Il Governo Rouhani alla prova delle proteste popolari
Asia e Pacifico

Il Governo Rouhani alla prova delle proteste popolari

Di Francesca Manenti
28.02.2018

A partire dall’inizio del 2018, il Governo iraniano si trova a gestire una crisi interna che sembra poter colpire il sistema della Repubblica Islamica alle sue radici. Le precarie condizioni in cui continua a versare l’economia del Paese e la conseguente disattesa delle speranze di un miglioramento delle condizioni di vita hanno generato un diffuso malcontento tra la popolazione e stanno esponendo il Presidente Hassan Rouhani alle critiche sia delle opposizioni che del suo stesso elettorato. La ripresa economica, infatti, è sempre stata il cavallo di battaglia di Rouhani, sin dalla sua prima corsa elettorale alla Presidenza della Repubblica nel 2013, ed avrebbe dovuto essere innescata e spinta dell’alleggerimento delle sanzioni internazionali a seguito dell’accordo sul nucleare. Tuttavia, a quasi 3 anni dalla firma e dall’entrata in vigore del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo firmato a Vienna nel luglio 2015 con il gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania), i risultati continuano ad essere insoddisfacenti: con un tasso di disoccupazione attestatosi intorno al 12% (29% il dato della disoccupazione giovanile), un’inflazione al 10% e un aumento sostanziale dei prezzi di beni primari (circa il 40% dei prezzi per riso, uova e pollame), le promesse di Rouhani sono sembrate poco più di un fuoco fatuo.

Il risentimento per il mancato risollevamento economico è stato alla base delle proteste che hanno infiammato il Paese alla fine di dicembre e che hanno interessato a macchia di leopardo sia i più popolosi centri urbani, tra cui la stessa Teheran, sia le piccole città delle province più rurali nell’ovest, nel nord e nel sud del Paese. Iniziate nella città nord-orientale di Mashhad, capoluogo della provincia di Razavi Khorasan, le manifestazioni si sono prolungate per più di 2 settimane e, talvolta, sono degenerate in duri scontri con le Forze di polizia, che hanno causato la morte di 25 persone e l’arresto di circa 3.700 manifestanti. Il comune malcontento per la precaria situazione economica, tuttavia, è stato solo il pungolo iniziale che ha facilitato la discesa in piazza dei contestatori e ha rappresentato lo sfondo generico sul quale si sono innestate rivendicazioni di natura differente. Se le proteste di Mashhad sono state organizzate verosimilmente dagli ambienti ultra-conservatori, che in quest’area possono contare sul network delle scuole religiose e delle organizzazioni che ruotano intorno alla Fondazione che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza (la Astan Quds Razavi), per mettere in difficoltà il governo Rouhani, le manifestazioni successive, al contrario, hanno dato voce a istanze più “progressiste” e, in molti casi, persino “laiciste”.

Innescati dall’euforia per il fermento a Mashhad, i cortei organizzati nelle province occidentali e nelle città hanno portato nelle piazze una diversa motivazione politica e hanno fatto emergere una disaffezione per il sistema della Repubblica Islamica fino a quel momento rimasta sopita. Per la prima volta dal ’79, infatti, l’insoddisfazione della folla è stata rivolta non solo ai poteri eletti, e dunque contro il Presidente Rouhani, ma soprattutto alla Guida Suprema, Ayatollah Ali Khamenei. Inoltre, rispetto al passato e in particolare alla Rivoluzione Verde del 2009, le proteste non hanno avuto un volto riconoscibile e non sono state riconducibili ad una delle tradizionali sensibilità (più o meno riformiste) di cui si compone lo spettro politico iraniano. Al contrario, sembrano essere state la condensazione di un sentimento più generale, che non aveva ancora avuto una finestra di opportunità attraverso la quale manifestarsi, diffuso soprattutto tra le nuove generazioni. La maggior parte dei manifestanti scesi in piazza, infatti, era composta da ragazzi al di sotto dei 25 anni, studenti, che hanno guardato alle proteste come all’occasione per trovare uno spazio di espressione politica generalmente non concesso da un sistema cristallizzato nella dialettica ultraconservatori-pragmatisti com’è quello iraniano. L’incertezza legata alla prospettiva del proprio futuro, da un lato, e l’insofferenza per la rigidità di un apparato ereditato da una Rivoluzione che non solo non hanno vissuto, ma nella quale nemmeno si riconoscono, hanno portato questa nuova generazione a fare un passo in avanti.

