La Turchia nel confronto Israele-Iran, tra equilibrismo strategico e imperativi interni
Medio Oriente e Nord Africa

La Turchia nel confronto Israele-Iran, tra equilibrismo strategico e imperativi interni

Di Alessio Stilo
14.07.2025

Nel rimodellamento degli equilibri mediorientali successivo agli eventi del 7 ottobre 2023, la Turchia ha assunto una postura calibrata e marcatamente pragmatica, specchio di interessi nazionali articolati, priorità securitarie interne e un’ambizione geopolitica (esemplificata dal sintagma “secolo della Turchia”, che per Recep Tayyip Erdoğan racchiude la visione di politica estera a lungo termine) che si declina attraverso una politica estera oscillante tra assertività e contenimento. L’acutizzarsi dello scontro tra Israele e Iran, culminato nella fase cinetica di metà giugno 2025 e tuttora irrisolto sul piano politico-diplomatico, ha fatto emergere con forza le tensioni strategiche tra Ankara e Tel Aviv, un tempo partner militari e oggi rivali regionali. In tale contesto, la Turchia persegue una linea di “neutralità condizionata”, con l’obiettivo di evitare l’implosione della Repubblica Islamica, contenere il rischio di un’alleanza israelo-curda e rafforzare al contempo la propria posizione di interlocutore privilegiato in Siria e nella ridefinizione dell’ordine regionale.

Ankara, sebbene storicamente contraria al programma nucleare iraniano, ha evitato di appoggiare qualsiasi piano che possa condurre al crollo del regime iraniano, temendo le ripercussioni su più livelli: instabilità ai propri confini orientali, nuove ondate migratorie e una recrudescenza dell’irredentismo curdo. L’atteggiamento turco, emerso con particolare evidenza in occasione dei raid statunitensi contro gli impianti nucleari iraniani di Natanz, Isfahan e Fordow, si è caratterizzato per i toni sostanzialmente misurati. Il Ministero degli Esteri ha evitato qualsiasi condanna esplicita per gli attacchi, sottolineando la disponibilità turca a contribuire alla de-escalation. Una linea alquanto più cauta rispetto alle veementi dichiarazioni contro le operazioni occidentali registrate nel decennio precedente, riconducibile in parte alla convergenza personale tra il presidente Erdoğan e l’omologo statunitense Donald Trump, ma anche alla volontà di Ankara di preservare un margine di manovra autonomo nei dossier sensibili.

Il rapporto tra Iran e Turchia si colloca in una traiettoria storica secolare, segnata da rivalità imperiali, conflitti indiretti e parallelismi strategici. Dal XVII secolo, dopo secoli di scontri tra l’Impero Ottomano e quello Persiano, i due Paesi hanno evitato conflitti diretti, instaurando un tacito rispetto reciproco dei rispettivi spazi di influenza. Tuttavia, l’eventualità che l’Iran si doti di armamento nucleare rappresenta, per Ankara, una rottura storica del fragile equilibrio di potenza regionale, di per sé già violato dallo status (nucleare) israeliano de facto. Con un Iran atomico, la deterrenza simmetrica verrebbe meno, generando un’impennata di insicurezza strategica per la Turchia, che a quel punto non potrebbe (analogamente ad altri attori regionali come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto) esimersi dal perseguire un analogo processo di arricchimento dell’uranio a fini militari, trascinando l’area verso la proliferazione incontrollata. Il timore di una “asimmetria definitiva” rappresenta quindi un motore fondamentale dell’attivismo diplomatico turco sul dossier iraniano.

Nel complesso, pur sostenendo ufficialmente la necessità di evitare un Iran nucleare, la Turchia ha adottato in passato approcci non allineati a quelli degli alleati occidentali, come la violazione indiretta del regime sanzionatorio attraverso operazioni bancarie con Teheran. In ogni caso, Ankara si è opposta con forza, quantomeno a livello retorico, all’ipotesi di un attacco militare su larga scala contro l’Iran da parte di Israele, interpretato come una destabilizzazione incontrollabile della regione, soprattutto qualora nella Repubblica Islamica si creassero vuoti di potere.

Al contempo, la rivalità turca con Israele è divenuta sempre più strutturale, alimentata dalla competizione per l’influenza in Siria, dalle divergenze sulle questioni palestinese e curda, nonché dal progressivo avvicinamento strategico tra Israele, Grecia e Cipro nell’area del Mediterraneo orientale. L’epoca della cooperazione strategica tra Ankara e Tel Aviv, culminata negli anni Novanta con accordi militari, condivisione in ambito intelligence e collaborazioni industriali, è ormai un ricordo lontano. Il deterioramento è iniziato con la svolta filo-Hamas dell’AKP e si è radicalizzato dopo l’incidente della Mavi Marmara nel 2010. La recente guerra tra Israele e Iran ha ulteriormente alimentato la narrazione turca che presenta Israele come potenza destabilizzante, incline alla proiezione militare extraterritoriale e alla costruzione di alleanze tattiche anti-turche, incluso il sostegno indiretto ai curdi siriani. Oggi la rivalità si alimenta anche della competizione sul teatro siriano, dove a partire dal dicembre 2024 si è instaurato un nuovo corso politico influenzato da Ankara ma in cui, tuttavia, Israele gioca una partita di primo piano, tanto nel contrastare i condizionamenti turchi quanto nell’evitare ogni possibile ritorno dell’ascendente iraniano, tranciato dal crollo del regime di Assad.

