Elezioni amministrative in Turchia: quali conseguenze per il Paese?
Medio Oriente e Nord Africa

Elezioni amministrative in Turchia: quali conseguenze per il Paese?

Di Angela Ziccardi
03.04.2024

Domenica 31 marzo le elezioni amministrative in Turchia hanno chiamato al voto 61 milioni di cittadini, per eleggere a mandato quinquennale i sindaci di oltre quattromila città e distretti, decine di migliaia di consigli comunali e provinciali, più altre cariche minori locali. Il Partito Popolare Repubblicano (CHP), principale forza d’opposizione del Paese, ha ottenuto complessivamente il 37.74% dei voti contro il 35.49% del Partito di governo Giustizia e Sviluppo (AKP), andato incontro alla peggiore sconfitta dei suoi 22 anni di storia. Oltre a riconfermarsi nelle grandi città del Paese, come Istanbul, Ankara, e Smirne, il CHP ha strappato al partito di Recep Tayyip Erdoğan il controllo di ben 15 province, tra cui Bursa e Sanliurfa, prendendosi fette di elettorato dunque anche in Anatolia, zoccolo duro dell’AKP. Con il voto di domenica, 4/5 dell’economia turca e 2/3 della popolazione del Paese passano a gestione CHP, il migliore risultato elettorale dal 1977. Un esito dalla portata “storica”, che apre a riflessioni sull’impatto che questo cambio elettorale potrà avere sul Paese nel prossimo futuro, in primis sulla reggenza di Erdoğan.

In un discorso tenuto intorno alla mezzanotte del 1 aprile ad Ankara, il Presidente turco ha riconosciuto la sconfitta. Un setback particolarmente pesante considerando che il CHP vince candidandosi senza altri partiti – diversamente dalla strategia, fallimentare, del presentarsi alle scorse elezioni presidenziali di maggio 2023 con gli altri partiti di opposizione nella “coalizione dei 6”. Ma, ancor più, se si guarda agli esiti nelle grandi città, come la capitale Ankara, dove il candidato uscente Mansur Yavas ha stravinto con il 60.35% dei voti, e soprattutto Istanbul, dove Erkem Imamoğlu – anch’esso sindaco in carica – è riuscito a riconfermarsi con il 51.09% dei voti. Due risultati che dimostrano come la leadership carismatica e la personificazione della politica risultino fondamentali in Turchia. In entrambi i casi, ma in particolar modo ad Istanbul, a fare la differenza è stata la popolarità di Imamoğlu, in primis tra i giovani elettori, del nulla scalfita dal candidato dell’AKP Murat Kurum. Ex Ministro dell’Ambiente e dell’Urbanizzazione, questi è stato scelto da Erdoğan con la speranza che la sua competenza in ambito urbanistico e il suo progetto anti-sismico per Istanbul potessero convincere i cittadini della metropoli, preoccupati da ciò che un eventuale – e statisticamente prevedibile – sisma della portata di quello verificatosi nel sud della Turchia nel febbraio 2023 potrebbe comportare per la città. Tuttavia, la blanda campagna elettorale di Kurum – e il suo essersi mosso troppo nell’ombra di Erdoğan – lo hanno portato a essere percepito dalla statura troppo istituzionale e lontano dalla popolazione, mettendo ancor più in luce l’appeal di Imamoğlu come “candidato del popolo”. Su quest’ultimo, a poco è servita anche la condanna a lui inferta per volontà dell’AKP nel 2022 a due anni e sette mesi di carcere, con l’accusa di aver insultato il Consiglio Elettorale Supremo della Turchia, su cui la Corte d’Appello turca non si è ancora pronunciata.

La vittoria di figure carismatiche come Imamoğlu e Yavas apre anche a riflessioni sul deludente risultato del CHP alle scorse presidenziali. Se il tentativo dell’opposizione di presentarsi in una coalizione ampia e sottesamente divisa è risultato fallimentare, anche la candidatura a Presidente dell’ex leader del CHP, Kemal Kilicdaroglu, più anziano e meno credibile dei sindaci di Istanbul e Ankara, ha giocato a sfavore del partito. L’uscita di scena di Kilicdaroglu, sostituito da Özgür Özel nel novembre 2023, ha spianato la strada all’ala più giovane e riformista del partito, che sembra funzionare. Una trasformazione del CHP che potrebbe convogliare proprio ad Imamoğlu, già considerato da molti il leader de facto del partito e prossimo sfidante di Erdoğan alle presidenziali del 2028.

