L’impatto delle crisi in Asia meridionale sulla strategia regionale della Cina
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L’impatto delle crisi in Asia meridionale sulla strategia regionale della Cina

Di Tiziano Marino
02.08.2022

Il deterioramento del contesto economico in Asia meridionale, innescato dalla pandemia e aggravato dal protrarsi della guerra in Ucraina, minaccia di destabilizzare una serie di attori chiave su cui la Cina ha imperniato la propria strategia regionale. Squilibri economici simili a quelli che hanno contribuito alla caduta di importanti interlocutori di Pechino come i fratelli Rajapaksa in Sri Lanka e Imran Khan in Pakistan, sono riscontrabili anche in altri contesti sui quali si è concentrata l’azione cinese in anni recenti come Bangladesh, Nepal e Maldive. La portata delle crisi in corso nella regione rischia di ritardare lo sviluppo dei progetti infrastrutturali finanziati da Pechino nell’ambito della Belt and Road Initiative (BRI) e posticipare il conseguimento degli obiettivi politici e strategici ad essi legati. Ciò potrebbe indurre la leadership cinese a ricalibrare la propria azione al fine di adattarla alle sfide e alle opportunità offerte dal nuovo contesto con conseguenze rilevanti sugli equilibri complessivi non solo regionali, ma di tutto l’Indo-Pacifico.

La presenza economica e politica della Cina in Asia meridionale è cresciuta parallelamente allo sviluppo delle due dimensioni, una terreste e l’altra marittima, della BRI. Un ruolo fondamentale in questo processo è stato riservato al Pakistan dove è in via di realizzazione il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), fiore all’occhiello della strategia cinese nella regione. Data la rilevanza strategica del CPEC, finalizzato a collegare attraverso una rete di infrastrutture per la mobilità ed energetiche lo Xinjiang al mar Arabico passando per il porto pakistano di Gwadar, il Presidente cinese Xi Jinping ha innalzato negli anni l’investimento dai 45 miliardi di dollari previsti a oltre 62. Utile alla Cina per tagliare di oltre 12,000 chilometri la rotta dalle navi provenienti dal Medio Oriente e dirette nei porti del Mar cinese meridionale, il CPEC doveva contribuire a rafforzare l’economia del Pakistan e a renderlo un esportatore netto. Tuttavia, a poco meno di dieci anni dal lancio del progetto, la Repubblica Islamica vive una delle peggiori crisi economiche della sua storia recente ed è stata costretta a ricorrere al sostegno del Fondo Monetario Internazionale (FMI) per evitare il default. Complice l’incremento dei prezzi delle materie prime energetiche, il deficit commerciale pakistano si è attestato a circa 48,65 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2021-2022 e le riserve valutarie garantiscono poco più di due mesi di importazioni. In questo contesto, Pechino è venuta in soccorso di Islamabad, di cui è principale creditore, con un prestito di circa 2,5 miliardi di dollari. Tuttavia, il sostegno internazionale non risolve i problemi strutturali legati all’inefficienza dell’apparato statale e alla corruzione dilagante che rendono complessa l’uscita dalla crisi. A complicare il quadro, si aggiunge l’aspro scontro istituzionale in corso tra il governo di Nawaz Sharif, Primo Ministro all’epoca dell’entrata del Paese nella BRI, e le opposizioni guidate da Khan, il cui rapporto con Pechino è stato negli anni altalenante. Per la Cina l’instabilità del Pakistan rappresenta un fattore di preoccupazione anche alla luce della presenza di gruppi armati che minacciano la sicurezza del Paese e dell’intera regione.

Nei primi mesi del 2022, con l’aggravarsi della crisi socioeconomica, si è registrata una recrudescenza dell’attività terroristica dei Talebani pakistani (Tehrik-e Taliban Pakistan - TTP) e dei movimenti indipendentisti attivi nelle province meridionali del Balochistan e del Sindh. Proprio nel sud del Paese, dove sono affluiti buona parte degli investimenti di Pechino, un attentato dinamitardo rivendicato dal Baloch Liberation Army (BLA) lo scorso aprile ha causato la morte di tre cittadini cinesi. L’escalation di violenza nel Paese sembra essere stata favorita dal temporaneo allineamento tattico tra BLA, TTP e Daesh. In questo quadro, gli investimenti e i progetti di Pechino non riescono a generare il rendimento atteso in termini politici ed economici. Ciò potrebbe indurre la Cina a ripensare la sua strategia per il Pakistan incrementando sostegno e presenza, non solo economica ma anche politica e di sicurezza, o scegliendo di ridimensionare il proprio impegno nell’attesa che si diradi la nebbia dell’instabilità.

