La Russia, le accuse di genocidio ucraino in Donbas e la verità distorta
Russia e Caucaso

La Russia, le accuse di genocidio ucraino in Donbas e la verità distorta

Di Marco Bocchese
25.03.2022

Sabato 26 febbraio, nel giorno forse più drammatico della storia ucraina dalla fine della Seconda guerra mondiale, il governo del presidente Zelensky ha citato la Federazione Russa in giudizio dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite. Vista la disperata battaglia per la sopravvivenza in cui governo e popolo ucraino sono impegnati, è lecito interrogarsi circa il motivo e la tempistica di tale decisione.

Nello specifico, l’Ucraina si è rivolta all’ICJ al duplice scopo di rigettare l’infamante accusa di aver commesso genocidio a danno delle minoranze russofone di Donetsk e Luhansk e contestualmente accusare la Federazione Russa di aver adottato una politica genocidaria nei confronti dei cittadini ucraini in quanto tali. Il motivo del contendere è dunque la volontà di appurare la direttrice lungo la quale l’odio latente si traduce in azione criminale. Stando alla definizione sancita dalla Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio del 1948, trattato multilaterale che Russia ed Ucraina ratificarono nel lontano 1954, il reato in oggetto può essere perpetrato ai danni dei membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Le minoranze linguistiche non sono quindi ricomprese tra le categorie suddette, la cui classificazione deve ritenersi tassativa anche alla luce dell’esclusione di gruppi di natura diversa in sede di negoziazione del trattato.

Ma perché si parla di genocidio in un contesto che, pur caratterizzato da molteplici atrocità, sofferenze e violazioni del diritto internazionale umanitario, non ricorda altri e più noti esempi di detto crimine, dall’Olocausto al genocidio cambogiano o ruandese? La risposta più plausibile ha poco a che fare col diritto ed attiene all’artificiosa costruzione di una narrativa di medio periodo intorno alla quale il governo di Mosca ha costruito il pretesto per l’odierna invasione dell’Ucraina. In parole povere, l’impiego, spesso ingiustificato, del termine “genocidio” apre scenari che vanno oltre la mera criminalità dell’atto. Il termine “genocidio”, infatti, genera aspettative con riferimento alla responsabilità del Paese che lo pone in essere, alla risposta che ci si attende dalla Comunità Internazionale nel suo insieme, ed al trattamento risarcitorio da adottare nei confronti di chi ne è vittima.

Tra i vari principi di diritto internazionali invocati dal governo di Mosca al momento del riconoscimento dell’indipendenza delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk figura innanzitutto l’autodeterminazione dei popoli, ma al Cremlino sanno bene che da decenni tale principio non è più sinonimo di indipendenza ma, tutt’al più, di autonomia amministrativa sull’esempio delle regioni a statuto speciale italiane o delle comunità autonome spagnole. Ma il principio di autodeterminazione viene altresì citato da Mosca nella sua controversa versione “rimediale.” Secondo questa teoria legale, al Kosovo fu consentito secedere dalla Serbia e dichiararsi indipendente nel febbraio 2008 pur senza il preliminare (e necessario) consenso di Belgrado proprio in quanto vittima di crimini contro l’umanità perpetrati del governo serbo. A quel tempo la Russia non fu l’unica ad ammonire gli Stati Uniti ed i suoi alleati che creare un simile precedente avrebbe avuto implicazioni destabilizzanti per un sistema internazionale fatto di stati sovrani, ma è altresì vero che da allora il governo di Mosca abbia ripetutamente cercato di replicare quanto successo in Kosovo a proprio vantaggio ed a danno di stati vicini, dalla Georgia nel 2008 all’Ucraina nel 2014 ed ancora nel 2022.

L’uso (od abuso) del termine “genocidio” mira non solo a stigmatizzare chi lo compie, ma anche a conferire una certa libertà d’iniziativa a chi voglia porvi fine attraverso l’impiego di misure coercitive che possono includere il ricorso ad operazioni militari. È così che negli anni 90 del secolo scorso alcuni Stati, Regno Unito e gli Stati Uniti in primis, cominciarono ad invocare il cosiddetto intervento umanitario, cioè l’uso della forza al fine esplicito di porre fine agli abusi e violazioni dei diritti umani commessi nello (e spesso dallo) stato contro il quale si interviene militarmente. Tuttavia, così facendo si finisce per violare apertamente i principi fondanti della Carta delle Nazioni Unite, tra cui l’obbligo per gli Stati membri di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, pur pretendendo che il fine nobile giustifichi la condotta illecita. Un noto esempio di intervento umanitario fu quello lanciato dalle forze NATO, Italia compresa, contro il regime di Milošević nel marzo 1999.

