Siria al voto, ma senza possibilità di cambiamento
Medio Oriente e Nord Africa

Siria al voto, ma senza possibilità di cambiamento

Di Angela Ziccardi
25.05.2021

Il 26 maggio si svolgeranno le elezioni presidenziali in Siria, le prime da quando il Paese ha raggiunto una tregua dopo un sanguinoso decennio di guerra civile. Infatti, le ultime elezioni presidenziali si sono svolte nel 2014, in pieno contesto bellico, dopo che la nuova Costituzione del 2012 ha messo fine alla procedura referendaria attraverso cui veniva simbolicamente approvato il mandato presidenziale, nelle mani della famiglia Assad dagli anni ‘70. Tuttavia, nelle presidenziali del 2014 come nelle parlamentari del 2019, Bashar al-Assad e il partito Baath hanno continuato ad ottenere vittorie schiaccianti, fenomeno che  dovrebbe replicarsi con molta probabilità anche in questa tornata elettorale. Infatti, anche queste consultazioni sono ancora lontane dall’essere libere e inclusive, in quanto non concedono davvero al popolo la possibilità di scegliere dei reali candidati all’infuori del Presidente in carica. Nello specifico, questo voto mira a mostrarsi come l’ennesima manifestazione di lealtà, in cui il regime cerca di esibire solidità e coesione, quanto meno all’interno delle aree direttamente sotto il suo controllo militare, per riacquisire legittimità e credibilità sul piano domestico. Ecco perché sono tanti gli elementi che permettono di etichettare tali elezioni come “di facciata” ed è necessario contestualizzarli per comprendere l’uso strumentale che ne viene fatto da Assad, che necessita della rielezione per presentarsi alla comunità internazionale come democraticamente eletto dal suo popolo.

Una prima criticità è riscontrabile nel processo elettorale stesso, prendendo in analisi tanto il profilo dei candidati quanto quello degli elettori a cui è concesso votare. Infatti, quando il 18 aprile l’Assemblea del Popolo Siriana ha annunciato l’apertura alle iscrizioni per presentare le candidature, un record di 51 cittadini-concorrenti hanno deciso di registrarsi, tra cui 7 donne e un curdo siriano. Tuttavia, da questa lista solo 3 figure sono state definite “legalmente eleggibili” dalla Corte Costituzionale Suprema del Paese: il Presidente uscente Bashar al-Assad; l’ex Ministro degli Affari Parlamentari Abdullah Salloum Abdullah; Mahmoud Ahmad Marie, esponente di un piccolo blocco di opposizione tollerato dal regime. Una scrematura sicuramente prevedibile, se si tengono in considerazione i “requisiti di eleggibilità” previsti dall’attuale Costituzione del Paese, secondo cui gli aspiranti candidati devono ricevere l’appoggio di almeno 35 membri del Parlamento siriano, dove al momento il partito Baath di Assad detiene la maggioranza. Soprattutto, possono presentare domanda soltanto coloro che hanno vissuto continuativamente in Siria negli ultimi 10 anni, criterio che esclude automaticamente i principali esponenti dell’opposizione in esilio, come quelli del Consiglio Nazionale Siriano, coalizione di gruppi di opposizione con sede a Istanbul.

Oltre al pluralismo politico di facciata, va considerato che anche quest’anno, come nel 2014, sarà lecito votare soltanto nelle zone direttamente controllate dal regime, impedendo ai 5 milioni di cittadini che vivono tra il governatorato di Idlib, ultima sacca di resistenza rimasta nelle mani dei ribelli, e la regione a nord-ovest sotto l’influenza turca di recarsi alle urne. Senza dimenticare che al momento in Siria vi sono 6,7 milioni di sfollati interni a cui sarà infattibile votare. Per quanto riguarda invece i rifugiati siriani nel mondo (6,6 milioni), a questi è possibile recarsi alle urne dopo essersi registrati tramite un modulo online, ma secondo alcuni gruppi di attivisti per i diritti civili, come il Syrian Association for Citizens’ Dignity, anche coloro che vorrebbero votare temono la sorveglianza e le rappresaglie da parte del governo, preferendo abbandonare l’idea oppure concedere il proprio ad Assad, come largamente verificatosi anche nel 2014. D’altronde, Freedom House ha documentato che in quella occasione – come nelle scorse elezioni parlamentari del 2019 – il regime ha adottato un vero e proprio metodo di corruzione e coercizione per assicurarsi i voti dei cittadini, fenomeno che potrebbe replicarsi con molta probabilità nei prossimi giorni.

