La Siria un anno dopo la caduta di Assad: tra fragile transizione politica e nuove ambizioni internazionali
Medio Oriente e Nord Africa

La Siria un anno dopo la caduta di Assad: tra fragile transizione politica e nuove ambizioni internazionali

Di Alice Balan
09.12.2025

L’8 dicembre 2024 in Siria le milizie jihadiste antigovernative prendevano il controllo di Damasco e costringevano Bashar al-Assad a fuggire a Mosca, ponendo fine a oltre mezzo secolo di dominio della sua famiglia e del partito Ba’th. L’improvvisa caduta del regime veniva colta con entusiasmo e gioia da milioni di siriani (molti dei quali avevano lasciato il Paese per fuggire alla repressione del regime e alla guerra civile) e ha segnato uno spartiacque storico per il Paese e per l’intera regione mediorientale. A un anno di distanza, la Siria sembra in procinto di uscire dal suo isolamento diplomatico, ma rimane impegnata in una difficile transizione politica e un lento processo di ricostruzione.

L’offensiva decisiva era iniziata il 27 novembre 2024, quando una coalizione di ribelli guidata da Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) e affiancata dalle milizie filoturche dell’Esercito Nazionale Siriano ha lanciato due operazioni congiunte su vasta scala. Nel governatorato di Idlib, un attacco a sorpresa ha provocato la rapida ritirata delle forze lealiste; tre giorni dopo, HTS ha preso Aleppo, il secondo centro urbano per popolazione e prosperità. L’avanzata è poi proseguita verso nord-est, con la conquista della base di Kuwayris e il raggiungimento dell’Eufrate, e verso sud, con la presa di Hama e Homs. Parallelamente, nella provincia meridionale di Daraa, nuove insurrezioni hanno spinto ulteriormente verso la capitale.

Di fronte alla dissoluzione dell’esercito regolare, Assad ha lasciato il Paese nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, mentre la leadership del Ba’th sospendeva ogni attività, avviando di fatto la fine dell’ex partito di regime. Il collasso dell’apparato di sicurezza ha evidenziato fragilità interne già profonde, aggravate dal contesto regionale: i principali alleati sciiti di Damasco, Hezbollah e Iran, erano infatti concentrati sul confronto con Israele e non hanno fornito un sostegno decisivo.

Alla guida del nuovo governo provvisorio si trova Ahmed al-Sharaa, leader della coalizione di opposizione, che oggi tenta di ricostruire la Siria in un quadro segnato da forti divisioni interne, sfide istituzionali e ambiziose aspettative internazionali. La prima grande sfida riguarda la ricostruzione dell’economia nazionale: il PIL siriano ha subito una forte contrazione negli ultimi anni, passando da 37,1 miliardi di dollari nel 2022 a 29,3 miliardi nel 2024. La principale vittoria diplomatica ottenuta da al-Sharaa è stata la rimozione delle sanzioni internazionali da parte di Stati Uniti e ONU. Sebbene alcune misure del Caesar Act restino ancora in vigore (tra cui quelle contro individui legati al precedente regime e le transazioni con Russia e Iran), si tratta di un passaggio cruciale per la reintegrazione della Siria nel sistema economico internazionale. Ciò nonostante, l’eliminazione delle sanzioni da sola non basterà a risollevare il Paese: senza riforme strutturali, si rischia di mettere in luce la fragilità del sistema siriano. Resta centrale il tema della fiducia nelle istituzioni, ancora minata da limitata trasparenza, diffusa corruzione e imprevedibilità delle procedure economico-finanziarie. A ciò si aggiunge la questione energetica: con la caduta di Assad e del ritiro dei pasdaran, l’Iran ha bloccato l’invio di greggio in Siria, causando lo scorso inverno la chiusura temporanea della raffineria di Baniyas, la più grande del Paese levantino. Pur riattivata alcune settimane più tardi, oggi la raffineria opera a capacità ridotta (circa 95 mila barili al giorno). Il ministro dell’Energia siriano ha annunciato la costruzione di una nuova raffineria da 150 mila barili al giorno, ma persistono dubbi sulla sostenibilità finanziaria del progetto. Un’altra sfida cruciale è legata alla sicurezza interna e alla riforma del settore. Il regime di Assad aveva costruito il proprio potere su una rete di fedeltà familiari e sull’élite alauita, esercitando il controllo tramite un apparato repressivo capillare e opaco. Sebbene la nuova amministrazione abbia promesso di smantellare tale apparato, la sfida più profonda riguarda cambiare una cultura istituzionale segnata da settarismo, impunità e corruzione. Si tratta di un obiettivo non solo tecnico, ma politico e vitale per la sopravvivenza del nuovo esecutivo.

Sul fronte interno, molte delle promesse di inclusione restano ancora incompiute. Le minoranze continuano a sentirsi escluse dal processo decisionale e nutrono timori verso la nuova leadership. A marzo si sono verificati massacri indiscriminati contro la comunità alauita, ancora associata ad Assad e radicata principalmente lungo la costa tra Latakia e Baniyas. Successivamente, è stata la minoranza drusa nella zona di Suwayda ad essere oggetto di violenze, provocando la reazione di Israele, il quale si è auto-proclamato protettore dei drusi. Rimane infine aperta la questione curda, centrale per la stabilità interna e per gli equilibri con la Turchia.

È dunque fondamentale ricomporre il Paese non solo dal punto di vista meramente geografico, ma anche identitario. L’approvazione della Costituzione a marzo, che resterà in vigore per un periodo di transizione di cinque anni, assicura garanzie formali a donne e minoranze. Allo stesso modo, le elezioni per il nuovo parlamento, svoltesi in autunno tra speranze e disillusione, assicuravano spazio per tutti i gruppi: difficile però immaginare in che modo, dato che la metà dei seggi è stata nominata da al-Sharaa. La costruzione di uno Stato percepito come equo da tutte le comunità appare un traguardo ancora distante, mentre il contesto interno non consente di escludere tratti autoritari nella nuova leadership. Lo stesso nuovo potere rischia, inoltre, di essere spinto ai margini dagli elementi più radicali che lo compongono.