Passando all’AKP, per Erdoğan e il suo partito vi sono diversi livelli di sconfitta. A cominciare da Istanbul, a gestione AKP per 20 anni fino alla vittoria a sorpresa di Imamoğlu nel 2019. Con i suoi 16 milioni di abitanti, Ia metropoli ospita quasi il 20% della popolazione turca e più del 30% della sua produzione economica, ergendosi a vero hub economico commerciale del Paese e il cui controllo risulta dunque cruciale per il governo in carica. Inoltre, proprio come Imamoğlu, anche Erdoğan ha iniziato la sua carriera politica come sindaco di Istanbul nel 1994, consolidando lì la sua figura fino a portarla ai vertici della scena nazionale. La conquista elettorale della metropoli avrebbe costituito per il Presidente una questione personale e, soprattutto, un punto di partenza per consolidare la sua eredità politica. Il famoso detto “chi vince Istanbul, vince la Turchia” avrebbe, nel caso di vittoria AKP, legittimato Erdoğan a utilizzare il consenso elettorale per modificare l’art.101 della Costituzione, rimuovendo il limite di due mandati presidenziali per ricandidarsi nel 2028 a Capo di Stato. Molti osservatori infatti hanno visto la candidatura di Murat Kurum come funzionale a Erdoğan per personificare le elezioni e ergerle a “referendum” sul suo governo e sulla sua persona, portando ad una tacita approvazione di modifiche costituzionali. Un possibile cambiamento che l’esito delle elezioni potrebbe ora mettere in discussione.

Vi sono anche altri “errori” dietro il risultato negativo dell’AKP, e che lo stesso Presidente ha ammesso di dover “correggere”. Primo fra tutti, la gestione economica degli ultimi anni, caratterizzata da politiche monetarie ortodosse che hanno portato ad un inflazione galoppante. Il governo ha cercato di cambiare il paradigma dopo le elezioni del 2023, provando ad alzare i tassi di interesse di oltre 40 punti percentuali e inserire canali di credito relativamente più bassi per rallentare l’impennata dei prezzi. Tuttavia, questi interventi backdoor hanno colpito fortemente il mercato azionario e il costo degli immobili, senza lasciare alcuna alternativa di investimento per proteggere i risparmi dei cittadini. Tra le principali categorie a risentirne, i disoccupati e i pensionati, la cui pensione minima mensile è del 41% inferiore al salario minimo del Paese. Non deve dunque stupire come una buona fetta dei 16 milioni di pensionati turchi, tendenzialmente elettori AKP, abbia deciso di non recarsi alle urne e lanciare così un segnale al governo. In generale, l’affluenza al voto è stata del 78.5%, la più bassa dalle elezioni del 2004. Un altro aspetto importante nella disamina del post-voto per il governo AKP, di cui molti sostenitori hanno preferito boicottare le elezioni come forma di protesta alla situazione economica attuale. A ciò si aggiungono** i ritardi nella ricostruzione post terremoto del febbraio 2023**, altro elemento contradditorio a cui il governo AKP non ha risposto come promesso. Nelle regioni più colpite dal sisma, in molti hanno votato per Erdoğan lo scorso maggio, riponendo fiducia nelle sue promesse di ricostruire rapidamente nuove case e infrastrutture. Tuttavia, a 12 mesi dal sisma, centinaia di migliaia di persone ancora vivono in tende, testimoniando un chiaro fallimento di risposta del governo.

Nonostante gli errori, con l’ammissione delle responsabilità il Presidente è apparso tranquillo, lasciando intendere che, rimanendo in carica fino al 2028, il governo avrà margine di manovra e tempo a sufficienza per risolvere le problematiche emerse. Nel discorso del 1 aprile, Erdoğan ha detto non voler sfiduciare il Ministro delle Finanze Mehmet Simsek, dichiarando che il governo proseguirà il suo programma economico, eviterà passi populisti e si concentrerà sulla riduzione dell’inflazione per riportare il Paese alla normalità. Inoltre, è rilevante considerare che, in concomitanza dello spoglio elettorale, il Presidente ha effettuato diverse telefonate a Capi di Stato all’estero, come il l’ex Premier olandese Mark Rutte per parlare della NATO, e l’iraniano Ibrahim Raisi per discutere di Gaza e sviluppi nella regione. Un segnale netto di come, sulla postura internazionale, Erdoğan voglia lasciar intendere di non essere influenzabile dal voto amministrativo, per perseguire quanto portato avanti fino ad oggi.