Criticità simili si registrano in altri due contesti in cui il processo di penetrazione di Pechino ha dovuto sfidare la presenza indiana, ossia il Bangladesh e il Nepal. Il Paese guidato da Sheikh Hasina, dopo aver formalizzato l’adesione alla BRI nel 2016, si è imposto come secondo beneficiario di prestiti cinesi in Asia meridionale dietro il Pakistan. In sintonia con quanto avvenuto in altri contesti, gli investimenti in Bangladesh si sono concentrati sulle città portuali come Chittagong, dove è in via di realizzazione il tunnel sottomarino Bangabandhu, e sui collegamenti tra la costa bangladese e il confine con la Cina. La strategia cinese, infatti, si compone di due fasi ed è ispirata dalla ricerca di una soluzione al cosiddetto “dilemma di Malacca”, stretto che sfugge al controllo di Pechino ma da cui transita circa il 60 per cento dei suoi commerci e oltre il 70 per cento delle importazioni di petrolio e gas liquido. Obiettivo della Cina è quello di poter utilizzare i porti di Bangladesh e Myanmar che si affacciano sul Golfo del Bengala per poi realizzare le infrastrutture terrestri che consentano alle merci di raggiungere la Repubblica Popolare. Così facendo, la Cina non solo espanderebbe la sua influenza nella regione, ma si garantirebbe da eventuali blocchi, accidentali o meno, di Malacca. La crisi economica in corso in Bangladesh, grave al punto da spingere le autorità bangladesi ad appellarsi al FMI per evitare il collasso, si inserisce in questo contesto e pone sfide simili a quelle derivanti dal contesto pakistano. L’eventuale malcontento sociale innescato dai tagli della spesa pubblica potrebbe indebolire la leadership di Hasina, interlocutrice importante di Pechino. Inoltre, un deterioramento strutturale dell’economia di Dacca impatterebbe sui tassi di interesse dei prestiti cinesi con conseguente rallentamento nello sviluppo dei progetti inerenti alla BRI.

Medesime vulnerabilità economiche affliggono anche il Nepal, attore centrale nella strategia cinese di contrasto dell’influenza regionale di India e Stati Uniti. A tal proposito, Kathmandu è stata, nei primi mesi dell’anno, teatro di proteste dei militanti comunisti contrari alla realizzazione di un progetto finanziato dall’agenzia per lo sviluppo americana Millennium Challenge Corporation e ritenuto parte della strategia di Washington per l’Indo-Pacifico. L’opposizione alle ingerenze estere non rappresenta una novità nel Paese himalayano la cui instabilità strutturale, destinata a perdurare a causa delle condizioni economiche critiche, è spesso legata a pressioni esterne. Viste dalla prospettiva cinese, instabilità politica e debolezza economica del Paese potrebbero indebolire il governo del Primo Ministro Sher Bahadur Deuba considerato un ostacolo al pieno inserimento del Nepal nella BRI. In questo contesto, Pechino potrebbe scegliere di temporeggiare nell’attesa che la crisi dispieghi i suoi effetti e rilanci i partiti comunisti tradizionalmente più predisposti alla collaborazione.

Non meno complessa per la Cina si presenta la situazione nell’Oceano Indiano dove, alla crisi economica e istituzionale dello Sri Lanka, potrebbe aggiungersi quella delle Maldive. I due Stati insulari, strumentali alla realizzazione della dimensione marittima della BRI e pienamente inseriti nella strategia navale cinese di protezione delle linee di comunicazione “Near Seas Defense and Far Seas Protection”, hanno risposto negli anni in maniera diametralmente opposta alle sollecitazioni di Pechino. Mente i Rajapaksa, infatti, hanno favorito la penetrazione cinese nell’economia dello Sri Lanka, le Maldive, fatta eccezione per la parentesi di governo del Presidente Abdulla Yameen, hanno mostrato scarso interesse nei progetti di Pechino. In questo quadro, la crisi economica, dovuta essenzialmente al blocco del turismo cruciale per Malé, minaccia di rilanciare lo stesso Yameen artefice dell’adesione dell’isola alla BRI. In questo quadro, mentre in Sri Lanka la Cina deve decidere come agire per difendere i propri interessi ora che sembra conclusa l’era Rajapaksa, nel caso delle Maldive, tradizionale giardino di casa di Delhi, l’atteggiamento potrebbe essere più cauto e mirato a comprendere l’evoluzione della crisi.

A oggi la Cina ha mostrato una bassa reattività di fronte alle crisi in corso in Asia meridionale. Ciò è dovuto, oltreché alla tradizionale cautela, alla necessità di focalizzare l’attenzione su questioni “esistenziali” come il rallentamento dell’economia domestica e le tensioni relative a Taiwan. Tuttavia, in una fase di rapido mutamento degli equilibri internazionali le crisi regionali assumono presto rilevanza globale soprattutto se relative all’Indo-Pacifico, regione divenuta prioritaria per tutti i grandi attori globali. Letta in quest’ottica, l’apparente distrazione cinese non sembra destinata a durare e Pechino potrebbe decidere di ricalibrare la sua strategia per l’Asia meridionale già dopo il Congresso del Partito del prossimo autunno, che dovrebbe spianare la strada al terzo mandato di Xi e al rinnovo dell’apparato diplomatico. La scelta per Pechino dovrebbe essere tra il rilancio dell’azione politico-economica anche in contesti fragili ma strategicamente rilevanti, al fine di sfruttarne le debolezze e determinarne la traiettoria, o il “disimpegno selettivo”, che prevede di evitare investimenti in Stati con problemi strutturali tali da impedire un ritorno in termini politici ed economici. Scelte non semplici quelle che attendono Pechino in grado di produrre effetti ben oltre l’Asia meridionale.

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