L’attentato a Damasco e il ritorno della minaccia jihadista in Siria
L’attentato del 22 giugno avvenuto nella chiesa greco-ortodossa di Mar Elias, situata nel quartiere di Dweil’a, alla periferia di Damasco, segnala i rischi di una possibile riorganizzazione di cellule jihadiste attive tra Siria e Iraq, in un contesto di tendenziale diminuzione della pressione militare occidentale e di fragile transizione politica siriana. Secondo quanto riportato dal Ministero della Salute siriano, l’attacco è stato compiuto da un attentatore armato che, dopo aver aperto il fuoco sui fedeli riuniti in preghiera, ha azionato la cintura esplosiva che indossava, provocando 26 morti e 63 feriti. Le autorità siriane hanno attribuito l’attacco allo Stato Islamico (Daesh), sulla base delle modalità operative riconducibili al gruppo. Tale valutazione è stata confermata dal Ministero dell’Interno, che ha evidenziato come l’attentato rientri nel modus operandi tipico delle cellule jihadiste ancora attive nel territorio siriano. Ciò nonostante, qualche giorno dopo l’accaduto un semi-sconosciuto gruppo jihadista, noto come Saraya Ansar al-Sunna (parte della coalizione di Hay’at Tahrir al-Sham, da cui proviene l’attuale presidente ad interim Ahmed al-Sharaa), ha rivendicato l’attacco, motivandolo con presunte “provocazioni” subite da parte di alcuni cristiani di Dweil’a, quartiere misto musulmano e cristiano. Il portavoce del Ministero dell’Interno ha comunque addebitato l’atto a cellule che “seguono ufficialmente Daesh”, specificando che Saraya Ansar al-Sunna non sarebbe un gruppo indipendente ma affiliato allo Stato Islamico.
In risposta, il presidente al-Sharaa ha espresso una ferma condanna dell’accaduto, definendolo un atto vile e codardo volto a destabilizzare la sicurezza nazionale e a fomentare divisioni confessionali. Ha inoltre ribadito l’impegno del governo ad interim, che lavorerà incessantemente per assicurare i responsabili alla giustizia, rafforzando allo stesso tempo l’unità nazionale contro il terrorismo. Le operazioni di sicurezza non si sono fatte attendere. Secondo quanto riferito dallo stesso Ministero dell’Interno, le forze governative hanno arrestato diversi individui sospettati di aver preso parte all’attentato: durante un’operazione nei pressi di Damasco, sono stati sequestrati diversi ordigni esplosivi, insieme a una motocicletta imbottita di esplosivo. Anche il Ministero degli Esteri ha condannato duramente l’attacco, sottolineando come esso rappresenti un chiaro tentativo di sabotare la fragile convivenza tra i diversi gruppi etnici e religiosi che compongono il tessuto sociale siriano.
L’attentato si inserisce in un quadro più ampio, che segnala una ripresa delle attività dello Stato Islamico e di cellule jihadiste nella regione. Nel corso degli ultimi mesi, diverse fonti hanno evidenziato il crescente rischio di una riattivazione dell’ISIS in Siria e in Iraq: l’attacco di Mar Elias appare dunque non come un evento isolato, ma come parte integrante di una strategia volta a rilanciare l’azione di gruppi e milizie jihadiste. Secondo stime delle Nazioni Unite, l’ISIS (Daesh) conterebbe attualmente tra 1.500 e 3.000 combattenti attivi nella regione. Dalla caduta del regime di Bashar al-Assad, si ritiene che l’ISIS abbia iniziato a riattivare le proprie cellule dormienti, intensificando le attività di ricognizione e identificazione di obiettivi strategici, spostando uomini verso aree urbane sensibili, riorganizzando le reti di reclutamento, distribuendo armi e rilanciando la propaganda a sostegno della propria ideologia. Nel solo periodo compreso tra gennaio e maggio 2025, lo Stato Islamico ha rivendicato 38 attentati, a fronte dei 90 nello stesso arco temporale dell’anno precedente. Sebbene il numero risulti inferiore, questi attacchi rappresentano comunque oltre un terzo del totale dello scorso anno, segnalando una persistenza operativa e una capacità di azione non trascurabile.
