Le prospettive delle fasi due e tre della guerra israeliana contro Hamas
Medio Oriente e Nord Africa

Le prospettive delle fasi due e tre della guerra israeliana contro Hamas

Di Sara Isabella Leykin
31.10.2023

Tra le notti del 27 e del 30 ottobre, l’esercito israeliano è entrato con la fanteria nel Nord della Striscia di Gaza, dando inizio alle tanto attese operazioni di terra. Dopo, più di venti giorni dal 7 ottobre, Israele ha, quindi, dato il via alle fasi successive della sua guerra contro Hamas, con l’obiettivo, reiterato dal Premier Benjamin Netanyahu, di distruggere le capacità governative e militari del gruppo palestinese e di riportare i 239 ostaggi a casa. Con questa serie di azioni, le truppe israeliane hanno dato forma non solo a quell’“attacco su larga scala” più volte annunciato, ma hanno anche chiarito il contesto delle operazioni cinetiche, accerchiando Gaza City e prendendo il controllo di buona parte della area settentrionale dell’enclave palestinese. Mentre l’offensiva avanza, la popolazione di Gaza continua a subire importanti violazioni del diritto umanitario, accendendo l’intera regione. In questo contesto, la possibilità che il conflitto si allarghi si fa sempre più reale , coinvolgendo direttamente la Cisgiordania, da tempo attenzionata dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per l’emergere di più minacce simultanee e non tradizionali provenienti da gruppi differenti e non necessariamente affiliati, localizzati nelle aree nord della zona (in particolare tra Jenin, Nablus e Tulkarem).

Al centro dell’attenzione israeliana da diversi anni, cosa che è stata ritenuta proprio uno dei fattori che ha permesso ad Hamas di preparare l’attacco, la Cisgiordania è il teatro principale delle tensioni tra palestinesi e israeliani. Gli scontri non sono solo causati dalle incursioni militari delle Forze Armate israeliane, ma anche dalle aggressioni condotte dai coloni che abitano la zona. Questi ultimi, infatti, hanno risposto molto violentemente alle vicende del 7 ottobre e avrebbero compiuto già più di cento aggressioni contro la popolazione palestinese, compresi almeno 7 attacchi mortali contro le comunità palestinesi, con modalità varie che comprendono sia azioni contro individui sia contro proprietà, con l’obiettivo di cacciare i palestinesi dai villaggi dell’area, con minacce di una nuova “Nakba” (“disastro” o “catastrofe”, con un chiaro riferimento a quanto avvenuto dopo la prima guerra arabo-israelo-palestinese del 1948) volta ad allontanare forzosamente i palestinesi che abitano quelle terre. Una condizione di paura e minaccia che, come riporta il giornale israeliano Haaretz, pare stia già dando i suoi frutti con diverse comunità palestinesi che hanno lasciato i propri villaggi.

Sebbene il portavoce dell’IDF Daniel Hagari abbia ordinato ai coloni di non interferire negli sforzi di lotta al terrorismo e seppure siano stati esclusi dal gabinetto di guerra i Ministri che rappresentavano questa parte della società israeliana, ovvero Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, proprio quest’ultimi hanno acceso le tensioni, chiedendo alla popolazione che vive negli insediamenti di farsi giustizia da soli. Specie Ben-Gvir è al centro delle polemiche perché ha annunciato che il suo ufficio del Ministero della Sicurezza Nazionale sta procedendo all’acquisto di 10.000 fucili per armare i civili, specificando che i destinatari sono i coloni degli insediamenti in Cisgiordania. L’aumento delle violenze da parte dei coloni mette significativamente in pericolo l’instabile equilibrio in Cisgiordania, con un’altissima probabilità che le tensioni favoriscano un’escalation incontrollata, situazione che anche lo Shin Bet (il servizio d’intelligence interno) ha voluto riportare all’attenzione del governo. Contemporaneamente, l’IDF porta avanti un’operazione militare nei territori, per eliminare quelli che secondo loro sono affiliati di Hamas. Negli ultimi giorni, infatti, ci sono stati scontri a Nablus, Qalqiya e Jenin, dove i carri armati israeliani hanno distrutto la recinzione di entrata nel campo profughi. Il risultato di queste incursioni sarebbero 1.030 arresti, di cui 670 presunti militanti di Hamas, e le morti palestinesi sarebbero circa un centinaio. L’aggiungersi anche degli attacchi dell’Esercito a quelli dei coloni fanno sì che la situazione nella Cisgiordania sia sempre più calda, con il rischio sempre maggiore di rinfocolare, dentro e fuori i confini della Cisgiordania, le piazze palestinesi e arabe, pur nella loro eterogeneità. Le prime avvisaglie ci sono già: le proteste contro l’offensiva su Gaza infuocano da settimane le principali città palestinesi, specialmente Ramallah, Hebron e Nablus, e poco servirebbe perché queste si trasformino in una vera e propria lotta contro l’occupazione israeliana. Non di meno, si sono mostrate violente e pressanti le richieste dei manifestanti palestinesi e arabi al Cairo, Amman, Beirut, Baghdad, Algeri, Rabat, Tripoli, Bengasi.