La Russia prese nota e propose la propria versione di intervento umanitario quando più le convenne. Nell’estate del 2008, quando le crescenti tensioni tra Georgia e le regioni separatiste dell’Abcasia e soprattutto dello Tskhinvali (altresì nota come Ossezia del Sud) crearono le condizioni per l’intervento armato russo a favore di queste ultime, il governo di Mosca accusò la controparte georgiana di pulizia etnica e genocidio ai danni degli ossetini. Ad onor del vero, non si è mai trovata traccia del suddetto genocidio sebbene le autorità ossetine lo commemorino ufficialmente ogni 20 giugno. Alle accuse di genocidio si accompagnava altresì un potente e rodato repertorio di analogie storiche, tali per cui la distruzione causata dalle forze georgiane a Tskhinvali ricordava quella assai più nota e grave di Stalingrado al termine del lungo assedio nazista. Detto repertorio, tuttora in uso, si riscontra chiaramente nelle recenti dichiarazioni di Putin secondo cui l’intervento russo si propone di “denazificare” la leadership ucraina.

Ma come si inventa un genocidio a tavolino? Si comincia da casa propria con costanza e pazienza, piegando la realtà storica agli imperativi della propaganda. Il caso del Donbas è emblematico a tal riguardo. Fin dal 2014, anno in cui il governo di Kiev perse il controllo di una parte significativa delle province orientali, il Comitato Investigativo della Federazione Russa ha prima istruito e poi condotto procedimenti penali a carico di cittadini ucraini accusati di genocidio contro membri della minoranza (qui appositamente elevata a gruppo nazionale) russofona dell’Ucraina orientale. A prescindere da dettagli squisitamente procedurali, quali l’assenza di giurisdizione penale su crimini asseritamente avvenuti in territorio ucraino, le autorità russe hanno rivisto ed allargato la definizione di genocidio fino a farvi rientrare le minoranze linguistiche. È altresì interessante notare come detta interpretazione, artificiosamente lata, contraddica allo stesso tempo sia la definizione di genocidio sancita dalla Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio che quella adottata dal Codice penale russo. Quanto alla tempistica, l’esercizio dell’azione penale in Russia ha convenientemente preceduto, seppur di poco, le prime accuse di genocidio rivolte agli ucraini da Putin, ormai risalenti al 2015.

Secondo le stime fornite dalla Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto nel Donbass al dicembre 2021 oltre 13.100 persone hanno perso la vita, inclusi 3.400 civili. Il numero dei feriti sarebbe di molto maggiore; gli sfollati supererebbero il milione e mezzo. Questi dati, indubbiamente drammatici, si riferiscono tuttavia sia alle vittime sul fronte ucraino che a quelle sul fronte separatista, incluse alcune centinaia di cittadini e militari russi schierati con le forze separatiste (400-500 secondo il Dipartimento di Stato Americano). Rapporti indipendenti pubblicati da organizzazioni non governative negli ultimi otto anni citano episodi di abusi da entrambi gli schieramenti. Perpetrati in larga parte da milizie filorusse e filo-ucraine, tali abusi in alcuni casi costituirebbero crimini di guerra. Tanto detto, ad oggi non c’è alcuna evidenza empirica che sostenga la tesi del Cremlino secondo cui sia in atto una politica genocidaria contro i membri della minoranza russofona nell’Ucraina orientale.

In conclusione, la Russia è sistematicamente ricorsa al vocabolario del diritto internazionale per (tentare di) giustificare azioni intraprese in palese violazione di trattati e consuetudini. Mosca ha ripetutamente agitato lo spettro del genocidio contro la minoranza russofona al fine di chiamare intervento umanitario quella che è invece un’invasione, far passare gli ucraini aggrediti come criminali neonazisti, e dipingere i separatisti come vittime della cieca violenza altrui sottacendone le molteplici atrocità commesse. Ciò non bastasse, il copione seguito dal governo russo non è neppure particolarmente originale, essendo già stato utilizzato in occasione del conflitto russo-georgiano dell’agosto 2008.

Che le accuse di cui sopra non fossero supportate dai fatti è emerso con chiarezza solo in seguito all’udienza del 7 ed 8 marzo u.s. dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, udienza alla quale la Russia ha strategicamente deciso di non partecipare. In una memoria depositata in data 11 marzo, la Russia ha sorpreso tutti, ammettendo che non v’è nesso causale tra il presunto genocidio in atto nel Donbass e l’intervento militare russo ancora in essere. Detto intervento è ora giustificato in termini di autotutela/legittima difesa di cui all’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. La suddetta memoria non deve aver convinto i giudici della ICJ, i quali, con 13 voti favorevoli e 2 soli contrari (espressi dal giudice russo e dal collega cinese), hanno ordinato alla Russia di sospendere immediatamente le operazioni militari iniziate in Ucraina. Il governo di Kiev si è dunque aggiudicato il primo round di questa battaglia legale, ottenendo l’applicazione delle misure cautelari richieste. Quale sarà l’epilogo del procedimento non è dato sapersi, ma si procederà comunque a ruoli invertiti: da grande accusatrice, la Russia è ora accusata di genocidio, il più grave di tutti i crimini.

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