In un momento in cui circa il 60% della popolazione ha meno di 35 anni e il 70% è nato comunque dopo la rivoluzione khomeinista, le istanze progressiste di questa nuova generazione rappresentano un dato di fatto di cui la classe politica iraniana sembra cominciare a prendere consapevolezza. All’indomani delle manifestazioni, infatti, sia il fronte conservatore sia il Governo pragmatista hanno cercato di capitalizzare l’impatto mediatico delle proteste per trasformarlo in un importante strumento politico da utilizzare sul piano degli equilibri interni. Se le opposizioni tradizionaliste hanno puntato il dito sulla ferita aperta dell’economia per delegittimare il Governo agli occhi dell’opinione pubblica, in realtà il dossier economico si è rivelato una carta preziosa anche nel mazzo a disposizione di Rouhani. La volontà e la necessità di riformare la gestione delle casse nazionali, infatti, ha portato il Presidente a denunciare pubblicamente l’inefficienza causata dalle proprietà e dalle attività finanziarie di alcune organizzazioni vicine agli ultra-conservatori e, in particolare, alle Guardie della Rivoluzione. Queste ultime, nel corso degli ultimi 30 anni, grazie ad una rete realizzata su proprietà dirette, cooperative affiliate, fondi di sicurezza sociale e compagnie di investimento, hanno di fatto acquisito il pressoché totale controllo di settori strategici per l’economia nazionale, quali le infrastrutture, l’edilizia e le telecomunicazioni. Il potere economico garantito da queste attività è stato uno dei fattori fondamentali alla base dell’influenza costruita dai Pasdaran in questi decenni. La richiesta pubblica di Rouhani di cederle al settore privato sembra rispondere al duplice interesse di stimolare la liberalizzazione del mercato interno e, al contempo, di ridimensionare il potere di un corpo tanto influente come le Guardie della Rivoluzione.

L’affondo nei confronti degli ultraconservatori ha portato il Presidente a avviare una cauta quanto delicata narrativa critica nei confronti di alcuni aspetti del sistema interno giudicati ormai anacronistici rispetto al mutare delle sensibilità e delle esigenze degli Iraniani. La messa in discussione del codice di abbigliamento prescritto dalla Repubblica Islamica (legato soprattutto all’obbligatorietà dell’hijab) e dell’infallibilità di qualsiasi carica religiosa all’interno delle istituzioni sono stati solo gli esempi più lampanti di tale narrativa.

In questo contesto, la gestione dell’attuale crisi interna è destinata a rappresentare il punto più delicato dell’agenda di Rouhani nel prossimo futuro. Il Presidente, infatti, si trova a dover cercare un bilanciamento tra la spinta “progressiva” proveniente dal basso e l’inerzia degli equilibri di potere sul quale da sempre si regge il sistema post-rivoluzione. Per quanto i conservatori abbiano finora accettato di incanalare la dialettica in corso all’interno del dibattito pubblico e di limitarsi ad una critica di natura politica contro l’attuale Governo, un’ulteriore accelerazione delle richieste di “laicizzazione” della società iraniana potrebbe portare gli ultraconservatori a temere l’innesco di un processo incontrollato ed i Pasdaran, per costituzione protettori della Repubblica Islamica, ad intervenire contro l’attuale esecutivo per prendere in mano in modo più saldo le redini del Paese.

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