Vista la sproporzionalità numerica non indifferente, l’unica area fuori dal controllo del governo centrale a cui è stato concesso di prendere parte alle elezioni è quella a nord-est, controllata dalle Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda. Difatti, il regime ha chiesto all’amministrazione autonoma delle SDF di installare le urne nelle province orientali, ma questa ha categoricamente rifiutato di acconsentire allo svolgimento di elezioni “scontate”, concedendo, a coloro che lo desidereranno, la possibilità di recarsi nei quartieri di sicurezza controllati dal governo per esprimere il loro voto. Oltre alla non volontà di accondiscendere alle condizioni del regime e di aiutarlo nel realizzare la sua agenda, le autorità curde hanno rigettato il processo elettorale soprattutto per non dissociarsi dalle posizioni degli Stati Uniti, loro principali alleati, che hanno immediatamente condannato le elezioni in quanto “non credibili”.

Come Washington anche una buona fetta della comunità internazionale si è scagliata contro la presunta legittimità delle prossime elezioni siriane, affermando che il processo viola la risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che dovrebbe fungere da apripista ad elezioni libere ed eque. Adottata all’unanimità nel 2015 con l’appoggio della Lega Araba, Unione Europea e Turchia, la risoluzione chiede l’istituzione di un governo transitorio, una nuova Costituzione redatta da un Comitato Costituzionale costituito ad hoc da 150 membri ed elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite. Tuttavia, ad oggi i colloqui di Ginevra non sono mai decollati, lasciando spazio a formule alternative come il processo di Astana. Iniziato nel 2016, tale meccanismo negoziale tra Russia, Turchia e Iran ha inizialmente consentito di ristabilire un canale di dialogo tra regime e opposizione siriana, portando i tre attori esterni a concordare con le parti siriane 4 aree di de-escalation nel 2017, con l’intenzione di facilitare il ripristino dell’ordine tramite i successivi negoziati di Ginevra. Tuttavia, la demarcazione di tali zone di de-escalation ha in realtà portato a una cementazione dell’influenza degli attori esterni in territorio siriano, rendendo maggiormente complesso il raggiungimento di equilibri su scala nazionale e causando un congelamento del conflitto, piuttosto che un arresto definitivo.

Ed è proprio in questo contesto che emerge l’incapacità della comunità internazionale nel produrre risultati concreti,  rendendo in realtà legalmente lecito lo svolgimento della tornata elettorale in quanto garantito dalla Costituzione siriana del 2012, ancora in vigore. Di conseguenza, visto che l’immobilismo dei lavori delle Nazioni Unite gioca implicitamente a favore di Assad, agli attori internazionali non resta che negare il riconoscimento della tornata elettorale, non potendo de facto impedirla. Tra questi, l’unica voce fuori dal coro è quella russa, che ha denunciato le critiche occidentali alle elezioni come “interferenza negli affari interni della Siria”. Posizione, quella del Cremlino, che oltre all’alleanza con il regime damasceno potrebbe essere motivata dall’opportunità di utilizzare il “successo” elettorale di Assad per giustificare non solo l’intervento di Mosca nella guerra civile, servendosi del consenso popolare in chiave strumentale, ma anche per continuare ad usare la posizione di vantaggio russa in Siria come testa di ponte per l’intero Medio Oriente allargato. Difatti, è stato proprio il conflitto siriano a offrire a Mosca il pretesto e l’opportunità per inserirsi nello scacchiere mediorientale, con lo scopo di affermarsi come nuovo attore di rilievo nell’area puntando però al mantenimento dello “status quo” regionale, così da portare avanti interessi economici e securitari con vecchi e nuovi Paesi sensibili ai richiami russi. Motivo che ha spinto Putin a sostenere Assad e a vestire il ruolo di principale mediatore nei negoziati politici, soprattutto all’interno dello stesso processo di Astana.

