi ed agricoltori ha uno dei suoi esempi più drammatici, costituito dal caso dell’etnia Fulani. Questi, un popolo di oltre 20 milioni di persone diffuso in tutta la fascia saheliana, a causa della loro natura nomade e della mancanza di adeguate tutele giuridiche da parte dei governi regionali, hanno da tempo imbracciato modalità violente di azione politica nella loro lotta per l’accesso alle risorse naturali e per la sicurezza alimentare. La loro emarginazione e vulnerabilità economica li ha resi un obbiettivo primario del proselitismo e del reclutamento jihadista. Ad oggi, nel Sahel, i Fulani rappresentano una delle etnie più rappresentate e attive all’interno delle sigle terroristiche riconducibili ad al-Qaeda e allo Stato Islamico (Daesh).

In ogni caso, bisogna essere cauti nel lasciarsi coinvolgere dalla narrativa delle “guerre climatiche”. In aree così complesse, dove fattori politici si intrecciano a fattori culturali, tribali e sociali, oltre che ambientali, il cambiamento climatico si classifica meglio come amplificatore di conflitto che come casus belli vero e proprio.

Nonostante ciò, in società così fortemente dipendenti dall’agricoltura, investire nelle politiche agricole resta un punto chiave per affievolire focolai di conflitti. Per questo è importante continuare a lavorare ed investire non solo sulla GGWSSI, ma anche su progetti collaterali che diano agli agricoltori gli strumenti, le conoscenze e le tecnologie necessarie per garantire tanto la sicurezza alimentare quanto, di conseguenza, una sicurezza nel senso più ampio del termine. In particolare, è necessario promuovere nuovi sistemi di irrigazione e difendere una biodiversità che sia confacente alle esigenze del territorio, coinvolgere la totalità della popolazione civile nelle iniziative agricole, e fornire i mezzi per garantire la sicurezza alimentare anche di fronte a catastrofi naturali e lunghi periodi di siccità, sempre più frequenti nel Sahel.

Perché ciò sia possibile, non solo i governi ma anche gli attori privati devono essere coinvolti nel finanziare e promuovere tali iniziative, diffondendo i benefici di queste pratiche innovative a livello nazionale, locale, ma soprattutto transnazionale. Spesso infatti le migrazioni climatiche legate alla transumanza o alla necessità di nuovi terreni coltivabili coinvolgono aree transfrontaliere, creando disagi ancora maggiori. Avviando delle politiche agricole sostenibili in queste aree sensibili, si può prevedere una notevole diminuzione delle tensioni che le caratterizzano, oltre ad una notevole crescita economica data dall’aumento della produzione agricola e dai nuovi posti di lavoro, con un incremento della dinamicità del quadro economico e sociale di un’area complessa come quella del Sahel.