Fattore centrale dell’attuale dottrina securitaria turca è la gestione del dossier curdo, inteso sia in chiave domestica (rapporto con la minoranza interna) sia in chiave transfrontaliera (YPG in Siria, PJAK in Iran). Ankara considera la dissoluzione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), formalmente annunciata nel maggio 2025, come una condizione imprescindibile per rafforzare il “fronte interno” e neutralizzare il rischio che l’instabilità iraniana possa essere sfruttata dalle ramificazioni curde per riproporre un’agenda separatista. In questo senso, l’ipotesi paventata da parte della stampa filo-governativa di una futura alleanza tra Israele e i movimenti curdi (in Siria, in Iraq e in Iran) rappresenta uno degli scenari più temuti dall’apparato securitario turco. Le dichiarazioni di esponenti israeliani favorevoli a un rafforzamento del legame con le comunità curde hanno alimentato tale percezione. La narrativa ufficiale turca, rilanciata anche da figure chiave come Devlet Bahçeli (leader del partito nazionalista MHP), presenta Israele come attore intenzionato a “circondare l’Anatolia” e a destabilizzare la coesione interna turca, alimentando il secessionismo etnico. Il teatro siriano rappresenta oggi il principale ambito di competizione strategica tra Ankara e Tel Aviv. Mentre la Turchia promuove la costruzione di uno Stato siriano centralizzato, funzionale e sotto controllo, volto a impedire il radicamento del PKK e delle sue affiliate (in primis le YPG), Israele preferisce una Siria debole e frammentata, più facile da contenere e meno suscettibile di diventare nuovamente uno snodo dell’influenza iraniana. La caduta del regime di Assad ha moltiplicato le incognite, ma ha anche offerto ad Ankara la possibilità di accrescere il proprio peso politico e militare, mentre Tel Aviv ha intensificato le proprie operazioni aeree e il coordinamento con attori locali alternativi. Tale cornice consente peraltro di intravedere spazi di convergenza: Turchia e Israele hanno interesse a evitare un’escalation incontrollata e l’emergere di nuovi attori ostili. La “visione turca” di una Siria che non minacci i suoi vicini rappresenta un possibile punto di contatto, sul quale gli Stati Uniti potrebbero costruire un canale di dialogo bilaterale. La recente decisione dell’amministrazione Trump di sospendere le sanzioni alla Siria post-Assad è stata accolta positivamente da Ankara, che vi ha visto un allineamento implicito con la propria agenda di stabilizzazione. Washington, consapevole della crescente tensione israelo-turca, potrebbe svolgere un ruolo di facilitatore, promuovendo un coordinamento pragmatico tra i due alleati al fine di evitare il rischio di una guerra per procura sul suolo siriano.

In tale quadro, la Turchia osserva con crescente apprensione la possibilità che le tensioni regionali degenerino in una guerra per procura più ampia, capace di destabilizzare ulteriormente l’area. Un Iran instabile o con vuoti di potere potrebbe non solo generare flussi migratori incontrollabili verso la Turchia, ma anche facilitare l’emergere di nuove entità non statali armate ai suoi confini orientali. Non a caso, Ankara sembra orientata a sostenere misure diplomatiche e sanzionatorie coordinate dagli Stati Uniti, purché non si traducano in un intervento militare su larga scala. L’obiettivo dichiarato resta quello di impedire all’Iran di dotarsi dell’arma atomica, senza provocare il collasso del suo Stato. Questo orientamento rispecchia sia una visione pragmatica della stabilità mediorientale che una strategia di contenimento dei rischi interni.

La postura attuale della Turchia si può riassumere come una neutralità tattica, che si articola lungo due assi paralleli: da un lato, contenere la pressione israeliana senza provocare uno scontro diretto; dall’altro, mantenere il dialogo con Teheran, evitando però che l’Iran acquisisca lo status di potenza nucleare. In questo quadro, l’alleanza tattica con Washington, fondata più sulla sintonia personale Erdoğan-Trump che su una convergenza strutturale, consente ad Ankara di ottenere margini di flessibilità, ma ne limita anche l’autonomia in caso di escalation futura. Ankara persegue un doppio obiettivo: posizionarsi come attore stabilizzante agli occhi di Stati Uniti e Unione Europea e allo stesso tempo come capofila di una sovranità regionale non allineata, che persegue interessi propri sia nel Levante che a livello extra-regionale (Africa, Caucaso, Asia centrale).

Se da un lato Erdoğan mira a contenere i rischi di una escalation regionale incontrollata, dall’altro utilizza la crisi per rafforzare il consenso interno, rilanciando un nazionalismo securitario che include una “pace tattica” con i curdi. L’equilibrismo turco si fonda dunque su una logica di bilanciamento tra due potenze regionali (Israele e Iran), ambedue percepite come potenzialmente minacciose ma anche come interlocutori inevitabili.

Photo Credits: Turkish President and leader of the AK Party, Recep Tayyip Erdoğan speaks during the event presenting the Century of Türkiye, AK Party’s projects and programs for the country’s future, in Ankara, on October 28, 2022. MUSTAFA KAMACI / AA