Vista la generale reazione di condanna, Assad è ben consapevole che le elezioni non comporteranno alcun cambiamento dal punto di vista di considerazione internazionale sul suo conto, né tantomeno causeranno un arresto dei lavori del Comitato Costituzionale a Ginevra. Tuttavia, il processo elettorale serve al Presidente, ora più che mai, per riacquisire sul piano domestico credibilità, minata da molteplici fattori. A cominciare dal ruolo dello Stato Islamico (ISIS), che è ancora ben radicato sul territorio e continua ad attaccare le forze governative e le milizie alleate vicino ad al-Shula, a ovest di Deir ez-Zor e vicino alla strada Deir ez-Zor-Damasco, servendosi di una nuova strategia di infiltrazione nella badiya, la regione desertica della Siria. Di conseguenza, il Presidente ha bisogno della conferma elettorale per dare solidità alla retorica di uomo forte, in grado di servirsi dell’alleato russo per ripristinare la sicurezza nazionale, sconfiggere il terrorismo jihadista e recuperare i territori occupati da esso, nonostante sia altamente improbabile che il governo di Damasco riesca in tale impresa. In aggiunta, vincere le elezioni permetterebbe ad Assad di presentarsi come la guida che porterà la Siria fuori dalla drammatica spirale economico-sociale in corso. Il clima post-guerra e l’arrivo della pandemia da Covid-19 hanno fatto sì che il Paese piombasse in gravissime difficoltà economiche e il Presidente potrebbe sfruttare la rielezione per dimostrare che le sanzioni americane del Caesar Act e quelle europee su figure dell’establishment siriano giochino a discapito della popolazione piuttosto che della sua figura, in quanto disincentivo anche per le aziende estere che intendono impegnarsi nella ricostruzione del Paese. Al contempo, la riconferma di Assad gli permetterà di assumere un atteggiamento muscolare sia nei confronti delle SDF, con le quali recentemente è stato costretto a scendere a compromesso per forniture di petrolio alle zone controllate da Damasco, sia nei confronti dei “nuovi magnati locali” arricchitisi dal contesto bellico, con i quali ha dovuto rafforzare i propri rapporti – essenzialmente clientelari – per rimanere a galla nel critico contesto del Paese.

Infatti, l’eredità siriana che attende Assad è tutt’altro che rosea. Se l’impossibilità di aiuti internazionali per la ricostruzione post-guerra già poneva considerevoli problemi al governo di Damasco, la pandemia da Covid-19 e il crollo del sistema bancario libanese, principale motore di finanziamento del regime siriano, hanno definitivamente portato al collasso l’economia nazionale, causando una svalutazione della lira siriana del 98% rispetto al dollaro sul mercato nero. Ad oggi, il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e i prezzi del cibo sono 33 volte più alti rispetto alla media di cinque anni prima della guerra. Al contempo, l’incapacità del governo centrale di amministrare la totalità dei territori nazionali ha inevitabilmente acuito l’insicurezza ai valichi di frontiera, dove è stato messo in piedi un sistema capillare di oligopolio di traffico illecito di merci, con contrabbandieri locali a gestire i “costi di transazione”. Ancora più tetro appare il quadro umanitario, fotografia di 10 anni di guerra civile ha cha comportato la morte di 387.000 persone (di cui 12.000 bambini) e 200.000 scomparsi. Senza dimenticare che i combattimenti non si sono mai arrestati del tutto, soprattutto attorno alla regione di Idlib, dove Turchia e Russia continuano a fronteggiarsi per rivendicare maggior influenza.

In conclusione, la panoramica di elementi soprammenzionati dimostra come il popolo siriano si stia apprestando ad elezioni dall’esito già scritto, dove il processo partecipativo risulta controllato e manipolato e, conseguentemente, svuotato di valore decisionale. L’esclusione dei cittadini siriani è evidente tanto in termini di partecipazione passiva come candidati quanto in quella attiva come elettori, motivo che ha spinto immediatamente la comunità internazionale ad assumere posizioni di condanna. Nonostante ciò, Bashar al-Assad ha bisogno della “riconferma del popolo” per ripristinare la propria postura in ambito interno, così da cercare di riappropriarsi di credibilità al cospetto della nuova élite siriana, dare nuovo impulso all’economia e usare il pugno duro contro ISIS. Tutte condizioni che, tuttavia, il Presidente ha già largamente avuto modo di affrontare con scarsi risultati, dimostrazione di come la sua ennesima rielezione non porterà a nulla di nuovo nel panorama siriano, se non a plausibili peggioramenti delle condizioni di vita dei cittadini e più in definitiva al classico stallo politico su qualsiasi tentativo – anche minimo – di trasformazione dello status quo.

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