La reazione a catena che potrebbe accendersi dall’escalation incontrollata tra Israele e Cisgiordania potrebbe trasformarsi in un grave pericolo per la stessa stabilità interna di Israele. Il rischio, infatti, che si creino scontri tra la popolazione arabo-israeliana , che seppur abbia la cittadinanza israeliana non sempre si sente avere gli stessi diritti deli altri gruppi, e gli stessi israeliani porterebbe il conflitto ad un nuovo livello, non più in una dimensione extra-nazionale, seppur con le sue particolarità, ma in una vera e propria guerra civile. Infatti, le città miste, come Haifa o le città del sud di Israele, hanno cominciato già ad essere teatri di discriminazioni contro la popolazione araba di Israele, e dal 7 ottobre sono stati molti i casi che hanno visto i lavoratori arabi subire veri e propri attacchi razziali. A riprova di ciò, gli scontri del 28 ottobre nel campus della Università di Netanya, città tra Tel Aviv e Haifa, che hanno visto proprio contrapporsi gli studenti ebrei e arabi, con slogan molto violenti. Questa situazione però non è solamente legata ai fatti di inizio ottobre, ma è l’apice di decenni di disuguaglianze, che hanno visto la popolazione arabo-israeliana spesso lasciata a sé stessa, soprattutto per quanto riguarda la sua sicurezza.

A livello regionale, continua a farsi largo la preoccupazione che il conflitto si ampli anche agli altri Paesi vicini ad Israele . Qualora, infatti, gli altri attori non-statali, in particolare Hezbollah, decidessero di scendere in campo, la dimensione del conflitto si allargherebbe a tutta la regione, colpendo anche i governi di quest’ultimi. Ciò è particolarmente vero per il Libano, sede proprio di Hezbollah, che dall’inizio dell’escalation sta cercando di mantenersi fuori dalle dinamiche che potrebbero coinvolgerlo nel conflitto. Il Paese, già sull’orlo del fallimento economico, rischierebbe di vedere di nuovo truppe israeliane sul suo territorio, cosa tra l’altro minacciata proprio dall’IDF qualora Hezbollah decidesse di aggiungersi ufficialmente a fianco di Hamas. Anche se proprio dal Sud del Libano continuano ad essere lanciati razzi contro Israele, la scelta del Partito di Dio di attaccare anche dal fronte Nord Israele rimane però ancora una possibilità, seppur reale, specialmente ora che l’operazione di terra su Gaza è cominciata. Non è un caso che domenica 29 ottobre Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, abbia rilasciato un video dove annuncia che venerdì 3 novembre terrà un discorso sul conflitto.

Rimane sempre l’interrogativo sul coinvolgimento diretto dell’Iran . I rappresentanti della Repubblica Islamica mantengono un atteggiamento ambiguo: da una parte, sostengono pubblicamente una de-escalation del conflitto; dall’altra minacciano apertamente sia Israele sia il suo maggiore alleato, ovvero gli Stati Uniti. Se, quindi, Teheran continua ad essere poco chiaro sulle sue intenzioni, tutt’altro sembra fare attraverso i suoi alleati nella regione: gli Houthi dallo Yemen hanno già lanciato alcuni missili e droni nel nord del Mar Rosso, e le fazioni filo-iraniane in Iraq e Siria hanno colpito non solo le Alture del Golan, ma anche le basi americane nella regione.

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