Questo attacco avviene in un momento di profonda trasformazione politica. L’avvicinamento del governo di transizione guidato da Ahmad al-Sharaa alle potenze occidentali, in particolare agli Stati Uniti, segnato dall’incontro a Riyadh del 14 maggio, che ha avviato un processo di normalizzazione diplomatica, ha suscitato dure reazioni da parte dei gruppi estremisti islamici operanti in Siria. Inoltre, la Siria di al-Sharaa è vista come un argine contro l’influenza iraniana nella regione, e potrebbe persino aderire agli Accordi di Abramo. Tuttavia, alcune misure adottate nell’ambito di questa apertura internazionale sono state accolte con ostilità da parte dei gruppi radicali. In particolare, l’intesa con Washington per l’espulsione dei miliziani stranieri presenti in Siria e il rafforzamento della cooperazione antiterrorismo, considerata dagli Stati Uniti una condizione necessaria per la graduale revoca delle sanzioni, ha fornito all’ISIS un nuovo pretesto per rilanciare la propria narrativa, senza contare che anche altri gruppi jihadisti sembrerebbero insoddisfatti della postura assunta dal nuovo esecutivo siriano. Daesh ha esortato i combattenti stranieri presenti nel Paese a unirsi alle sue fila, presentandosi come l’unico baluardo in difesa dell’Islam contro la complicità tra Damasco e l’Occidente. A completare questo scenario instabile si aggiunge l’incertezza legata alla presenza militare statunitense. Il timore che la nuova amministrazione americana possa ordinare un ritiro delle proprie truppe dalla Siria solleva interrogativi circa il futuro assetto di sicurezza dell’area. Una tale decisione potrebbe compromettere la sorveglianza e la gestione delle prigioni e dei campi gestiti dalle Forze Democratiche Siriane (SDF) a guida curda, dove si trovano detenuti oltre 9.000 individui tra combattenti, loro familiari e cittadini stranieri, con il rischio concreto di fughe di massa e di un’ulteriore destabilizzazione della regione.
L’attacco di Dweil’a rafforza e conferma l’ipotesi che lo Stato Islamico e alcune milizie radicali sunnite (tra le quali alcune che hanno agito insieme a Hay’at Tahrir al-Sham per spodestare il regime di Assad) stiano entrando in una nuova fase operativa, caratterizzata da azioni mirate in ambito urbano e da attentati selettivi. Il colpo inferto a un luogo di culto cristiano, oltre al suo impatto materiale, ha un valore simbolico: fa riemergere paure esistenziali tra le minoranze religiose e mette a dura prova il fragile patto di coesistenza che costituisce uno dei pilastri fondamentali del progetto politico post-Assad. In tale contesto, la comunità cristiana, che rappresenta circa il 5% della popolazione, ha assunto un ruolo politico rilevante per il nuovo governo. Il suo peso simbolico e diplomatico è stato sottolineato dall’invito rivolto a due deputati repubblicani del Congresso degli Stati Uniti per una visita ufficiale nel Paese, dove hanno incontrato i vertici del clero cristiano. La visita ha avuto l’effetto di rafforzare l’immagine del governo di transizione come garante della protezione delle minoranze religiose, contribuendo a creare un clima favorevole al riavvicinamento con Washington. Tuttavia, un attentato di tale natura rischia di compromettere questo delicato processo di legittimazione interna e apertura internazionale. In un momento in cui l’esecutivo di al-Sharaa cerca di consolidare la fiducia delle comunità non sunnite e di dimostrare la propria capacità di garantire sicurezza e inclusione, attacchi contro simboli della convivenza interreligiosa rischiano di alimentare sfiducia, polarizzazione e tensioni settarie.
Un’ulteriore criticità deriva dal fatto che il sostegno delle potenze straniere al nuovo assetto siriano è esplicitamente vincolato alla costruzione di uno stato inclusivo e rappresentativo di tutte le componenti etniche e religiose. In questo scenario già fragile, l’attentato mette in luce non solo la vulnerabilità delle minoranze religiose, ma anche la limitata capacità dell’esecutivo di garantire sicurezza e controllare il territorio tramite il dispiegamento efficace di uomini e risorse. Alla luce di queste dinamiche, lo Stato Islamico e altri gruppi salafiti potrebbero trovare terreno fertile per riorganizzarsi, approfittando del caos siriano e della circoscritta capacità del governo di transizione di controllare il territorio, con segnali che lasciano presagire un possibile ritorno della minaccia jihadista nel Paese.