Sul piano internazionale, Iran e Russia, storici alleati di Damasco, non hanno fornito un supporto politico o militare per salvare il regime di Assad, impegnate entrambe su altri frangenti (guerra in Ucraina, conflitto con Israele e supporto ad Hezbollah). Se con Teheran i rapporti appaiono molto lontani dall’essere ristabiliti, vari contatti si sono verificati con la Russia, incluso un incontro a Mosca tra al-Sharaa e Putin. Oltre al ruolo miliare, Mosca resta un attore cruciale per la sicurezza alimentare della Siria: in passato copriva quasi interamente il suo deficit di grano. Oggi, mentre Damasco affronta una delle peggiori carestie dal 1956, il nuovo esecutivo siriano tenta di colmare il vuoto importando grano da Romania e Bulgaria, benché queste fonti rimangano ancora limitate.

La Turchia emerge, con ogni probabilità, come il principale alleato regionale di Damasco. Ankara intrattiene da tempo relazioni consolidate con HTS e mantiene truppe nell’area di Idlib. I suoi interessi principali riguardano la sicurezza dei confini e la questione curda. Una stabilizzazione di Damasco permetterebbe alla Turchia il rimpatrio di una parte dei 3,6 milioni di rifugiati siriani presenti nel suo territorio. La presenza delle Unità di Protezione Popolare (YPG), affiliate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), resta un nodo centrale per la strategia turca, visto che Ankara considera i due gruppi organicamente legati e aderenti allo stesso separatismo etno-nazionalista. A ottobre 2025 è stato raggiunto un accordo che prevede, da un lato, la fornitura di armi turche all’esercito siriano e, dall’altro, l’autorizzazione per la Turchia a colpire obiettivi curdi fino a 30 km oltre il confine.
La Siria si destreggia inoltre in buoni rapporti di vicinato con Libano, Iraq e Giordania, mentre restano tesi quelli con Israele. Nonostante Tel Aviv avesse accolto con cauta soddisfazione la caduta di Assad, nell’ultimo anno ha continuato a bombardare in territorio siriano e ad avanzare rispetto alle aree occupate nel Golan. Israele, che in Siria adotta ormai una linea d’azione simile a quella impiegata in Libano e insiste per la creazione di una zona cuscinetto, percepisce il cambio di regime come una nuova minaccia. In particolare, Tel Aviv starebbe bombardando siti collegati a Hezbollah per impedirgli di ricostruire il proprio arsenale, temendo al contempo possibili infiltrazioni jihadiste provenienti dal territorio siriano. Questa postura regionale preoccupa al-Sharaa, che tenta una coesistenza al momento faticosa e vigilata sotto protezione statunitense. Donald Trump ha infatti invitato Israele a preservare il dialogo con la Siria, sostenendo che nulla dovrebbe ostacolare l’evoluzione della stessa in uno Stato prospero.

Proprio con gli Stati Uniti si è verificata una svolta inattesa nel riposizionamento di alleanze internazionali. Dopo la visita del Presidente siriano alla Casa Bianca del 10 novembre 2025, a seguito della quale sono state sospese le sanzioni per 180 giorni, al-Sharaa è apparso immediatamente come il nuovo protetto di Trump: fino a pochi mesi fa era considerato dagli USA un pericoloso terrorista, sul quale pendeva una taglia di dieci milioni di dollari.

Il riavvicinamento agli USA è sostenuto anche dalle monarchie arabe del Golfo, attori centrali negli investimenti per la ricostruzione del Paese, che secondo la Banca Mondiale necessita di oltre 90 miliardi di dollari per la riparazione soltanto dei danni fisici della guerra siriana.

Le nuove autorità stanno quindi cercando di muoversi con cautela e abilità tra Stati Uniti, Russia e Turchia, ma l’inesperienza del governo pone interrogativi sulla sostenibilità di questa strategia. Rimane da capire quanto a lungo la Siria potrà “giocare su più tavoli” prima di essere costretta a scegliere un orientamento geopolitico più netto. A un anno dalla caduta del regime di Bashar al-Assad, la Siria vive in un fragile equilibrio tra opportunità e incertezza. La fine del vecchio apparato di potere ha aperto spazi politici inediti, ma ha anche messo in luce la debolezza strutturale del Paese, segnato da istituzioni fragili, ferite settarie ancora aperte, un’economia allo stremo, una povertà diffusa (oltre il 90% della popolazione) e l’assenza di un consenso minimo tra le diverse comunità. Nel prossimo futuro, la sopravvivenza del nuovo governo dipenderà dalla capacità di trasformare la vittoria militare in un progetto politico condiviso, costruendo un patto realmente inclusivo con minoranze, gruppi locali e società civile, ponendo la sicurezza e la riforma istituzionale al centro per evitare la ricomparsa di milizie e zone franche, e stabilizzando al contempo le relazioni internazionali per impedire che la Siria diventi nuovamente terreno di competizione tra potenze rivali.

La vera sfida di al-Sharaa sarà dimostrare che la Siria può emanciparsi dall’eredità di autoritarismo e guerra civile senza precipitare in nuove dipendenze esterne o derive identitarie escludenti. La transizione rimane fragile e piena di ambiguità, ma esiste una finestra di opportunità: il suo successo dipenderà dalla capacità della leadership siriana di trasformare questo primo anno di rottura in un percorso credibile di ricostruzione politica e sociale, prima ancora che economica.

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