Tuttavia, anche la situazione a Gaza e il posizionamento dell’AKP a tal riguardo ha influito sul voto. Tra le soprese di questa tornata elettorale spicca infatti il risultato dello Yeniden Refah Partisi (YRP) – in inglese New Welfare – partito islamista fondato nel 2018, considerato una costola dell’AKP in quanto fondato da precedente seguace di Erdoğan Fatih Erbakan. Di medesima tradizione politico-ideologica dell’AKP, ma più radicale in chiave conservatrice e anti-sionista, lo YRP ha deciso di correre da solo in queste elezioni, per ottenere i voti di protesta di coloro che sono insoddisfatti delle scarse “prestazioni” del partito di Erdoğan e della sua “decadenza morale”, soprattutto per aver mantenuto relazioni economico-commerciali con Israele. Questa scelta è risultata vincente, consegnando a New Welfare il 6% dei voti complessivi – diventando il terzo partito su scala nazionale – e la vittoria in due delle 81 province turche. Un risultato che dimostra come, nonostante l’onda secolare del CHP, l’islamismo non è affatto in declino in Turchia, ma piuttosto si sta dividendo e rimodellando in chiave più restrittiva.

Guardando alla composizione del voto, una nota conclusiva riguarda il filo-curdo Partito Democratico del Popolo (DEM), attualmente la terza forza in parlamento. Anch’esso in coalizione con il CHP nelle presidenziali del 2023, ha invece deciso di correre in autonomia in questa tornata elettorale, rimanendo forte nelle aree a sud-est e vincendo a Diyarbakır. Seppur considerato solitamente uno “swing vote”, questa volta il voto curdo non sembra aver fiaccato il CHP, diversamente da quanto avvenuto con i partiti precedentemente alleati dell’AKP. Ad esempio, se si prende il caso di Istanbul – che ospita quasi 3 milioni di curdi, l’11% degli elettori della metropoli – il partito ha preso solo il 2.12%, facendo propendere i votanti per una scelta più sicura quale il CHP. Piuttosto, il tentativo dell’AKP di spodestare a Van, cittadina del sud-est del Paese, il neoletto sindaco Abdullah Zeydan, dopo sole 36 ore dalla sua legittima elezione con il 55% delle preferenze, testimonia come il DEM continuerebbe ad essere vittima della pratica del kayyum, termine giuridico che sta a indicare un amministratore fiduciario nominato dall’alto a sostituzione di funzionari e/o figure politiche che si oppongono al governo.

In conclusione, come metaforicamente sintetizzato dallo staff di Imamoğlu post-voto, l’esito delle elezioni amministrative in Turchia può essere perfettamente visto come uno “tsunami” per la geografia politica del Paese, con cambiamenti significativi che potrebbero impattare nel breve e nel lungo periodo. In questo scenario, è incisivo constatare come, pur essendo il regime politico turco inquadrato come un autoritarismo competitivo, queste elezioni abbiano dato prova del fatto che il sistema democratico del Paese funziona ancora, seppur con tanti limiti. Nonostante il controllo quasi totale dei media e dei canali di informazione nazionale da parte del governo, spesso condito da minacce di incarcerazioni e intimidazioni nei confronti degli oppositori, il CHP è riuscito a servirsi del poco spazio mediatico riservatogli per portare avanti la sua campagna elettorale con integrità. Inoltre, l’opposizione potrà ora godere di maggiori risorse nelle municipalità per creare delle più grandi organizzazioni mediatiche e operare in maniera corretta e trasparente. L’accettazione della sconfitta da parte di Erdoğan in elezioni, come le amministrative, meno monitorate dall’estero a livello procedurale rispetto alle presidenziali – vista la complessità data dalla suddivisione e diversificazione del voto per municipalità e province – testimonia confronto politico e pluralità nell’esercizio di voto. Una tornata elettorale, dunque, che rivela la resilienza democratica della Turchia e della sua vibrante e politicamente attiva società. Ora sta al CHP saper capitalizzare i risultati elettorali e dare segnali forti e concreti alla popolazione.

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